MATERNITÀ

uno spettacolo di Fanny & Alexander tratto dal romanzo autobiografico di Sheila Heti (traduzione Martina Testa, Sellerio editore, 2019)

 


drammaturgia, costumi Chiara Lagani| regia, luci, progetto sonoro Luigi De Angeliscon Chiara Lagani| artwork Eleanor Shakespeare| architettura software multiscelta, cura del suono, supervisione tecnica Vincenzo Scorza| organizzazione, promozione Maria Donnoli, Marco Molduzzi| produzione E Production/Fanny & Alexander| grazie a Ateliersi, Giovanni Cavalcoli, Silvia Veroli


In Maternità, tratto dal racconto di Sheila Heti, una donna si chiede, di fronte al pubblico seduto davanti a lei, cos’è che la trattiene dal mettere al mondo un figlio. Non si tratta di un monologo, ma di una strana specie di dialogo, sospeso tra dimensione assembleare e gioco con il caso. Di fronte alle domande più difficili Sheila si rivolge alle persone in sala a cui è stato dato un piccolo telecomando con cui rispondere ai suoi quesiti. Le risposte si proiettano a ritmo incalzante su uno schermo sospeso sulla scena in un oppressivo codice binario: tutto è sì, oppure no, tutto è bianco, oppure nero. Sì e no è il timbro di un accanimento, di un’ostinazione, di una strana slabbratura dell’anima della protagonista che, mentre si interroga con ironia e ferocia su una questione così nodale, tende il ragionamento fino all’eccesso infrangendo a tratti il velo del pudore e portandoci a riflettere sul valore della scelta.
Il dialogo col pubblico oscilla tra immedesimazione e giudizio proiettando sul testo una serie di interrogativi intimi e comuni su temi da sempre controversi.

TOUR

DEBUTTO 8-9 luglio 2023, Inequilibrio, Teatro Solvay, Rosignano Solvay (LI)
4 settembre 2023, Le Città Visibili, Rimini
22 settembre 2023, Mercurio Festival, Palermo
12-13 dicembre 2023, Fèsta 2023, Ridotto del Teatro Rasi, Ravenna
22 dicembre 2023, Teatri di Vetro, Teatro India, Roma
13 e 14 aprile 2024, Angelo MAI, Roma
13 e 14 giugno 2024, Da vicino nessuno è normale, Olinda, Milano
6 settembre 2024, Festivaletteratura Mantova, Teatro Pagano, Canneto sull’Oglio (MN)
5 dicembre 2024, Piccolo Teatro, Padova
14-15 dicembre 2024, Galleria Toledo, Napoli
17, 18 e 19 gennaio 2025, Teatro Arena del Sole, Bologna
31 gennaio, 1 febbraio 2025, Teatro Rasi, Ravenna
22 marzo 2025, Teatro Koreja, Lecce

ph. Luigi De Angelis

Ph. Antonio Ficai @ Inequilibrio Festival

Ph. Antonio Ficai @ Inequilibrio Festival

Ph. Antonio Ficai @ Inequilibrio Festival

Ph. Antonio Ficai @ Inequilibrio Festival

Ph. Antonio Ficai @ Inequilibrio Festival

RASSEGNA STAMPA  

MATTEO BRIGHENTI, Pac
SABRINA FASANELLA, Teatro e Critica 
ALESSANDRO IACHINO, Doppiozero
FRANCESCA DE SANCTIS, L’Espresso
ANTONELLA LATTANZI, La Lettura – Corriere della Sera
FEDERICA ANGELINI, Ravenna e Dintorni
NADIA TERRANOVA, La Stampa
MICHELE PASCARELLA, Gagarin Magazine
ELISABETTA AMBROSI, Il Fatto Quotidiano
LISA BENTINI, La Falena
SARAH PERRUCCIO, Letterate Magazine
CHIARA MOLINARI, Theatron 2.0
ELENA CIRIONI, Banquo Magazine
CAROLINA GERMINI, Limina Teatri
FEDERICA ANGELINI, Reclam

 


Inequilibrio 2023 Mettersi in gioco è tutto, di Matteo Brighenti | PAC, 19 luglio 2023

Il teatro, quando è necessario, ti mette in testa una domanda. Te la consegna, te l’affida come una questione di importanza vitale, perché ha a che fare proprio con la tua vita. Ti interroga su come la stai vivendo e, soprattutto, su come la puoi cambiare per essere più te stessə, o meglio, per diventare più te stessə. Questo teatro è uno specchio della natura: la tua. E non di adesso, ma di domani.
Al Festival Inequilibrio 2023 della Fondazione Armunia, tra Castiglioncello e Rosignano Marittimo (Livorno), per il primo anno con la direzione artistica esclusiva di Angela Fumarola, gli spettacoli che ho visto mi hanno lasciato con questa domanda: “Quando troverai il coraggio di raccontarti fino in fondo?”.
Ora che la rileggo, però, non mi sembra esattamente questa. Manca qualcosa, come per un sogno raccontato, da sveglio, il mattino dopo. C’è, ma non del tutto. È quindi la forma che riesco a dare per condividerla ora, qui. È la sua eco, per capirci. Perché il teatro non ti interroga certo con le parole: ti interroga nelle emozioni, nelle sensazioni.
[…]
Non c’è una storia sola, ci sono le storie, che hanno per madre la capacità di dire ciò che si vede e, viceversa, di vedere ciò che si dice. Il nostro contributo è sostenere e ricambiare quello sguardo. È il modo canonico del pubblico di stare in una qualsiasi sala. I Fanny & Alexander nel loro Maternità ci danno la possibilità di esprimerci anche attraverso il voto.
Possiamo scegliere, o meglio contribuire a scegliere le direzioni dello spettacolo, indicando possibili sbocchi, esiti, soluzioni, attraverso l’uso di un piccolo telecomando che ci è stato consegnato all’ingresso. Per quanto la vicenda segua quella scritta da Sheila Heti nel suo libro omonimo, e a decidere il risultato delle votazioni non siamo né tu, né io, ma la maggioranza. Cioè, la rappresentazione del potere del senso comune, secondo cui, per esempio, soltanto l’avere figli realizza pienamente una donna. Un imperativo “culturale” e “naturale” attraverso cui il lavoro di Fanny & Alexander si fa strada per trovare la via di un’altra verità.
Dunque, Chiara Lagani e Luigi De Angelis indagano come fare un figlio alla soglia dei quarant’anni, ma anche come fare uno spettacolo, ovvero esplorano il racconto, ma anche il raccontare. La creazione si rivela una co-creazione. Così, Maternità prima di essere un esito, è un processo, in un andirivieni continuo tra scelta e rinuncia, immedesimazione e giudizio, o sospensione del giudizio. Il non sapere dove andare, eppure andarci tuttɜ insieme, ci fa restare in ascolto, con un’attesa legata ogni volta a un quesito diverso. Come il creatore di fronte alla sua nascente creatura.

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Maternità (Fanny & Alexander), di Sabrina Fasanella | Teatro e Critica, 19 luglio 2023

Al Teatro Solvay di Rosignano ha debuttato Maternità, l’ultimo lavoro della compagnia ravennate Fanny & Alexander. Ricalcando il modello della scrittura interrogatoria di Sheila Heti, autrice canadese dell’omonimo romanzo, Chiara Lagani e Luigi de Angelis costruiscono un dispositivo scenico in forma di assemblea pubblica, affidando agli spettatori l’avanzare dell’indagine sul tema più che mai controverso del titolo. Così come la protagonista-autrice del romanzo, Chiara Lagani parla in prima persona direttamente con il pubblico. Il primo aggancio è un esercizio di scetticismo: “Mi chiamo Chiara e sono incinta. Vero o Falso?”. Domanda dopo domanda, cui lo spettatore è chiamato a rispondere attivamente e istintivamente tramite un telecomando, emergono i nodi problematici della tematica: il rapporto di una donna con il proprio corpo; le aspettative personali e sociali su di esso; la vocazione dubbiosa alla maternità; le insidie della scelta e gli inganni della libertà. L’ingaggio dello spettatore, che segue l’esito della “votazione” su uno schermo in tempo reale, sembra volto a suscitare lo stesso tipo di dubbi: da quante e quali cose è condizionata la nostra scelta? Quale prezzo paga il pensiero all’esercizio della libertà? Ma anche: quanto è davvero nostra la scelta che facciamo? Questo (intenso, a tratti ossessivo o apparentemente superfluo) lavoro di scelta e giudizio approda ad una seconda parte in cui il dispositivo ritorna alla sua funzione rappresentativa. Questo spostamento di equilibri, mediato in maniera più esplicita dalla convenzione della luce e del costume, non solleva lo spettatore dal suo ruolo attivo, ma lo trasforma: se da un lato si palesa in maniera più decisa il meccanismo dell’eterodirezione, dall’altra continua ad aleggiare il dubbio che ciò che accade sia stato deciso e scelto a priori, esattamente come accade ad una donna, la cui biologia è orientata e orientante verso un destino che non necessariamente corrisponde alla vocazione genitoriale.

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Fanny&Alexander, il dilemma della maternità, di Alessandro Iachino | Doppiozero, 22 settembre 2023 

I pochi oggetti che costellano il palco sul quale ha luogo Maternità sembrano mostrare, più della loro stessa funzione quotidiana, una natura allegorica. Come in un dipinto di scuola fiamminga, essi sono latori di immaginari altri, di un simbolismo che lo spettatore potrà definire letterario, mistico, finanche psicoanalitico: uno specchio, un coltello, un vaso di fiori dal quale svettano alcuni gigli. La scena disegnata da Fanny&Alexander per la sua nuova creazione – presentata a luglio in prima nazionale a Rosignano Solvay, all’interno dell’edizione 2023 del festival Inequilibrio – si rivela essere, già al primo sguardo, una sciarada la cui possibile soluzione sembra celarsi in ambiti del reale liminali, nei quali il potere d’azione del singolo individuo, le sue decisioni e il suo arbitrio, si scontrano con forze inconoscibili e incommensurabili. Alla loro origine si potranno forse individuare dubbi, paure e desideri inconfessati, oppure una collettività ostile e indifferente, o infine un fato iscritto nella carne e rivelato da un’annunciazione laica: chiaro, benché sottile, è invece il sospetto che volontà straniere, suggestioni magiche ed esoteriche, possano condizionare il soggetto che questo stesso palcoscenico, e questo mondo, si trovi adesso ad abitare.

Al suo ingresso, Chiara Lagani è sola: un abito nero, e nessun angelo al suo fianco. I fiori bianchi alla sua destra, privati della presenza rassicurante di Gabriele e delle sue ali, si impongono così come un mero dato di fatto, una condizione ineludibile e vagamente minacciosa alla quale risulterebbe insensato rispondere “eccomi!”. Eppure, è anche con Dio che Sheila Heti – il cui romanzo (Maternità appunto), tradotto in italiano da Martina Testa e pubblicato da Sellerio, costituisce la genesi della drammaturgia – immagina di dover contrattare, patteggiare, perfino lottare: non come Maria di Nazareth, bensì come Giacobbe, colui che fronteggiò l’angelo per ottenere una benedizione e diede il nome di Penuel al luogo della battaglia. Ma in Maternità gli episodi biblici si sovrappongono e si confondono, trasformando in lotta l’eventualità di un figlio: Heti, classe 1976, si interroga sul proprio desiderio di essere – o piuttosto di non essere – madre, restituendoci le angosce, le improvvise risoluzioni, i tentennamenti e le fantasie che, intorno ai quarant’anni di età, la accompagnano ogniqualvolta domanda a sé stessa: voglio un figlio? I quesiti si susseguono, nel quotidiano autoesame della saggista canadese, scaturendo dall’analisi sul proprio statuto di intellettuale, dal confronto con le biografie di amiche e amici, da incontri casuali ed episodi estemporanei. I sì o i no che la donna pronuncia determinano scelte ulteriori e ulteriori dilemmi, in un’estenuante, corrosiva inquisizione di una vocazione, e del mondo che da millenni ne edifica la forma e le caratteristiche: “fare bambini è un compito specifico delle donne?”, “l’universo perdona le donne che fanno arte e non fanno bambini?”.

È stato forse questo il primo elemento di attrazione tra la scrittura di Heti e quella di Lagani, il cui rapporto con gli universi narrativi e letterari, con le loro torsioni e le loro sedimentazioni, si è manifestato tanto nel lavoro come traduttrice quanto in quello di autrice, declinandosi ora nell’indagine dell’universo fiabesco (ecco il pluriennale lavoro su L. Frank Baum, e poi su Lewis Carroll, in attesa di scoprirne una nuova espressione nell’adattamento della Trilogia della città di K. di Ágota Kristóf, al debutto al Piccolo Teatro a dicembre) ora nell’esplorazione delle possibilità dell’enigmistica, fino alla traduzione scenica della tetralogia di Elena Ferrante e l’affondo nella galassia di David Foster Wallace. Di Maternità, Chiara Lagani recepisce in prima istanza l’incedere dicotomico, e costruisce una sofisticata drammaturgia diagrammatica, ad albero, nella quale le tappe della vicenda si susseguono come alternative antitetiche, e il prosieguo del racconto, dell’esperienza di vita della protagonista e narratrice, assume conformazioni mutevoli in base alle svolte, agli inciampi, alle curve possibili imposte dall’incontro, irripetibile, con il pubblico. Nel dispositivo ideato da Fanny&Alexander, la rielaborazione testuale affronta infatti la discrezionalità degli spettatori: all’ingresso, a ciascuno è consegnato un telecomando, ai cui tasti corrispondono le possibili risposte delle domande che Heti/Lagani pone a sé stessa e alla platea. Gli esiti dei sondaggi, mostrati in diretta su uno schermo posto sul fondale, influenzano lo scorrere del racconto, e piegano la vita della protagonista agli umori altrui. Ingaggio dello spettatore, esplosione della drammaturgia, e il ricorso all’eterodirezione come medium per uno scavo nelle possibilità attoriali: con Maternità il gruppo fondato da Lagani insieme a Luigi De Angelis – qui nel ruolo di regista, light e sound designer – propone molte delle soluzioni che l’hanno imposto tra i protagonisti della scena a cavallo del millennio, e tuttavia ancora una volta ne interroga i sensi e i precipitati etici e sociali, resi in questo caso incandescenti dall’oggetto posto al centro dell’attenzione.

Lungi a limitarsi a una mera sperimentazione narratologica e teatrale, Maternità coinvolge così la comunità transitoria della platea in atipici referendum, in consultazioni che affidano al potere della maggioranza di decidere non soltanto le sorti del racconto, quanto di un’intera esistenza: e la delega della responsabilità, quell’ormai consueto affidare a spettatrici e spettatori una frazione del potere assoluto tradizionalmente in mano all’autore, assume adesso contorni sinistri, inquietanti. La pura contemplazione di un percorso biografico muta così in un’intrusione nel destino di una singola donna, delle sue scelte intorno all’esperienza – possibile, desiderata, rifiutata – di una gravidanza, e ci restituisce quanto e come le comunità – mosse da imperativi religiosi, assunti morali, valori politici – possano interferire con desideri intimi e autodeterminazioni. Una volta ancora, altre donne e altri uomini decidono e giudicano, commentano e soppesano le motivazioni alla base di un fatto privato, in una chiara manifestazione del dominio esercitato sul corpo della donna. E in questo perturbante gioco, così simile a un innocuo test pubblicato su un settimanale e così violento nelle sue conseguenze, Maternità affonda lo sguardo nelle simbologie, nelle raffigurazioni, nelle interpretazioni che l’esperienza della riproduzione tuttora genera, gettando una sonda nel grumo inespresso di paure e sogni che celiamo dentro di noi: “se voglio figli o meno è un segreto che nascondo a me stessa: è il più grande segreto che nascondo a me stessa”, chiosa Sheila Heti, mentre Lagani volge versi di noi lo specchio, illuminandoci il volto e i nostri timori, le nostre esitazioni.

Eppure, di un tema così magmatico – su queste stesse pagine, Maddalena Giovannelli ha ripercorso alcune sue recenti manifestazioni a partire dallo spettacolo Anatomia di un suicidio della compagnia lacasadargilla – la regia di De Angelis e l’asciutta, algida presenza scenica di Lagani sembrano offrirci solo il suo precipitato cerebrale, privandoci di quel rancore, quel dolore, quell’orgoglio che una scelta, o piuttosto la sua ricezione da parte di una comunità spettatoriale, potrebbero originare. Proprio questo raffreddamento della temperatura emotiva della performance diviene tuttavia un’efficace dimostrazione della frizione tra vita e norma, tra legge e individuo, tra maggioranza e singolo: il binarismo delle approvazioni e dei dinieghi si rivela incapace di restituire le ancipiti risolutezze e il caos scaturiti dall’idea stessa della maternità, con i suoi recessi e le sue ipostasi. E con intelligenza filosofica, la creazione di Fanny&Alexander esplora il crinale tra rappresentanza rappresentazione, tra potere politico e produzione estetica, confondendone i confini e gli ambiti, e felicemente confondendoci. Heti/Lagani trasferisce sul piano della creazione artistica quello della procreazione, e l’esperienza ideativa di un libro o di una performance si meticcia con quello della filiazione: ecco che la lotta con l’angelo muta di senso, e il luogo della battaglia potrà chiamarsi Maternità, “perché è dove ho visto Dio faccia a faccia, eppure ho avuto salva la vita”. Quanto la genitorialità di progetti e oggetti artistici sia un succedaneo, un ostacolo, o un alibi della maternità, è un quesito al quale Heti, Lagani e ciascuno di noi, cerca di rispondere nel processo stesso dello spettacolo, o di una vita intera. Nella sua seconda parte – annunciata da un rapido cambio d’abito e da un breve interludio nel quale il pubblico si esprime su questioni capitali del nostro tempo, come l’omogenitorialità o la gestazione per altri – Maternità così dilaga e divaga, inseguendo il viaggio della protagonista e dell’artista in una città livida e arcana, di destabilizzanti incontri con cartomanti e gravidanze di amiche: e tanto la rielaborazione drammaturgica quanto la recitazione sembrano accostarsi sempre più alla protagonista, accostandola come in un lungo piano-sequenza cinematografico. Per lasciarla poi sola, infine a decidere: a prendere una scelta, e a tagliare via un cordone ombelicale.

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Maternità a quiz, di Francesca De Sanctis | L’Espresso, 8 dicembre 2023 

«Mi chiamo Sheila Heti, ho 48 anni e sono incinta». Alle spalle dell’attrice la risposta viene proiettata su uno schermo sospeso in codice binario: Vero o Falso. «Dunque, devo preoccuparmi?»: Si, No. «Allora sto facendo tutto giusto?»: Si, No, Non so. Le domande si susseguono per tutta la durata dello spettacolo che ha debuttato quest’estate al Festival Inequilibrio, “Maternità”, della compagnia Fanny & Alexander (in questi giorni anche al Piccolo di Milano con “Trilogia della città di K”). Qui lo spettatore ha una grande responsabilità: scegliere se la protagonista può avere un figlio o no (e non solo). Come? Spingendo un tasto sul telecomando distribuito all’entrata. Qualcuno schiaccia subito il pulsante, qualcun altro si sente a disagio nel dover rispondere a tutti quei quesiti su un tema che tutto sommato è ancora un tabù. Quante donne, infatti, parlano di procreazione assistita, aborto, fertilità senza provare imbarazzo?

Con sfumature diverse la storica compagnia ravennate aveva già toccato l’argomento in altri lavori (da “Discorso giallo” a “Addio fantasmi”), ma stavolta lo prende di petto partendo dal testo di Sheila Heti – “Maternità”, Sellerio, 2019, traduzione di Martina Testa – in cui una donna si chiede se vuole avere o no un figlio e interroga il libro dell’I Ching per ottenere una risposta. Chiara Lagani, invece, interroga il pubblico. Lo spettacolo, diretto da Luigi De Angelis, è diviso in due parti: nella prima Lagani/Heti confessa i propri dubbi al pubblico, nella seconda racconta una giornata tipica di Sheila. Ma attenzione, perché le storie cambiano. La drammaturgia è ad albero, in base cioè alla risposta del pubblico, procede in una direzione o nell’altra, come programmato dal software inventato da Vincenzo Scorza, una modalità di racconto già sperimentata dalla compagnia in “Oz”, con i bambini muniti di telecomando. Cosa succede alla fine? Te ne vai con una domanda che ti frulla per la testa: è la vita che ti sceglie o sei tu a scegliere? Insomma, siamo davvero liberi o no?

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Ditemi, vi prego se voglio un figlio, di Antonella Lattanzi | La Lettura – Corriere della Sera, 10 dicembre 2023 

“Spesso guardavo il mondo da una grande distanza,  o non lo guardavo affatto. […]. Vivevo solo nel mondo grigiastro e senza senso della mia mente, dove cercavo di affrontare tutto ragionando e non arrivando a nessuna conclusione. Avrei voluto avere il tempo di mettere insieme una visione del mondo, ma il tempo non c’era mai, e oltretutto chi ce l’aveva sembrava avercela avuta fin dalla più giovane età, non aveva cominciato a quarant’anni”. Comincia così Maternità, romanzo di Sheila Heti tradotto per Sellerio da Martina Testa. Da queste pagine, l’ormai storica compagnia teatrale Fanny & Alexander ha tratto lo spettacolo omonimo, in scena il 22 dicembre al Teatro India all’interno del Festival Teatri di Vetro (all’India di Roma e al Teatro del Lido di Ostia da domenica 10 al 22).
“Una visione del mondo” … Sembra che il nodo centrale di questo libro importante e dello spettacolo importante che l’ha ispirato stia qui. A quarant’anni, quanta gente ti dice: finalmente ho capito chi sono, finalmente ho meno paura. E invece ci sono altri, e qui, sulle pagine in scena, ci sono altre – cioè un’altra per tantissime altre –  che si chiedono: e adesso? Adesso, chi sono? Sheila Heti, la protagonista del romanzo e la donna che dice “io” nello spettacolo, ha un lavoro in campo artistico che adora, una bella casa, un compagno che ama. Sì, va bene, ma c’è qualcosa che ticchetta e le dice: sta per finire. E quel qualcosa che ticchetta non è tanto l’orologio biologico (immagine odiosa) quanto i pensieri nella testa: Tu che sei donna lo vuoi, un figlio? E, se non l’hai avuto fino a quarant’anni, la domanda potrebbe essere: perché?

Scritto e interpretato da Chiara Lagani e diretto da Luigi De Angelis – fondatori della compagnia Fanny & Alexander, vincitrice di numerosi Premi Ubu, sempre cangiante e poliforme ma il cui lavoro si focalizza spesso sul portare in scena romanzi (come Ada o ardore di Vladimir Nabokov, Addio Fantasmi di Nadia Terranova, L’amica geniale di Elena Ferrante) – Maternità si tuffa in  questa domanda non come in un terso mare blu ma come in un buco nero sospeso nello spazio. Se hai il coraggio di attraversarlo, questo buco ti porta in una nuova dimensione, migliore, anche, meno colpevole, meno grigiastra, azzarderemo. “Da subito – dice Lagani – ho avuto in testa la prima frase dello spettacolo: Mi chiamo Sheila Heti, ho quarantotto anni e sono incinta. E siccome avevo deciso che Maternità sarebbe stato un racconto ad albero”, cioè un racconto interattivo, in cui è ogni spettatore che deciderà come andrà avanti lo spettacolo tramite un telecomando con cui può rispondere solo sì o no alle domande di Chiara/Sheila in scena, “ho pensato che l’inizio giusto fosse: Mi chiamo Sheila Heti, ho quarantotto anni e sono incinta. Vero o falso? Non volevo un distacco attore/pubblico. Volevo costruire una comunità coinvolta,  anche a costo di creare una zona di disagio. Tempo prima, avevo fatto uno spettacolo con i telecomandi per bambini. Mi sono detta: devo trovare una questione per replicarlo con gli adulti. Però, se si tratta di scelta, deve essere una scelta difficile da compiere”. Quale più difficile di quella: voglio un figlio?
E allora, immaginiamo la scena. Lo spettacolo è diviso in due parti. Nella prima c’è Chiara/Sheila sul palco. “La scena è molto cruda. Io parlo senza amplificazione, a voce nuda”. Chiara è vestita di nero. In scena ci sono uno specchio, due coltelli, un vaso di gigli. Chiara pone al pubblico le domande che nel suo romanzo Sheila Heti pone all’I Ching. Si compone, così, la storia di una donna che alle soglie dei quarant’anni s’interroga sulla domanda delle domande, e che scopre che dentro questa domanda c’è tutto: vita, morte, fertilità, menopausa, congelamento degli ovuli, l’essere genitori, l’essere figli, sesso, lavoro, arte. Sul palco le domande si rincorrono, una dopo l’altra, come nel libro di Heti. “A seconda delle risposte dello spettatore, ogni sera succede qualcosa di diverso”. Adesso il ciclo mi sta diventando irregolare. Solo un anno fa mi veniva puntuale ogni ventotto giorni. Adesso può sballare di due o tre giorni anche di più. Tutto questo mi rattrista. È stupido? Quanto puoi sperare di lasciartela alle spalle, la vita di tua madre? – sono alcune domande. E poi, illuminante, definitiva: Ma le decisioni non sono azioni. Perché in una vita succedano delle cose, bisogna che partecipino altre persone. Non basta volerlo, deciderlo. Tutta una serie di cose devono funzionare insieme. La vita stessa deve volerlo. Una decisione mentale è poca cosa. Non basta a far nasce i bambini. Volere non è potere; finalmente qualcuno lo dice. Ma si può vivere – continua Chiara/Sheila – tutta la vita così, sempre dentro una domanda?
Sappiamo tutti che la risposta è sì. “Durante lo spettacolo guardo in faccia le persone – dice Chiara -. È uno tra gli spettacoli più difficili che abbia mai fatto, perché è costruito sulla relazione con il pubblico, molto dura per me da sostenere”. E allora perché scegliere un libro come questo da portare in scena sul proprio corpo? Forse perché a un certo punto per una donna questa domanda diventa martellante, e non può farne a meno; ma il punto è che non è una questione femminile, è una questione anche maschile. “Ho letto tantissimi libri sulla maternità in questi anni, perché ci penso sempre. Maternità è quello che mi ha dato più fastidio, alla prima lettura non lo potevo sopportare. Però c’erano certe domande che continuavano a rimbalzarmi in testa in maniera ossessiva e mi sono detta: questo libro mi interroga”.
Ora la scena è diversa, la prima parte è finita, mentre Chiara si cambia il pubblico viene martellato da domande su questioni più politiche – l’omogenitorialità, la gestazione per altri – “e deve scegliere in un attimo: si, no. È violentissimo, chi è che in due secondi può dare queste risposte? Però mi interessava proprio questa velocità, anche perché in qualche modo rimescola qualcosa dentro di te”. Chiara torna in scena vestita di bianco, le luci cambiano. Adesso è un’attrice che fa un monologo, sempre tratto dal libro di Heti. Racconta una sua “giornata particolare” in cui questa ossessione è talmente rovinosa che tutto intorno a lei parla di un unico argomento: la cartomante, l’amica a cui si rompono le acque, tutto quello che succede la richiama lì, nel pensiero di un figlio, “e lei è come in questo gorgo che diventa comico alla fine, perché questa insistenza ha qualcosa di comico, ed è un sollievo anche da questa specie di gioco al massacro”.
Chi l’avrebbe mai detto che una domanda così – voglio un figlio? – potesse essere un gioco al massacro. Eppure lo è. Così Sheila, così Chiara, non hanno paura e ci fanno le domande. E cosa possiamo fare quando non sappiamo decidere su una cosa importante? Possiamo, forse, cercare le risposte nel buio di un teatro, in cui può capitare, a volte, di trovare anche schegge di noi stessi.

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Chiara Lagani e la maternità: «Porto in scena l’ultimo dei tabù», di Federica Angelini | Ravenna e Dintorni, 11 dicembre 2023

Chiara Lagani, classe 1974, ravennate, è fondatrice di Fanny & Alexander, autrice e interprete di numerosi spettacoli che hanno sperimentato diversi linguaggi e ottenuto premi e riconoscimenti internazionali.

Nell’ambito di Fèsta, martedì 12 e mercoledì 13 dicembre porterà per la prima volta a Ravenna – teatro Rasi, ore 21 – uno dei suoi più recenti spettacoli: Maternità. Tratta dal romanzo di successo Motherhood di Sheila Heti (tradotto in Italia da Martina Testa e pubblicato da Sellerio), la produzione affronta un tema quanto mai complesso e oggetto recentemente di dibattito e particolare attenzione. Heti infatti in uno scritto dall’impronta fortemente autobiografica affronta il tema del desiderio o del rifiuto di fare figli.

Lagani, perché portare in scena proprio questo tema? E perché farlo adesso? La maternità o la non- maternità è ancora un tabù?

«Ci sono due ordini di ragioni. Il primo è politico e culturale, perché sì, credo sia ancora un tabù, uno dei pochi tabù a essere sopravvissuti in qualsiasi ambiente, anche dove, come in quello artistico-culturale, invece si sono fatti enormi passi avanti rispetto ad altri temi come l’identità sessuale. Intorno alla maternità è faticoso esprimersi, le donne continuano a vergognarsi di qualcosa di cui non dovrebbero vergognarsi. Viene fatta loro pesare un’eventuale infertilità, ma anche l’aspirazione a una carriera nonostante abbiano un figlio. Mi è sembrato un tema, e qui veniamo al secondo ordine di ragioni dietro questo spettacolo, perfetto per una ricerca in ambito artistico: volevo coinvolgere anche il pubblico adulto in uno spettacolo interattivo come era stato Oz per il pubblico dei ragazzi».

In che senso interattivo? Cosa viene chiesto al pubblico?

«Viene chiesto di esprimersi tramite telecomandi distribuiti prima dello spettacolo che offrono una scelta multipla. A volte sono questioni marginali, a volte frontali, si crea una zona di disagio e imbarazzo che va abbattuto. Questo tema mi sembrava ideale per esporre una sensibilità collettiva».

Per farlo è partita da un libro, non da un testo suo. Come ci ha lavorato? Le parole sono quelle della traduttrice Martina Testa?

«Sì, ho scelto di utilizzare il testo di un’autrice che ha fatto molto discutere. L’abbiamo contattata e ha approvato la nostra idea di spettacolo. Il testo è stato tagliato, molto manipolato, ma sì, sono partita dalla versione italiana».

L’autrice ammette di aver scritto una storia autobiografica, lei in qualche modo si è ritrovata in quella vicenda?

«Ci sono sicuramente delle risonanze, anche io non ho figli, anche se partivo da un presupposto opposto, perché io, a differenza, di Sheti, non ho deciso di non avere figli. Ma credo che in ogni caso l’autrice sia riuscita a porre domande, a mettere in crisi chiunque, perché questo è un tema che ci riguarda tutti».

In fondo, se non siamo tutte madri, siamo pur sempre figlie…

«Esatto, tutti e tutte noi abbiamo a che fare con il tema della maternità e mai come con questo spettacolo mi era capitato, nelle poche repliche fatte finora, che le persone mi aspettassero per raccontarmi le loro esperienze dicendomi “questo non l’ho mai detto a nessuno”».

In realtà ultimamente l’argomento sulla sacrosanta legittima scelta delle donne di non aver figli è stato molto dibattuto e ci sono state molte voci importanti a questo proposito. L’anagrafe ci dice che sempre meno donne fanno figli. Per chi crede possa essere più disturbante?

«Penso che nessuno possa avere certezze monocolori su questo argomento. Di primo acchito mi sembra respingente l’eccessiva sicurezza nell’affermare l’una o l’altra cosa, è un tema talmente complesso e inevitabilmente conflittuale che non credo possa essere trattato in modo troppo assertivo. Dovremmo tutte e tutti essere molto indulgenti. Questo tema merita indulgenza».

Nel dibattito odierno spesso si pensa alla maternità e non-maternità come una questione di libera scelta della donna come individuo. Eppure fare o non fare figli non è una questione anche politica, che riguarda la collettività sotto molti punti di vista?

«Certo, lo spettacolo nasce anche dal bisogno che sento di dover tenere alta la guardia su questo tema. Il problema vero è che soprattutto la sinistra non se ne è mai occupata. Per quante donne in realtà non si tratta di una scelta fino in fondo? Quante alla fine non fanno figli perché non possono permetterselo prima di una certa età, quando magari la biologia non te lo permette più? E la destra invece cerca di riportare la condizione della donna alla madre che rinuncia alla carriera, disposta a sacrificare la propria vita pubblica per quella privata. Infine, va detto che in generale, non tutto nella vita è scelta, a volte le cose accadono o non accadono e basta. Dobbiamo imparare a parlarne. Per questo, in occasione dello spettacolo, ho organizzato anche un incontro in Classense, il 13 novembre (ore 17.30), con Nadia Terranova e Simona Vinci, due scrittrici con cui mettere in comune esperienze».

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Non siamo figli delle scelte, di Nadia Terranova | La Stampa, 18 dicembre 2023 

Una donna bionda, vestita di nero, si presenta sul palco: “Mi chiamo Sheila Heti, ho quarantotto anni e sono incinta”. Quale di queste affermazioni è una bugia? La donna verosimilmente ha quarantotto anni. Non sembra incinta, ma non possiamo escluderlo. Di certo non si chiama Sheila Heti. È Chiara Lagani, lo sappiamo perché abbiamo scelto di vedere il suo spettacolo. Sappiamo anche che Sheila Heti è l’autrice del libro Maternità, da cui Chiara Lagani è partita per la sua drammaturgia.
“Mi chiamo Chiara Lagani, ho quarantotto anni e sono incinta”. Neppure questa presentazione va bene. È incinta la donna sul palco? Chi ha letto Heti sa che il suo testo è una lunga scommessa al di qua della linea, un gioco a dadi con il destino sul diventare o meno madri. Scelta o fatalità? “Se voglio figli o meno è un segreto che nascondo a me stessa: è il più grande segreto che nascondo a me stessa”. Lo dice Heti, lo dice Lagani. Lo diciamo tutte, anche quelle che sembrano più decise, più barricate sull’una o sull’altra posizione. Dubitiamo spesso o anche solo ogni tanto, di nascosto a noi stesse prima ancora che ai nostri mariti, ai nostri amici impiccioni, alle nostre madri, alla società. Una volta almeno abbiamo dubitato tutte: quelle che si sentono madri da sempre, quelle che non si sono sentite madri mai. Sheila Heti usava l’i-Ching come dispositivo letterario, Chiara Lagani interagisce direttamente con gli spettatori che all’ingresso in sala ricevono un piccolo telecomando con cui rispondere. Il destino esiste – dice il libro, il destino siamo noi – dice il teatro.
La donna sul palco continua a farsi domande, mentre la circondiamo in un cerchio che non la abbraccia, non la stringe. È sola, come siamo sole quando guardiamo dentro il nostro corpo, e non rifiutiamo la biologia che ci definisce anche contro le nostre idee e le nostre decisioni: ovulare, non ovulare, il sangue, il menarca, la menopausa. Le risposte sullo schermo sono verdi, rosse, bianche. Sì, no, non lo so. Vero, Falso. Aspettare, Rinunciare, Tentare. La drammaturgia di Maternità si ramifica come un albero, devia sotto le raffiche di vento, e il vento è il consenso o il rifiuto, il volere della maggioranza. Essere madri o non madri dovrebbe riguardare solo noi, ma non è così: siamo massa, pazienti ginecologiche, dati politici di natalità, sondaggio. Il dispositivo di gioco mette a nudo la pressione di tutta la vita, quella che gli uomini non provano mai. Posso capirla, forse, ma non esperirla. Chissà come sta rispondendo il mio vicino di posto, non posso fare a meno di chiedermelo, mi interessa come può interessarmi la cartolina di un Paese esotico. Invece so bene cosa sta rispondendo la mia vicina, madre di due maschi, che di certo sa cosa sto rispondendo io, madre di una femmina. Ed entrambe sappiamo cosa risponde la donna in prima fila, che figli non ne ha partorito. Ma guarda, anche questa è solo un’illusione. Forse nessuna sa niente di nessun’altra, anche se si illude di sì. Io, per esempio, ho vissuto per più di quarant’anni da nullipara, e ho letto Maternità, il libro intendo, quando avere figli non era nel mio orizzonte. Adesso sono a teatro a vedere Maternità, lo spettacolo, dopo che una bambina ci è piombata dentro occupandolo tutto, quell’orizzonte. Ho l’impressione di sapere come risuonano le stesse parole con figli e senza figli, ma invece cosa ne so io delle altre? Cosa posso sapere di chi un figlio l’ha avuto e non ce l’ha più, oppure l’ha desiderato fino a soffrirne senza mai riuscirci? Siamo qui perché quella parola nuda, “maternità” ci interroga una a una, ciascuna in modo diverso. Ci sono tante madri quanti figli al mondo, e forse persino di più. Maternità interroga pure gli uomini, che restano sul bordo di un mistero dal quale restano esclusi, reagendo all’inevitabile estraneità con rabbia o con spaiamento, con dolcezza o con livore. Perché la possibilità di generare – non per forza il generare, ma la sua sola possibilità, attraversata o negata – è così potente che non sempre, non tutti riusciamo a tollerarla. “Si dice che fare figli è la decisione più grande che uno possa prendere. Ma le decisioni non sono azioni” dice Lagani/Heti sul palco. E ancora: “una decisione mentale è poca cosa. Non basta a far nascere i bambini. Ma se è una decisione mentale a far nascere i bambini, perché veniamo giudicati in base a ciò che ci succede come se dipendesse da una nostra decisione?”.
Lo spettacolo, come il libro, finisce senza una gravidanza. Non sappiamo se ci sarà o meno, ma non possiamo fare a meno di chiedercelo, come dentro un giallo che finisce a dirci il nome del colpevole. Poi facciamo un passo indietro, tutte. Chi ha deciso (o la vita ha deciso per lei) di non avere figli; chi ha deciso (o la vita ha deciso per lei) di averne. Siamo state tutte lì in mezzo, almeno una volta.
È quella soglia, quella porta che incastra senza sbloccarsi per il tempo di un istante o di tutta la vita. È lei la linea che ci rende sorelle.

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L’arte della domanda. Su Maternità di Fanny & Alexander, di Michele Pascarella | Gagarin Magazine, 19 dicembre 2023 

«Gli spettacoli, più che risposte, sono domande»: così Chiara Lagani in apertura di una riflessione su Maternità, nuova creazione di Fanny & Alexander che ho visto il 12 dicembre al Teatro Rasi di Ravenna nell’ambito di Fèsta 2023 e che sarà in scena al Teatro India di Roma venerdì 22 dicembre per Teatri di Vetro (e ancora a Roma, ma all’Angelo Mai, il 13 e 14 aprile, nonché in diverse altre città in una tournée che si sta definendo).
Le fa eco, per così dire, Francesca De Sanctis in chiusura della sua recensione su L’Espresso dell’8 dicembre: «Te ne vai con una domanda che ti frulla per la testa: è la vita che ti sceglie o sei tu a scegliere? Insomma, siamo davvero liberi o no?».
Tra le riflessioni di queste due donne valorose metto i miei two cents: teatro come arte della domanda.

Sideralmente distante da ogni veicolazione di univoci messaggi, o tanto peggio di qualsivoglia predicazione, Maternità interpella senza posa i presenti sulla scelta della protagonista a proposito del diventare o meno madre.
Piccoli telecomandi sono dati alle persone, le cui sedute perimetrano lo spazio scenico, per rispondere in maniera chiusa (sì/no, oppure scegliendo fra 3 o 4 opzioni) a una raffica di domande più o meno strettamente pertinenti all’oggetto: questo il contenuto referenziale.
Ma giacché la storia dell’arte è, si sa, storia del come, prima e più che del cosa, vorrei ora guardare a ciò che linguisticamente accade, in questo dispositivo scenico.
E vorrei farlo evocando le polarità freddo-caldo mutuate da Marshall McLuhan. Vale forse ricordare che per il sociologo e filosofo canadese freddi sono i medium a bassa definizione (che richiedono cioè un’alta partecipazione dell’utente per riempire, completare le informazioni non trasmesse), mentre caldi sono quelli caratterizzati da un’alta definizione e di conseguenza da una minor partecipazione necessaria affinché l’atto comunicativo possa compiersi.
In Maternità la partecipazione è certo necessaria affinché «il congegno abbia gioco», per dirla con Andrea Zanzotto: la fabula prende strade diverse a seconda di ciò che le spettatrici e gli spettatori presenti votano di volta in volta.
Vi è dunque, un affidarsi al caso, ancorché entro un alveo delimitato: come non pensare a John Cage e Merce Cunningham e al loro consegnare all’I Ching (così come fa la protagonista del racconto di Sheila Heiti da cui lo spettacolo prende linfa) la composizione di certi loro accadimenti performativi?
A proposito di Merce Cunningham: riprendendo per un attimo l’opinabile contrapposizione con Pina Bausch sostenuta da alcuni storici della danza (forma vs contenuto, astrazione vsnarrazione, gelo vs calore, eccetera) vien da pensare a come questo spettacolo, similmente ad altri progetti per la scena di Fanny & Alexander, persegua una via altra.

In millimetrico equilibrio tra pulizia formale e distacco, nettezza dei segni e loro tagliente affilatura, qui -a volerlo vedere- si è chiamatə in causa a molti livelli.
Se si è donne forse anche per rispecchiamento tematico ed eventualmente autobiografico.
Se si è uomini (ah, quanto son d’accordo con il regista Luigi De Angelis là dove afferma che su questi temi dovrebbero legiferare -forse finanche prender parola, aggiungo io- solo le donne) comunque come soggetti e oggetti di linguaggio.
L’incedere ritmicamente incalzante delle domande obbliga a scelte repentine, e ciò porta ad accorgersi di dar voce spesso a triti luoghi comuni, di esser parlati più che parlare: con minimale ferocia Maternità ci consegna alla responsabilità smisurata del prender parola (Foucault docet) su ciò di cui poco o nulla si sa e su cui sarebbe necessario tacere, ascoltare.
La premura che argutamente è imposta rende grottescamente straniante votare su questioni tanto intime quanto delicate: ci si ritrova, d’improvviso, leonesse e leoni da tastiera, che dicon la propria su tutto, senza nulla sapere.
Questioni legate alla genitorialità, certo, ma anche ai rapporti tra umani e riflessioni linguistiche sul medium che si sta condividendo, il teatro appunto, con il suo inevitabilmente accordato patto di riconoscimento e trasduzione soggettiva del sempre mobile rapporto tra finzione e realtà.
Soggettiva: questa è forse la parola che mi son portato a casa da Ravenna, dopo aver incontrato questo piccolo, geometrico esempio di un’idea e una prassi di arte come inquieta e inquietante attivazione psico-emotiva di chi la fruisce.
Uso qui l’aggettivo geometrico per evocare, di Maternità, l’organizzazione dello spazio scenico e l’articolazione della drammaturgia luminosa, ma anche la disorientante misurazione del luogo in cui si sta, si dice la propria, si fan capriole.
Son capriole di e in ciascunə, quelle che (non) ho visto accadere.
Essere radicalmente soli in un rito che non può che dirsi collettivo, una temporanea comunità di corpi che insieme circondano un vuoto vertiginoso e insieme lo fanno esistere, guidati da un’attrice in bilico tra la Marion de Il cielo sopra Berlino e un’istitutrice svizzera: non Cunningham vs Bausch, piuttosto Cunningham e Bausch.
Il teatro, qui, si configura come danza di parole e pensiero nello spazio condiviso. E la scrittura (drammaturgica, registica, luminosa, sonora, eccetera) ne è coreografia.

E andarsene con una domanda, diceva Francesca De Sanctis.
Senza morali, messaggi, né soluzioni edificanti.
Piuttosto -e che preziosa fortuna, specialmente in questo tempo in cui con un cellulare in mano ci illudiamo di poter sapere all’istante qualsiasi cosa- con la vertigine di esserci per un attimo affacciati sul bailamme furibondo delle altrui alterità attraverso un dispositivo precisissimo.
È una curiosa capriola: bisogna saperla fare, bisogna volerla fare.

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Maternità, l’attrice Chiara Lagani: “Contro i tabù, porto in scena la libera scelta”, di Elisabetta Ambrosi | Il Fatto Quotidiano, 20 dicembre 2023

“È incredibile come ancora oggi la scelta, o il fatto, di non aver figli, sia un tabù anche per le donne più evolute”. Chiara Lagani, attrice e fondatrice, con Luigi De Angelis, della compagnia Fanny&Alexander, sta per portare in scena a Roma, il 22 dicembre a Roma presso il Teatro India, lo spettacolo Maternità, all’interno del Festival Teatri di Vetro. Tratto dall’omonimo libro della scrittrice canadese Sheila Heti pubblicato per Sellerio, lo spettacolo si crea anche insieme al pubblico, dotato di un piccolo telecomando con cui rispondere alle domande dell’attrice. Uomini e donne sono coinvolti tanto che, dice Lagani, “molte donne (ma anche alcuni uomini) vengono alla fine dello spettacolo e mi confidano cose personalissime e poi dicono che è la prima volta che lo fanno. Sono spesso cose dolorose, che di solito si tengono dentro di sé. Sento che questo spettacolo ha il potere di trasformare qualcosa di duro, complesso in qualcosa in utile, creando sorellanza tra vari esseri femminili. Ci si può allora guardare con comprensione rispetto a una soglia che tutte abbiamo attraversato, pur con risposte diverse”.

Può spiegarci, anzitutto, che rapporto ha questo spettacolo con il Festival Teatri di Vetro?

Il rapporto che Fanny&Alexander ha con Teatri di Vetro dura da molti anni. La sua direttrice Roberta Nicolai è un’artista, una curatrice che accompagna i progetti in maniera particolare. È una delle prime persone a cui ho parlato di questo progetto.

Il pubblico, in questo spettacolo, ha un telecomando con varie opzioni. Equivale a quello che nel libro di Heti rappresenta il lancio della moneta da parte della donna?

Sì, esatto. Ho pensato di introdurre un interlocutore, il pubblico, dando al racconto una struttura ad “albero”. Avevo già fatto uno spettacolo per bambini simile sulMago di Oz, con i bambini che potevano, appunto, determinare il destino dei protagonisti con un piccolo telecomando. Volevo fare la stessa cosa per gli adulti, ma serviva una questione difficile, che creasse una zona di disagio. E la maternità era il tema adatto, l’ultimo grande tabù.

Una donna senza figli è vista come qualcosa di instabile. E anche invisibile. Senza figli dall’esterno non si capisce, scrive Heti, il senso della vita di una donna.

Oggi trovare donne senza figli è molto più frequente. Eppure è vero che nello stereotipo comune, nell’idea usurata di famiglia in cui una donna corona il suo ruolo con la maternità, chi trasgredisce questa regola è meno classificabile. Vedere una donna che ha scelto diversamente – oppure che si è semplicemente ritrovata a non avere figli – fa venire il desiderio di saperne qualcosa di più. Io non esprimo mai un giudizio rispetto alla vita delle altre donne, ma ho sempre un senso di grande curiosità per quelle vite, per le loro ragioni, per le loro scelte o non scelte.

L’autrice sostiene che la scelta di avere figli è come paradossale, impossibile. La definisce “un baco nel cervello”. È così anche per lei?

La domanda sui figli è capitale e riguarda tutte e tutti. Più che paradossale è un tema pieno di complicazioni, perché ha a che fare con la vita e con la morte. Mettendo al mondo una vita si accetta la possibilità della morte, del dolore ed è qualcosa che sembra sovrumano da accettare.

Nel libro il fatto di aver resistito all’impulso di fare un figlio viene raccontato anche come una vittoria contro il tempo dentro cui le donne sono costrette, mentre gli uomini possono vivere nello spazio.

Sì, parliamo di un tempo biologico, organico, oggettivo, il famoso “orologio biologico”, definizione infelice. La protagonista pensa di congelare gli ovuli, ma poi alla fine rinuncia perché, dice, “sarebbe stato come congelare la mia indecisione”. In qualche modo l’autrice è consapevole che il tentativo di opporsi a tutti i costi al tempo è anche qualcosa di un po’ sconsiderato, di fatale. Ma spesso mi chiedo, in relazione allo scorrere del tempo, quanto sono bene informate e consapevoli oggi le ragazzine? Noi non lo siamo state così tanto, mi pare.

Un altro aspetto è l’impossibilità di prendersi cura di un figlio e dell’arte al tempo stesso, in generale avere figli e fare qualcosa di impegnativo emotivamente e spiritualmente.

La prima frase che pronuncio entrando in scena è questa: “Mi chiamo Sheila Heti, ho 48 anni e sono incinta”. E subito lo spettatore deve scegliere se è vero o no, se decide di credermi. E c’è anche fin dall’inizio, in parallelo, la questione della creazione artistica e di quella biologica, che ho cercato di tenere sempre separate ma parallele, come lo sono nella mia vita.

Come giudica il dibattito pubblico sulla maternità e anche, purtroppo, il suo utilizzo politico?

È una delle ragioni che mi ha spinto a trasformare in spettacolo questa riflessione, perché occorre che non si abbassi mai la guardia. Ci sono discussioni che entrano nello spettacolo – l’omogenitorialità, la gravidanza per altri – molto pericolosi da trattare con l’accetta: sono temi delicatissimi, che meriterebbero rispetto sia a destra che a sinistra.

Quest’ultima, però, non ha fatto abbastanza.

È amaro constatarlo, ma questo è stato considerato sempre assurdamente un argomento “di destra”, che dunque se ne è impossessata in maniera a volte strumentale. Ma che cosa è stato fatto in generale per le donne? Come sono state sostenute, anche dai governi di sinistra o oggi dalle opposizioni, in questi percorsi difficilissimi? Il fatto che le donne ritardino questa decisione è dovuto anche a disagio sociale, povertà, precarietà; la genitorialità non è sufficientemente sostenuta. Parlare di questi argomenti è assolutamente necessario, per proteggere anche le nuove generazioni. Vorrei tanto portare lo spettacolo alle superiori, nelle scuole, per potere parlare con le giovanissime e i giovanissimi. Conoscere non risolve le cose, ma sicuramente avvantaggia.

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Maternità di Fanny & Alexander, di Lisa Bentini | La Falena, febbraio 2024

«Mi chiamo Sheila Heti, ho 48 anni e sono incinta»: è questa la prima di una serie di affermazioni che costellano Maternità, lo spettacolo che Fanny & Alexander ha realizzato a partire dalla lettura dell’omonimo libro della scrittrice canadese Sheila Heti (Sellerio 2019). L’attrice Chiara Lagani appare seduta su una panca, vicina a un vaso di fiori, non fiori qualunque, bensì gigli. La scena richiama quella di un’annunciazione, ma non c’è nessun angelo a porgere i fiori, nessun angelo ad annunciare il lieto evento; tranne quello contro cui lotta Giacobbe, citato nel testo e poi ripreso nello spettacolo. Il vaso di gigli è un significante dimidiato, una natura morta, e ad annunciare la propria gravidanza è una donna, una donna sola con se stessa, una donna in carne e ossa.
«Mi chiamo Sheila Heti, ho 48 anni e sono incinta», leggiamo sullo schermo alle spalle dell’attrice: «vero o falso?». È importante questa scritta perché a ogni spettatore è stato dato un telecomando con cui dovrà decidere se Chiara Lagani sia Sheila Heti e allora sta aderendo al patto finzionale; oppure se al contrario non ci crede, e decide di rimanere sul piano della realtà. Sin dall’inizio dello spettacolo arte e maternità sono, come accade anche nel libro, due questioni legate indissolubilmente.
Per scrivere Maternità la stessa Heti si era affidata, ispirandosi all’I Ching, a una sorta di testa e croce. Di fatto il testo è tempestato di domande con cui la scrittrice interroga il proprio desiderio di maternità e, tra un si e un no, dipana i nodi della scrittura: «più uso queste monete», osserva Heti – «più vi faccio queste domande», ci dice Lagani sulla scena – «più sento che il mio cervello diventa elastico». Lagani costruisce si tutto lo spettacolo sfruttando la natura interrogativa del libro, ma fa ancora di più: dà allo spettatore la possibilità di partecipare direttamente alla storia raccontata e addirittura quella di imprimere una direzione alla scrittura.
Inizialmente sembrerebbe un gioco, anche se le domande non hanno di certo un carattere ludico, ma semmai ironico, e di un’ironia tagliente come nella scena in cui Chiara-Sheila, dopo aver incontrato dentro un negozio di animali l’amica Marion che si complimenta con lei, credendo le sia venuta la voglia di avere un cucciolo, si domanda se l’amica parlasse di un cane o un di bambino.
La scelta azzeccata di coinvolgere il pubblico nella scrittura dello spettacolo è particolarmente significativa, tanto più se si considera quanto sia spinoso il tema affrontato e quanto l’opinione pubblica abbia influenzato e influenzi ancora il desiderio di maternità. Ma è anche inquisitoria: ogni volta che si è chiamati a rispondere a una domanda, anche le risposte appaiono sullo schermo, come durante una votazione e, volenti o nolenti, gli spettatori sono comunque costretti a prendere atto delle decisioni altrui, a lasciarsene influenzare o all’opposto a percepirle come fastidiose o profondamente sbagliate: in ogni caso non possono evitarle.
Allo stesso tempo più il discorso sulla maternità diventa mentale più, dall’altra parte, il corpo della donna reagisce in modo imprevedibile, rispondendo a logiche completamente diverse. Così avviene ad esempio quando Sheila riceve i complimenti dal dottore per le sue ovaie giovani, che lui paragona a due fichi freschi: «come poteva il mio corpo tradirmi così?», si domanda, «Non sapeva nulla di quello che desideravo davvero?». Il corpo sembrerebbe esprimere un desiderio diverso, ma poi, con i suoi tempi e i suoi ritmi, non può fare a meno di inserirsi nel continuo oscillare tra il desiderio di avere figli e non averli, come a dire che non è la sola mente a indagare a fondo la questione, e neppure a risolverla.
Nello spettacolo l’aspetto elucubrato e volutamente snervante del botta e risposta è stemperato dalla presenza materiale del corpo, più precisamente da come, seguendo un climax ascendente, il corpo di Chiara-Sheila irrompe sulla scena, raccontando quello che accade dentro e fuori di lei, non tanto con le parole, quanto soprattutto con la grana della voce e con i gesti: per esempio, quello con cui delir mita con lo scotch uno spazio, una sorta di “bozzolo” del corpo e della scrittura, o quello con cui tiene in mano un coltello in attesa di trovare un posto giusto ove riporlo.
Anche la scelta stessa di tenere il pubblico vicino al palco è una scelta di prossimità, che sembra voler ricordare allo spettatore di non dimenticarsi mai del corpo che ha davanti: vuole suggerire che il discorso sul materno è nel contempo un discorso intimo e pubblico.
«A 48 anni si può fare uno spettacolo… non un figlio. Vero o falso?», Oltre ad alludere provocatoriamente all’equazione opera-figlio, in questa come in tante altre riflessioni di Heti si rende evidente il timore, per una donna artista, di perdere la capacità creativa, e più in generale la libertà, nel momento in cui fa un figlio. A questo proposito viene in mente Il lavoro di una vita di Rachel Cusk (Einaudi 2021) nella cui introduzione la scrittrice racconta di quando, in seguito al parto, il marito si licenziò e insieme decisero di lasciare Londra. A coloro che ne avevano chiesto il motivo, stupiti e persino preoccupati, Cusk aveva risposto semplicemente che il marito si era preso cura dei figli mentre lei era intenta a scrivere proprio un libro sul prendersi cura dei figli. Nessuno aveva trovato divertente quella risposta e noi non fatichiamo a immaginare il perché, così come non stupisce che una giornalista abbia domandato a Siri Hustevdt «come fosse essere moglie, madre e anche scrittrice», perché certamente a un uomo non sarebbe mai stata rivolta quella domanda (Madri, padri e altri. Appunti sulla mia famiglia reale e letteraria, Einaudi 2023).
Uno dei primi discorsi che Sheila affronta con il suo compagno, Miles, che incarna moltissimi stereotipi e pregiudizi maschili sulla maternità, riguarda proprio le artiste che diventano madri. «Ma l’universo perdona le donne che fanno arte e non fanno bambini? All’universo importa qualcosa, se le donne che non fanno arte scelgono di non fare bambini?». Sia che si faccia arte o meno, il punto in questione sta tutto il quel “non”, considerato per secoli come un difetto, e con sospetto. Scegliere di fare o non fare figli è, ancor più che una scelta, un vero e proprio dilemma, perché è il desiderio stesso di mettere al mondo figli ad essere insondabile e ambivalente: volere o meno un figlio resta, come scrive Heti, «il più grande segreto che nascondo a me stessa». D’altra parte la maternità, come ha osservato acutamente Hustvedt «è stata ed è soffocata da così tante sciocchezze sentimentali e regole punitive su come agire e sentire che anche oggi rimane una specie di camicia di forza culturale». Ciò che colpisce nel discorso di Hustvedt, oltre all’immagine quanto mai calzante della camicia di forza, è l’aggettivo sentimentale. La stessa Heti definisce il sentimentale «un sentimento sull’idea del sentimento». In uno dei passi più lucidi del libro Heti si accorge di come le sue propensioni per la maternità fossero molto legate all’idea di un «sentimento sulla maternità», e per spiegarsi meglio cita la storia, narratale dalla cugina, di una giovane che cucinava il pollo esattamente come lo cucinava sua madre che a sua volta lo cucinava come sua nonna e così via. Alla domanda del perché lo cucinassero cosi la risposta era sempre la stessa: perché la madre lo faceva così. Oltre a evidenziare lo stretto legame che il sentimento di maternità ha con le proprie madri («quanto puoi lasciartela alle spalle la vita di tua madre?») – legame puntualmente ripreso nello spettacolo – Heti arriva a definire perfettamente il proprio rapporto con la maternità: «Ecco, penso che l’idea di avere figli per me sia po’ così: un gesto un tempo necessario che è diventato sentimentale». Insomma il sogno di maternità è un po’ come il sogno d’amore: un sentimento costruito, edulcorato, talvolta manierista, insomma sentimentale.
Forse è il lato femminile del patriarcato. Solo decostruendo collettivamente il discorso sulla maternità si potrà essere più libere di scegliere. E tutto si sposta sul significato di quella scelta. Maternità di Fanny & Alexander è uno spettacolo teatrale che non poteva essere più incisivo e originale, e allo stesso tempo fedele al libro.

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Madri, non madri. Libertà e ossessione, di Sarah Perruccio | Letterate Magazine, 11 aprile 2024

Chi ha letto il libro lo sa. La protagonista di Maternità, il libro di Sheila Heti, può risultare insopportabile. La donna, che narrando tutto in prima persona in forma diretta e spesso diaristica è facile assimilare all’autrice, è iper-razionale, lamentosa, giudicante di sé e delle sue amiche, insofferente, indolente, succube delle opinioni del compagno. Ecco qui, come lei forse vorrebbe, inizio proprio dal giudicarla, così come l’autrice ci spinge a fare e ci sfida al contempo a non fare. Eppure, questa donna così poco piacevole, pone una domanda fondamentale e la pone continuamente e ossessivamente a noi che leggiamo. Devo o non devo procreare? lo desidero? è giusto farlo? ha senso? Questa domanda/ossessione si ripete e si espande in tutte le declinazioni che ci è dato immaginare, prendendo anche le forme del sogno, con bambini e bambine ipotetici, più o meno voluti. Il libro crea questa distanza, chi legge può valutare tutte le questioni che l’autrice pone ma, a mio parere, farà fatica a immedesimarsi. Difficile sentire pena per la donna persino quando ci scrive che soffre o ci racconta della solitudine della sua infanzia perché il modo in cui lo fa è di una freddezza glaciale, di una neutralità disarmante. Almeno questa è stata la mia esperienza di lettura.
Il tono, la distanza che la donna pone tra sé e chi legge (e sembrerebbe anche tra le varie parti di sé) l’ho ritrovata nel lavoro teatrale Maternità di Fanny&Alexander, ispirato al libro. La protagonista, la drammaturga e attrice Chiara Lagani, si presenta in una tuta nera e si rivolge direttamente al pubblico. Le domande che la ossessionano vengono poste a noi, mentre lei riflette ad alta voce e, stavolta, dalle poltrone del teatro ci è dato rispondere. «Dovrei fare un bambino?» «Ma l’universo perdona le donne che fanno arte e non fanno bambini?». Come nel libro le riflessioni e le brevi narrazioni sono intervallate da molte domande. Sulla pagina stampata la donna lancia tre monete, ispirandosi vagamente al metodo di divinazione degli I-Ching, e dalle semplici risposte affermative e negative germogliano nuovi interrogativi, ricordi, riflessioni.
L’entità superiore, non meglio definita, che la donna interroga nel libro è incarnata, a teatro, da noi spettatrici e spettatori. Sono pochi i secondi in cui possiamo scegliere e selezionare la nostra risposta. Sarà la pancia a decidere, l’istinto. Il flusso del racconto procede seguendo ciò che la maggioranza ha scelto utilizzando un piccolo telecomando. Questo meccanismo da un lato fa sì che la storia prenda ogni sera un percorso diverso, dall’altro ci fa sentire la responsabilità delle nostre opinioni dal momento che la donna compirà delle scelte in risposta alle nostre preferenze. L’opinione della maggioranza, il modo in cui questa perlomeno appare e risuona, ha un impatto forte su una donna alla fine dell’età fertile, lo ha a teatro come pure nella realtà. Questo sembra mostrare lo spettacolo. Il pubblico, nel suo scegliere in fretta, deve decidere seguendo l’istinto, e forse questo non fa altro che rivelare i pregiudizi di ciascuno. Ci vengono poste le domande più complesse ma non è possibile argomentare, il sì e il no del meccanismo rispecchiano la polarizzazione che spesso caratterizza un certo modo di fare dibattito pubblico. Il meccanismo si attiva anche per domande meno cariche di problemi etici, semplici bivi che portano la storia in una direzione piuttosto che un’altra. Questo strabordare di domande da un lato rende la fruizione più giocosa e attiva, dall’altro, volutamente, crea quella sensazione di eccesso, propria di una mente che rumina incessantemente, facendoci vivere nella testa dell’autrice del romanzo.

Lo spettacolo è diviso in due parti, segnate da un cambio di costumi e di atmosfera, che fanno seguire a questo incipit inquisitorio una seconda parte più sognante e profonda.
Questo lavoro non è certamente un’esperienza rassicurante, ci chiama in causa, ci sfida, così come fa il libro di Heti. C’è poco da stare comodi sulle sedie in platea se, assieme a Chiara, siamo a volte inquisite e a volte prendiamo il ruolo degli inquisitori. Il processo è quello fatto alla donna che «vuole figli?, non li vuole?», «è indecisa?», «li vuole per altri?», «li vuole troppo tardi?». Pressioni che tutte sentiamo nelle diverse fasi della nostra vita sapendo che qualunque scelta sarà ritenuta inadeguata. Alla fine, un fuoco di rapidissime domande sulle questioni più apertamente politiche, legate alla procreazione e al diritto alla genitorialità, ci lasciano senza fiato e ci ricordano anche quanto una scelta apparentemente libera (ogni scelta del resto è manifestazione di un qualche livello di libertà) lo è in maniera incredibilmente limitata. Limiti imposti da aspetti culturali, biologici, biografici, politici, legali. E così anche l’ossessione della scelta da compiere si fa un po’ più leggera. Non è certo tutto nelle mani di Chiara/Sheila, o nelle nostre. Esiste un piccolo margine di scelta, in fondo, tra tutti i limiti imposti dalla realtà. E per quel piccolo margine, a fine spettacolo, viene voglia di continuare a riflettere e battersi.

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Il più grande segreto che nascondo a me stessa: Maternità di Fanny & Alexander, di Chiara Molinari | Theatron 2.0, 19 aprile 2024

«Se voglio figli o meno è un segreto che nascondo a me stessa: è il più grande segreto che nascondo a me stessa».

È sul crinale di questa domanda abissale che si muove Maternità (Sellerio, 2019), romanzo di Sheila Heti che ispira l’omonimo spettacolo di Fanny & Alexander – scritto e interpretato da Chiara Lagani e diretto da Luigi De Angelis –, andato in scena all’Angelo Mai il 13 e il 14 aprile.
A partire da interrogativi radicali e insolubili sul proprio desiderio – districandosi tra gli imperativi imposti culturalmente e quelli dettati dalla propria biologia – che la scrittrice canadese si affida alla divinazione e alla consultazione dell’I Ching: ogni lancio di monete offre una risposta affermativa o negativa, conducendo così la narrazione in una direzione inedita e imprevista, in un serrato confronto con il Caso che giunge a configurarsi come una lunga sessione di autoanalisi.
Lo sforzo di Chiara Lagani è quello di trasformare il monologo interiore che appartiene alla dimensione della scrittura in una forma di dialogo con il pubblico, che è chiamato a sviscerare in termini politici, sociali e psicologici questioni quali le responsabilità connesse alla maternità, l’omogenitorialità, il diritto all’aborto, la gestazione per altri (definita, proprio il giorno prima della replica romana, “pratica disumana” dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni).

La riflessione si allarga dunque per divenire comunitaria: gli spettatori – talvolta abbagliati dal riflesso di uno specchio per essere interpellati singolarmente – sono invitati a esporsi tramite una scelta, che può essere compiuta, in un brevissimo arco di tempo, grazie all’utilizzo di un piccolo telecomando fornito a inizio spettacolo: «I figli si hanno o si fanno?». «Siamo troppi o troppo pochi su questa Terra?». «Mi sarà e vi sarà utile questo spettacolo?».
La pièce – esattamente come il romanzo – procede quindi per scossoni: la risposta che ottiene una base maggioritaria permette di dischiudere soltanto alcuni dei futuri possibiliimmaginabili per la protagonista e, più concretamente, solo alcune delle soluzioni drammaturgiche ipotizzate per l’interprete, precludendo l’attualizzazione di tutte le altre.
I grafici che – a ogni quesito – vengono a costruirsi sullo schermo sospeso sul palcoscenico riconducono la portata della scelta a una connotazione pienamente umana, assembleare, quasi referendaria, permettendo di abbozzare una “geografia sociale” delle platee, la cui composizione e la cui predisposizione a confrontarsi con i nodi cruciali dello spettacolo varia consistentemente a seconda dello spazio in cui viene messo in scena.
Il gioco teatrale – la cui dimensione ludica è accentuata dalla fruizione dei dispositivi elettronici – diviene progressivamente più inquietante e ambivalente se si considera che una “tribuna” di molti detiene letteralmente il potere di scegliere il destino della donna che ha di fronte, eterodirigendo le sue azioni, fino a irrompere nell’intimità della sua carne («Sono fertile oppure ho cellule pre-cancerose?»).
In questa sorta di processo allestito, l’attrice domanda al pubblico quale ruolo le pertenga: «Imputata, giudice o testimone?». «C’è bisogno di tensione per creare qualcosa: come la sabbia dentro la perla – scrive Sheila Heti –. (…) Sono cose buone e mi costringono a vivere con integrità, a mettere in discussione ciò che è importante per me, e quindi a vivere davvero il senso della mia vita, invece che affidarmi alle convenzioni».

Chiara Lagani sembra allora radicalizzare la tematica dell’autodeterminazione in termini di autoconsapevolezza e responsabilità collettive, rendendo evidente – attraverso la dinamica scenica proposta – che non può esserci libera scelta sull’essere madri o sul non esserlo, sul portare avanti una gravidanza o sull’interromperla, senza che quella libertà venga tutelata materialmente, tramite un discorso politico che garantisca il riconoscimento giuridico dei diritti, oltre che sussidi economici adeguati e l’accesso a servizi sanitari sicuri.
«L’universo perdona le donne che fanno arte e non fanno bambini?» è una delle domande poste nel testo di Sheila Heti che apre alla tematizzazione della dicotomia platonica tra generazione secondo il corpo e generazione secondo l’anima: «del pensiero e ogni altra virtù» sono infatti «generatori tutti i poeti e quanti degli artisti sono detti inventori». Nel passaggio dalla scrittura al palcoscenico, è la stessa Chiara Lagani a ricordare – nel dibattito con Rosella Postorino – che nel teatro si rende possibile l’esperienza dell’«essere due», in una sorta di gestazione fantasmatica per la quale ci si accompagna sempre al proprio personaggio concepito per la scena. Risuonano così ancora una volta, assumendo un nuovo grado di serietà e problematicità, le parole con le quali l’attrice apre la pièce, e alle quali dobbiamo decidere se prestare fede o meno: «Mi chiamo Sheila Heti, ho quarantotto anni e sono incinta».

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Il tabù della maternità, di Elena Cirioni | Banquo Magazine, 19 aprile 2024

«Quando i libri non ti lasciano in pace li porti in scena.»
Lo spettacolo di Fanny & Alexander parte dalla letteratura, il libro è scritto da Sheila Heti, Maternità in Italia pubblicato da Sellerio e tradotto da Martina Testa.

Sulla scena scarna, composta da una panchina bianca, un vaso con un giglio, due coltelli e uno scotch, compare una donna dall’aria simpatica (Chiara Lagani) lavora nell’arte e ha avuto una bella carriera, ma le manca qualcosa: «C’è un bambino che mi cresce infondo alla gola

Questa donna non vuole solamente diventare madre, ma da intellettuale e artista inizia a domandarsi sul perché di questo desiderio e oltre a sé stessa interroga il pubblico.
Ho quarantotto anni e sono incinta.
Vero o falso?
I figli si fanno o si hanno?

Ad ognuno degli spettatori all’entrata è stato dato un telecomando per rispondere alle domande e scegliere sul percorso drammaturgico dello spettacolo:
Chi incontro?
Un’amica?
Una sensitiva?

Come nelle più illuminate democrazie la maggioranza sceglie.
Un dispositivo drammaturgico che coinvolge il pubblico facendo di ogni spettatore un coautore o una coautrice.
Ottima rappresentazione scenica per rendere chiara l’idea di scrittura di Sheila Heti che in Maternità domanda continuamente a sé stessa, all’I Ching, ai dadi… se vuole diventare madre.
Un interrogatorio serrato che costringe a fare i conti con uno dei più grandi tabù della nostra epoca: il desiderio di mettere al mondo dei figli.
Negli ultimi anni ci sono stati numerosi tentativi d’affrontare questo tema, basti pensare al libro di Antonella LattanziCose che non si raccontano” uscito per Einaudi e candidato al Premio Strega di quest’anno o anche al libro che ha vinto lo scorso Strega “Come d’aria” di Ada d’Adamo. La riflessione sul desiderio di procreare sta finalmente diventando un tema pubblico e politico sganciato dall’essere donna.

Maternità di Fanny & Alexander non è soltanto uno spettacolo che vuole attualizzare e rendere pubblico un tema sociale, è prima di tutto una composizione artistica e come tale produce simboli da interpretare. In particolare, una parte, descritta anche nel libro di Sheila Heti, che riguarda uno dei racconti più misteriosi della Bibbia, la lotta di Giacobbe con l’Angelo. Giacobbe un giorno si trova a combattere con un uomo misterioso, l’Angelo del Signore. La lotta sembra essere meravigliosa, l’Angelo non riesce a sconfiggerlo e Giacobbe vince. La sua ricompensa è una benedizione, un nuovo nome, è la possibilità d’affrontare uno dei più grandi tabù della religione ebraica: trovarsi davanti a Dio.
Ecco che per affrontare questo tabù nasce una storia. Per integrare i tabù l’umanità ha bisogno di trasformarli in arte, in storie sui modi in cui li abbiamo combattuti. Lo stesso vale per il desiderio di essere madre o padri; Giacobbe chiamò il luogo dove combatté con l’angelo Panuel che significa: Qui è dove ho visto Dio in faccia.
Maternità di Fanny & Alexander ci pone davanti a uno dei grandi tabù non ancora del tutto affrontati e spesso nascosto: il desiderio di mettere al mondo un essere umano.

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L’impossibilità di tracciare i confini del materno, di Carolina Germini | Limina Teatri, 23 aprile 2024

C’è un bellissimo romanzo, intitolato La figlia unica, della scrittrice messicana Guadalupe Nettel, che affronta in modo sorprendente il tema della maternità. La protagonista osserva, con uno sguardo quasi antropologico, come questo fenomeno prenda vita attorno a sé: nell’esistenza della sua migliore amica, in quella della vicina di casa e perfino in una coppia di piccioni che vivono sul tetto del suo palazzo. Il suo è uno sguardo privilegiato, lo sguardo di chi può concedersi il tempo di osservare con curiosità e spavento qualcosa che a lei non appartiene. Ma in fondo è davvero così? Può realmente appartenerci la maternità? E quando? Si è materne solo quando si diventa madri o anche nel desiderio, nell’attesa di poter vivere un giorno quest’esperienza o anche nella consapevolezza di non volerla attraversare? In fondo, la protagonista vive qualcosa di simile alla maternità, occupandosi e prendendosi cura delle persone che ha intorno. Questo, però, non basta agli occhi degli altri e nemmeno ai suoi. E così non le viene risparmiata l’insistente ed estenuante domanda, che finisce per diventare un’ossessione, come se, a un certo punto della vita, esistesse solo uno strumento per misurare il valore dell’esistenza di una donna: vuoi o non vuoi avere dei figli?

A trovarsi in questa condizione è anche la scrittrice canadese Sheila Heti, che nel suo romanzo autobiografico dal titolo inequivocabile, appunto Maternità, si interroga sulla possibilità di diventare madre. Quella che sembra inizialmente una domanda che coinvolge un solo aspetto della sua vita, finisce per stravolgere la sua intera esistenza. Sheila fa i conti con un imperativo culturale e naturale a cui è impossibile sottrarsi. Così, queste riflessioni feroci, che diventano tarli che divorano i suoi pensieri, si trasformano nell’adattamento teatrale del romanzo, immaginato e realizzato da Chiara Lagani, in sondaggi rivolti al pubblico. In Maternità, spettacolo della compagnia Fanny & Alexander, diretto da Luigi De Angelis, lo spettatore è chiamato a vivere l’intensa esperienza di entrare nei pensieri di Sheila, trasformandosi però, a poco a poco, in un inconscio collettivo, che è insieme testimone, giudice e imputato di un processo a cui tutti sono chiamati a prendere parte.

La forza di questa intuizione scenica della Lagani è quindi quella di assegnare al pubblico il compito di guidare la direzione drammaturgica dello spettacolo. Saranno le risposte delle persone, date attraverso un telecomando, a tracciare il percorso dell’attrice in scena. In questo interrogatorio silenzioso, che avviene soltanto attraverso uno schermo, viene indagato il proprio desiderio di maternità, la propria posizione sull’aborto, fino a dover scegliere completamente anche le azioni della Lagani: quale dei due coltelli che sono in scena deve afferrare o qual è la prossima circostanza che si troverà a vivere. Se nella prima metà dello spettacolo, questo meccanismo funziona, rendendo attiva la partecipazione dello spettatore, nella seconda metà il dispositivo finisce per esaurire il suo potenziale, mostrando tutti i suoi limiti tecnologici, come fosse un gioco di cui non cogliamo più il divertimento e la bellezza. Ma, nonostante il coinvolgimento dello spettatore gradualmente si affievolisca a causa di un sistema che non riesce fino in fondo a farlo sentire partecipe, la forza del testo drammaturgico e l’interazione viva e autentica della Lagani con il pubblico riescono fino alla fine a mantenere intatta la loro forza, riuscendo nell’impresa di articolare un tema complesso come quello della maternità, facendoci così addentrare nella profondità di un testo come quello di Sheila Heti. Ma forse è proprio questo l’intento registico di usare metodi fallaci come un questionario e un dispositivo tecnologico come il telecomando per rispondere a domande così tortuose: mostrare allo spettatore l’impossibilità di esaurire un discorso complesso come quello della maternità con un sistema che, per la sua freddezza e asetticità, ci riporta alla pressione sociale che le donne si trovano continuamente a vivere su questo tema. Ma Maternità ci riporta proprio a questo, mostrandoci come su questo tema sia assurdo formulare giudizi, esprimere sentenze e come sia quindi impossibile tracciare i confini del materno.

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Chiara Lagani e il suo spettacolo sulla maternità, «l’ultimo dei tabù», di Federica Angelini | Reclam, 2023/2024

Chiara Lagani, classe 1974, ravennate, è fondatrice di Fanny & Alexander, autrice e interprete di numerosi spettacoli che hanno sperimentato diversi linguaggi e ottenuto premi e riconoscimenti internazionali. Nell’ambito di Fèsta porterà per la prima volta a Ravenna uno dei suoi più recenti spettacoli: Maternità. Tratta dal romanzo di successo Motherhood di Sheila Heti (tradotto in Italia da Martina Testa e pubblicato da Sellerio), la produzione affronta un tema quanto mai complesso e oggetto recentemente di dibattito e particolare attenzione. Heti infatti in uno scritto dall’impronta fortemente autobiografica affronta il tema del desiderio o del rifiuto di fare figli.

Lagani, perché portare in scena proprio questo tema? E perché farlo adesso? La maternità o la non- maternità è ancora un tabù?
«Ci sono due ordini di ragioni. Il primo è politico e culturale, perché sì, credo sia ancora un tabù, uno dei pochi tabù a essere sopravvissuti in qualsiasi ambiente, anche dove, come in quello artistico culturale, invece si sono fatti enormi passi avanti rispetto ad altri temi come l’identità sessuale. Intorno alla maternità è faticoso esprimersi, le donne continuano a vergognarsi di qualcosa di cui non dovrebbero vergognarsi. Viene fatta loro pesare un’eventuale infertilità, ma anche l’aspirazione a una carriera nonostante abbiano un figlio. Mi è sembrato un tema, e qui veniamo al secondo ordine di ragioni dietro questo spettacolo, perfetto per una ricerca in ambito artistico: volevo coinvolgere anche il pubblico adulto in uno spettacolo interattivo come era stato Oz per il pubblico dei ragazzi».

In che senso interattivo? Cosa viene chiesto al pubblico?
«Viene chiesto di esprimersi tramite telecomandi distribuiti prima dello spettacolo che offrono una scelta multipla. A volte sono questioni marginali, a volte frontali, si crea una zona di disagio e imbarazzo che va abbattuto. Questo tema mi sembrava ideale per esporre una sensibilità collettiva».

Per farlo è partita da un libro, non da un testo suo. Come ci ha lavorato? Le parole sono quelle della traduttrice Martina Testa?
«Sì, ho scelto di utilizzare il testo di un’autrice che ha fatto molto discutere. L’abbiamo contattata e ha approvato la nostra idea di spettacolo. Il testo è stato tagliato, molto manipolato, ma sì, sono partita dalla versione italiana».

L’autrice ammette di aver scritto una storia autobiografica, lei in qualche modo si è ritrovata in quella vicenda?
«Ci sono sicuramente delle risonanze, anche io non ho figli, anche se partivo da un presupposto opposto, perché io, a differenza, di Sheti, non ho deciso di non avere figli. Ma credo che in ogni caso l’autrice sia riuscita a porre domande, a mettere in crisi chiunque, perché questo è un tema che ci riguarda tutti».

In fondo, se non siamo tutte madri, siamo pur sempre figlie…
«Esatto, tutti e tutte noi abbiamo a che fare con il tema della maternità e mai come con questo spettacolo mi era capitato, nelle poche repliche fatte finora, che le persone mi aspettassero per raccontarmi le loro esperienze dicendomi “questo non l’ho mai detto a nessuno”».

In realtà ultimamente l’argomento sulla sacrosanta legittima scelta delle donne di non aver figli è stato molto dibattuto e ci sono state molti voci importanti a questo proposito. L’anagrafe ci dice che sempre meno donne fanno figli. Per chi crede possa essere più disturbante?
«Penso che nessuno possa avere certezze monocolori su questo argomento. Di primo acchito mi sembra respingente l’eccessiva sicurezza nell’affermare l’una o l’altra cosa, è un tema talmente complesso e inevitabilmente conflittuale che non credo possa essere trattato in modo troppo assertivo. Dovremmo tutte e tutti essere molto indulgenti. Questo tema merita indulgenza».

Nel dibattito odierno spesso si pensa alla maternità e non- maternità come una questione di libera scelta della donna come individuo. Eppure fare o non fare figli non è una questione anche politica, che riguarda la collettività sotto molti punti di vista?
«Certo, lo spettacolo nasce anche dal bisogno che sento di dover tenere alta la guardia su questo tema. Il problema vero è che soprattutto la sinistra non se ne è mai occupata. Per quante donne in realtà non si tratta di una scelta fino in fondo? Quante alla fine non fanno figli perché non possono permetterselo prima di una certa età, quando magari la biologia non te lo permette più? E la destra invece cerca di riportare la condizione della donna alla madre che rinuncia alla carriera, disposta a sacrificare la propria vita pubblica per quella privata. Infine, va detto che in generale, non tutto nella vita è scelta, a volte le cose accadono o non accadono e basta. Dobbiamo imparare a parlarne. Per questo, in occasione dello spettacolo, ho organizzato anche un incontro in Classense, il 13 novembre, con Nadia Terranova e Simona Vinci, due scrittrici con cui mettere in comune esperienze».