Il ritorno di Ulisse in patria
TRAGEDIA DI LIETO FINE IN UN PROLOGO E TRE ATTI (REALIZZATA IN DUE PARTI)
POESIA DI GIACOMO BADOARO
MUSICA DI CLAUDIO MONTEVERDI
tragedia di lieto fine in un prologo e tre atti (realizzata in 2 parti)
poesia di Giacomo Badoaro
musica di Claudio Monteverdi
Edizione critica a cura di Bernardo Ticci – BTE – Bernardo Ticci edizioni, 2021
MAESTRO CONCERTATORE E DIRETTORE Ottavio Dantone | REGIA, SCENE, LUCI E VIDEO Luigi De Angelis| COSTUMI E DRAMMATURGIA Chiara Lagani| ASSISTENTE REGIA Andrea Argentieri| PROGETTO Fanny & Alexander| ORCHESTRA Accademia Bizantina| PERSONAGGI E INTERPRETI Ulisse Mauro Borgioni| Telemaco Anicio Zorzi Giustiniani| Penelope Delphine Galou| Iro Bruno Taddia| Il Tempo/Antinoo Roberto Lorenzi| Giunone Raffaella Milanesi| La Fortuna Vittoria Magnarello| Giove Gianluca Margheri| Nettuno Federico Domenico Eraldo Sacchi| Minerva Giuseppina Bridelli| Amore Paola Valentina Molinari| Anfinomo Francisco Fernandez Rueda| Pisandro Enrico Torre| Melanto/L’humana Fragilità Gaia Petrone| Eurimaco Alessio Tosi| Eumete Luigi Morassi| Ericlea Anna Bessi
Produzione Monteverdi Festival, Fondazione Teatro Ponchielli
Nuovo allestimento
Note di regia
di Luigi De Angelis
Da quando mi è stato chiesto di mettere in scena Il ritorno di Ulisse in patria, non ho potuto fare a meno di tornare più volte su un ricordo denso dei tempi dell’Università a Bologna. Con Chiara Lagani – cofondatrice di Fanny & Alexander, che cura la drammaturgia e i costumi di quest’opera – abbiamo avuto la fortuna incredibile di seguire le lezioni di uno dei più grandi geografi del nostro
tempo, Franco Farinelli. Il suo corso monografico ruotava attorno alla decostruzione e lettura filosofica del mito di Ulisse, facendone il prototipo dell’eroe moderno precursore e emblema dell’avvento di un nuovo mondo, di fatto della modernità.
Ulisse, diceva Farinelli, è l’eroe che acceca Polifemo nella caverna, al contrario espressione di un mondo arcaico, governato da gerarchie tattili, verticali, affettive. Ulisse è invece l’uomo del calcolo, della menzogna, dell’inganno, utilizza una falsa identità per i propri calcoli. Farinelli dice che nell’incontro nella caverna tra Ulisse e Polifemo c’è la chiave dell’avvento della modernità…
Ulisse si identifica con Polifemo col nome di “Outis”, “Nessuno”, per cui quando Polifemo chiede agli altri giganti di aiutarlo a catturare “Nessuno”, non riceve – ovviamente – aiuto… Acceca Polifemo e per sfuggire alla sua rabbia cieca si nasconde sotto il montone capobranco. Il soggetto del nostro mito, Ulisse, l’eroe, si mette sotto alla pancia del montone, sapendo che Polifemo istintivamente non può che utilizzare la sua conoscenza del mondo fatta di tattilità per identificarlo;
si fa “sub-iectum”, colui che si sottrae e si mette sotto (da “sub-icere”.)… È una strategia vincente, ma allo stesso tempo comporta un annullamento identitario. È il paradosso di Ulisse, per “essere” deve annullare la propria identità, essere “nessuno”, non può più essere riconosciuto, ed è la sua dannazione, anche quando torna a casa, in cui nessuno lo riconosce, né il figlio, né la moglie, né il
pastore Eumete. Lui stesso non riconosce Itaca, quando i Feaci lo abbandonano sulla spiaggia. Solo Ericlea, l’ancella che l’aveva accudito da bambino, lavandolo, “toccando” la sua gamba riconosce la cicatrice procuratagli da un cinghiale da bambino. Ulisse utilizza il calcolo, è capace di misurare lo spazio e il suo tempo di percorrenza, applicare la logica di uno spazio omogeneo, rispetto alle striature e incongruenze di un mondo antico dove lo spazio non esiste perché non è commensurabile. Ulisse inventa l’idea di spazio moderno, divisibile, misurabile, è il prototipo dell’uomo moderno che antepone alla lettura del mondo l’immagine del mondo, un progetto da anteporre all’esperienza diretta del mondo. Il suo mito sembra quasi un monito all’intossicazione contemporanea per le immagini, per cui la “facilità” delle immagini, per dirla con James Hillmann, è quella di superficie, di “facciata” (dal latino facies), ma non ha a che fare col vero vedere, connesso col cuore, con una logica non omogenea delle relazioni spaziali e vitali. Ulisse per vedere e
prefigurare deve “scomparire”, perdere l’identità, assumere la postura di un eroe fragile, errare per 20 anni, ritrovarsi mendicante, rischiare di perdere gli affetti, in qualche modo per sopravvivere deve disconnettersi dalla realtà, nascondersi dietro al progetto. Minerva, nell’idea che i Greci avevano del politeismo, è espressione di una sua parte profonda, combattiva e calcolatrice, vendicativa.
Tutta l’opera converge fin dall’inizio verso la scena cruciale, quella dell’uccisione dei Proci, verso la prova dell’arco, in cui Ulisse sarà l’unico a riuscire a tendere l’arco e a uccidere tutti i Proci, compiendo un eccidio che oggi avrebbe il sapore delle stragi nei luoghi pubblici (ad esempio negli Stati Uniti) spesso sulle cronache dei nostri giorni. Mettere in scena Ulisse oggi non può non voler dire confrontarsi con l’idea ossessiva di questa scena, con l’idea che tutto oggi è in qualche modo
“bersaglio”, sotto minaccia costante. Tutto oggi è “target”, bersaglio di una prospettiva di mercato e di consumo, che non prevede l’eccezione, l’incongruo, l’inciampo o una logica che non preveda la monetizzazione valoriale, estetica, cosmetica. Tutto deve essere incasellabile, spendibile, deve poter circolare velocemente, essere consumato e riconosciuto secondo la logica del target. Tutto
tende al parossismo di un vortice in cui la logica della guerra sembra l’apice naturale della prospettiva di Ulisse.
Gli dei sono morti, non sono più riconoscibili, sopravvivono forse in qualche bella pubblicità, rimangono le loro forme, i loro segni, le loro spore invisibili, relegate a merce di consumo, a pura estetica. Sono essi stessi bersaglio ,“target”, non si esprimono più se non per simboli privi di carica vitale. Non sono più connessi con l’uomo, ma sono condannati alla bidimensionalità, a compiere gesti vuoti e a circolare ormai come moneta e a essere invisibili.
Il ritorno di Ulisse in Patria è un’opera di sconvolgente modernità perché attraversa temi a noi molto vicini, dalla ferita che non si rimargina di Penelope, rintanata nel loop tossico dell’abbandono, che si nutre di un dolore profondo, ma che non è capace di superare e elaborare la separazione, alla sindrome di Telemaco, figlio orfano del padre, a Ulisse, l’eroe condannato a non essere riconosciuto da nessuno, proprio nei giorni del suo ritorno in patria… Sempre qualcun altro deve garantire per lui. La partitura di quest’opera meravigliosa e sperimentale ci offre molteplici piani di lettura e ci proietta in un vero e proprio viaggio emozionale, con un andamento
quasi cinematografico, con cambi di scena e di narrazione repentini, serrati, in cui la musica riflette il carattere variegato delle molteplici variazioni della vicenda, con pagine che sembrano scritte nel ‘900.
Portarla in scena a Cremona significa confrontarsi con l’architettura straordinaria del Teatro Ponchielli, che si presta naturalmente a essere vissuto come la “reggia” di Penelope e Ulisse, per cui l’orchestra è convocata in qualche modo come l’orchestra di corte di Penelope. A partire da questo presupposto, che il teatro stesso è il palazzo, il luogo delle nostre vicende, la fabula si
sviluppa ai giorni nostri, e forse Ulisse è stato abbandonato dai Feaci sulle rive del Po e non a Itaca. Perché questa è una storia che ci riguarda tutti, ed è specchio della malattia del nostro tempo…
Debutto: Teatro Amilcare Ponchielli, Cremona, 17 e 24 giugno 2022 ore 20.00