TRILOGIA DELLA CITTÀ DI K.

Un progetto di Federica Fracassi e Fanny & Alexander tratto dal romanzo omonimo di Ágota Kristóf

 


un progetto di Federica Fracassi, Fanny & Alexander | adattamento, drammaturgia Chiara Lagani | regia, scene, luci, video Luigi De Angelis | con Federica Fracassi, Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti, Lorenzo Gleijeses | costumi Gianluca Sbicca | musiche, sound design Mirto Baliani, Emanuele Wiltsch Barberio | allestimento multimediale Michele Mescalchin | scultura di scena Nicola Fagnani | con la partecipazione in video di Leone Maria Baiocco, Andrea Bezziccheri, Fausto Cabra, Giada Ciabini, Vittorio Consoli, Anna Coppola, Alfonso De Vreese, Ion Donà, Federica Fracassi, Giovanni Franzoni, Domenico Iodice, Chiara Lagani, Nicolò Latte Bovio, Marta Malvestiti, Mauro Milone, Yari Montemagno, Cloe Romano, Nina Romano, Edoardo Sabato, Renato Sarti, Lorenzo Vio | e le voci di Chandra Livia Candiani, Virginia Consoli, Vittorio Consoli, Chiara Lagani, Renzo Martinelli, Woody Neri | assistente alla regia Filippo Trevisan | assistente ai costumi Marta Solari | sovratitoli a cura di Prescott Studio | supporto multimediale sovratitoli Lyri | produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa


 

Una fiaba nera. Un inferno familiare, quotidiano e impossibile, concreto e astratto, degradato e nobile, crudele e innocente. Nel gioco raffinato degli sdoppiamenti, una straniera ci precipita nell’abisso di un’infanzia guastata. Una storia a cui all’improvviso non si riesce nemmeno più a credere.

«In principio era la lingua. E la lingua era una sola. Oggetti, cose, sentimenti, colori, sogni, lettere, libri, giornali, erano la lingua. Non avrei mai immaginato che potesse esistere un’altra lingua, che un essere umano potesse pronunciare parole che non sarei riuscita a capire. Perché mai avrebbe dovuto farlo? Per quale motivo?». (A. Kristof)

In uno spazio circolare vuoto avanza una donna. Ha un accento straniero. Parla adagio. Racconta una fiaba nera di innocenza e malvagità. È la storia della sua vita?
In una frontiera di una delle tante guerre, due gemelli sono affidati dalla madre alla nonna, che è per loro una sconosciuta, una strega, un’assassina. Questa storia parla del loro legame, del loro trauma, del loro mentirsi, del loro perdersi nel grande quaderno di un mondo scritto in una lingua incomprensibile. La serie progressiva di personaggi che si moltiplicano con ritmo implacabile assume l’aspetto di strane carte: pannelli animati che traducono la scena del teatro mentale della narratrice. Il racconto si popola di purezza e atrocità, esseri guasti descritti con chirurgica esattezza. Sono le azioni, i piccoli gesti maniacali a definire le presenze. Quattro figure arcane, vicine alla straniera nello spazio della scena, prestano voce e corpo, a poco a poco e assieme a lei, a tutti i personaggi della storia muovendo i primi passi nel mondo che la vicenda rappresenta: uno strano inferno familiare, al contempo quotidiano e impossibile, concreto e astratto, degradato e nobile, crudele e innocente. Nel gioco raffinato degli sdoppiamenti alla fine risulta difficile credere a chiunque: ogni cosa può essere da sempre una menzogna.

«Non si può spiegare tutto, non fa bene. Sull’esilio, sulla morte, sul dolore non c’è molto da dire. Sono fatti. Tutto qui.» (A.K.)

Trilogia della città di K. è un progetto di Federica Fracassi e Fanny & Alexander, tratto dal romanzo omonimo di Ágota Kristóf e prodotto dal Teatro Piccolo di Milano.

ph. Masiar Pasquali

Rassegna stampa

ANNA BANDETTINI, IL VENERDÌ di REPUBBLICA
ENRICO FIORE, CONTROSCENA
MICHELE WEISS, LA STAMPA
SIMONE NEBBIA, TEATRO E CRITICA
PAOLO PERAZZOLO, FAMIGLIA CRISTIANA
MARIO DE SANTIS, DOPPIOZERO
LAURA BEVIONE, ARTRIBUNE
MARCO BALZANO, LA LETTURA – CORRIERE DELLA SERA
ANNA TOSCANO, MINIMA & MORALIA
MAGDA POLI, CORRIERE DELLA SERA
ALESSANDRO STRACUZZI, FERMATA SPETTACOLO
ANNA BANDETTINI, LA REPUBBLICA
MARIO BIANCHI, KLP
MADDALENA GIOVANNELLI, IL SOLE 24 ORE
SERGIO LO GATTO, TEATRO E CRITICA
NICOLA ARRIGONI, SIPARIO
CRISTINA TIRINZONI, LUCE WEB
GRAZIANO GRAZIANI, IL TASCABILE

 


 

Vita, morte e bugie nella città di K., di Anna Bandettini | Il venerdì di Repubblica, 17 novembre 2023

“Sapeva scrivere benissimo, un linguaggio preciso, sferzante, sapiente, molto teatrale e non era nemmeno la sua lingua madre. Ágota Kristóf l’ho amata subito, e subito mi sono tuffata in quel suo poderoso romanzo, storia di due bambini gemelli, Lucas e Klaus, che forse sono uno solo, abbandonati dalla madre, affidati a una nonna atroce tra bombe, guerra e povertà… un romanzo che è favola nera, racconto di formazione, sogno, storia reale del Novecento e molto altro. Via via che leggevo la Trilogia della città di K. pensavo “è giusta per il teatro””.

Lo racconta, entusiasta, l’attrice Federica Fracassi, tra le più brave della scena italiana. È lei che con ostinazione ha coinvolto per la regia e la drammaturgia Luigi De Angelis e Chiara Lagani, cioè i Fanny & Alexander, ha trovato il sostegno produttivo del Piccolo Teatro di Milano e ora tutti insieme debutteranno il 23 novembre nella sala dello Studio Melato. Un piccolo evento perchè è la prima messa in scena italiana  della Trilogia della città di K., il capolavoro della scrittrice ungherese naturalizzata svizzera, tre libri (Il grande quaderno del 1986, La prova del 1988 e La terza menzogna del 1991, Einaudi), decine di personaggi, di luoghi e un carico di vita, distruzione, affetti e abusi, lacerazioni e cicatrici, persone e identità, verità e menzogne. “Una matrioska, un labirinto” spiega Chiara Lagani, attrice, sempre più esperta negli adattamenti teatrali e nelle drammaturgie: “Il romanzo della Kristóf è un diabolico disseminare tracce ingannevoli, sdoppiamenti di piani che tolgono allo spettatore, come al lettore, il terreno da sotto i piedi. Abbiamo lavorato su questa enigmaticità del testo, con la consapevolezza, specie dopo un viaggio tra i suoi luoghi in Ungheria, quanto in lei il rapporto tra invenzione e realtà sia serrato e cogente”.

Un sottile equilibrio di finzione e verità sarà anche nelle pieghe della rappresentazione. “Specie nella prima parte sdoppiata tra teatro e cinema. Ventuno schermi si muovono nello spazio scenico, come carte di un atlante-video dei vari personaggi”, spiega il regista Luigi De Angelis, che ha lavorato quindi anche con due cast, quello in palcoscenico, con Federica Fracassi, Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti, Lorenzo Gleijeses e quello in video tra cui ci sono Anna Coppola, Fausto Cabra, Renato Sarti, Giovanni Ranzoni e molti altri. “Nella seconda parte di tornerà ad una dimensione più teatrale”, continua De Angelis, “un po’ alla Dogville di von Trier, fino alla terza che mescolerà tutto, cinema, teatro, realtà, invenzione in una dimensione onirica, come è nel romanzo”. A confondere ulteriormente la acque, ci sarà poi proprio lei, Ágota Kristóf, “convocata davanti al pubblico”, nel primo atto, lì, tra i suoi personaggi, a introdurre la narrazione che poi passerà a Lucas. Ed è Federica Fracassi, zazzeruta di capelli neri, occhiali, viso inquietante dietro l’apparenza innocua, a interpretarla. Stupefacente nella somiglianza, sembrerà un altro trucco di Ágota.

••••••

Nella città di K. la parola guerra è la guerra, di Enrico Fiore | Controscena, 24 novembre 2023

MILANO – «Non ho ancora trovato la parola per qualificare quello che ci è successo. Potrei dire dramma, tragedia, catastrofe, ma nella mia testa lo chiamo soltanto “la cosa” per la quale non c’è parola».
Ecco, direi proprio che è questo il passo-chiave di «Trilogia della città di K.», il romanzo di Agota Kristof ora in scena nel Teatro Studio Melato in un allestimento prodotto dal Piccolo su progetto di Federica Fracassi e Fanny & Alexander e che si avvale dell’adattamento di Chiara Lagani e della regia di Luigi De Angelis.
Si tratta, com’è noto, di un romanzo diviso in tre parti: «Il grande quaderno» (1986), «La prova» (1988) e «La terza menzogna» (1991). E in esso la scrittrice ungherese narra la vicenda di due fratelli gemelli, Lucas e Claus, sullo sfondo della seconda guerra mondiale, dei campi di concentramento, della Repubblica Popolare d’Ungheria proclamata nel 1949 sotto l’egida dell’Unione Sovietica, della rivoluzione iniziata il 23 ottobre 1956, dell’invasione da parte dell’Armata Rossa e della transizione, dopo il crollo dell’URSS, verso i modelli economici e politici occidentali, nel solco di un tormentato abbandono dell’idea comunista: un abbandono che si lasciava alle spalle migliaia di morti, fame, smarrimento e lo svuotarsi delle coscienze in uno con l’incattivirsi dei rapporti fra gli uomini.
Ma, giusto il passo citato all’inizio, in «Trilogia della città di K.» niente di tutto questo – né luoghi né accadimenti – viene mai nominato. E in ciò consiste la straordinaria potenza del romanzo della Kristof. Quei luoghi e quegli accadimenti, in assenza della loro imbalsamazione in una fisionomia di stampo «anagrafico», ci ripiombano nel cervello e nel cuore con la straziata e straziante capacità di coinvolgere e sconvolgere che hanno i contorni sfumati degl’incubi e dei deliri. Il che rimanda al decisivo problema centrale qui posto sul tappeto.

Lo inquadrano come meglio non si sarebbe potuto due passi compresi nelle pagine 26 e 27 dell’edizione Einaudi e in cui Lucas e Claus, affidati dalla madre alla nonna, espongono i criteri che hanno adottato nel redigere quel diario che non a caso – è una chiarissima metafora della vita – vien chiamato, appunto, «grande quaderno». Il primo dice: «[…] abbiamo una regola molto semplice: il tema deve essere vero. Dobbiamo descrivere ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che facciamo. Ad esempio, è proibito scrivere “Nonna somiglia a una Strega” ma è permesso scrivere “La gente chiama Nonna la Strega”»; e il secondo osserva: «Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli essere umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione dei fatti».
In breve, «Trilogia della città di K.» mette in campo l’impotenza delle parole e la perdita dell’identità che a quella è strettamente connessa.
Dell’impotenza delle parole dà conto in maniera compiuta già il passo citato all’inizio. E ad esso possiamo aggiungerne altri simili. Per esempio, quello in cui Lucas e Claus si esercitano ad insultarsi a vicenda perché, spiegano, «A forza di ripeterle, le parole a poco a poco perdono il loro significato». Oppure quello in cui a Peter, che gli ha detto: «Sono veramente curioso di sapere che cosa contengono questi quaderni. È una specie di diario?», Claus risponde: «No, sono delle menzogne».
Per quanto poi riguarda la perdita dell’identità, risulta oltremodo evidente che proprio essa rappresenta «la cosa» tremenda (più di un dramma, più di una tragedia, più di una catastrofe) per la quale non c’è parola che possa definirla. Al riguardo, basterebbe considerare che i nomi dei due personaggi principali, appunto Lucas e Claus, sono l’uno l’anagramma dell’altro, sì da stabilire fra quei personaggi un rapporto di tipo speculare: insomma, Lucas e Claus sono le due facce di una sola medaglia, tanto è vero che a un certo punto compare un personaggio, Klaus T., che scrive sotto pseudonimo, si firma Klaus Lucas e «Ha fama di misantropo. Non lo si vede mai in pubblico e non si sa niente della sua vita privata».
In proposito, non potrebb’essere più esplicito, l’uno dei due presunti gemelli, quando dichiara: «In città conoscono tutti la mia storia: sono alla ricerca di mio fratello col quale ho vissuto qui, in questa città, fino all’età di quindici anni. È qui che lo devo ritrovare, lo aspetto, so che verrà quando saprà che sono ritornato dall’estero. È solo una menzogna. Lo so benissimo che in questa città, da Nonna, ero già solo, e anche allora me lo immaginavo soltanto che fossimo in due, io e mio fratello, per sopportare l’insopportabile solitudine».
Dunque, «Trilogia della città di K.» verte, al di là della trama, su una denuncia precisa e veemente della letteratura in quanto tradimento nei confronti della vita, per l’appunto, e falsificazione della realtà. Da qui, allora, discende la perdita dell’identità sottolineata dalla Kristof. E nel merito, a partire dal nome che vi ricorre, mi torna subito in mente un bellissimo passo di Ernst Wiechert, lo scrittore tedesco non a caso internato a Buchenwald: «La guerra, mio piccolo Klaus, significa che il nostro cuore è vuoto. Capisci cosa voglio dire? Voglio dire che non abbiamo più né madre, né casa, né nome, né volto».

Ne consegue un feroce processo di reificazione. E la tensione degl’individui ad assimilarsi alle cose si traduce nella riduzione dell’uomo e del suo quotidiano a pura, bruta e nient’altro che istintiva animalità. Valga, al riguardo, l’episodio della ragazza chiamata Labbro-leporino che prima si accoppia con un cane e poi muore «felice, scopata a morte» da dieci o quindici dei «nuovi stranieri» da lei stessa invitati. La ritrovano nuda, «Tra le sue gambe divaricate c’è una pozza secca di sangue e di sperma. Le ciglia incollate per sempre, le labbra sollevate sui denti neri in un sorriso eterno».
Sì, a me pare che «Trilogia della città di K.» sia il più terribile fra i libri scritti sugli orrori della seconda guerra mondiale e sugli strascichi che quegli orrori lasciarono. Mi viene in mente un solo paragone possibile, quello con «Se questo è un uomo» di Primo Levi. Ma c’è fra i due libri una differenza fondamentale.
Nonostante tutto, Levi conserva ancora la fede nella parola e la speranza nella vita. Vedi la conclusione dell’appello a non dimenticare posto in epigrafe a «Se questo è un uomo»: «Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / Stando in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi; / Ripetetele ai vostri figli». E vedi la conclusione dell’intero libro: così Levi rievoca i sopravvissuti di Auschwitz: «Ho incontrato a Katowice, in aprile, Schenk e Alcalai in buona salute. Arthur ha raggiunto felicemente la sua famiglia, e Charles ha ripreso la sua professione di maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di poterlo ritrovare un giorno».
Per Agota Kristof, invece, annaspiamo in un buio impenetrabile. Le parole, ripeto, non servono più a spiegare le cose, sono le cose e basta. E per quanto riguarda la vita, è tutto uno stillicidio di affermazioni che più immedicabili non potrebbero risultare. Basta citare quello che Claus dice «mentalmente» a Lucas, cioè a sé stesso: «[…] la vita è di un’inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l’immaginazione». E tanta «malvagità», naturalmente, si riverbera sull’uomo. Se Lucas e Claus vogliono oltrepassare la frontiera insieme col padre, debbono camminare su un terreno minato. E spingono avanti il padre, commentando con gelido cinismo: «Sì, c’è un solo mezzo per attraversare la frontiera: consiste nel far passare qualcuno davanti a sé».
Finisce com’era logico che finisse. Un funzionario dell’ambasciata comunica a Claus che Lucas si è ucciso buttandosi sotto un treno. E Claus/Lucas conclude impassibile: «Il treno è una buona idea».

Ebbene, da tutto questo Luigi De Angelis ha tratto uno spettacolo complesso, avvolgente e lucido come raramente è dato riscontrare nei tempi distratti e confusi che attraversiamo. E il tema centrale dell’allestimento è annunciato subito, e in maniera assolutamente icastica: entrando in sala, il pubblico trova, appesa in alto, una fotografia di Agota Kristof, la quale, poi, comparirà nel prosieguo della rappresentazione come un personaggio tra i personaggi.
Quel tema, dunque, è il rapporto dialettico fra il documento inerte, in sé concluso, e il documento che si fa corpo in divenire, sconfiggendo, così, l’apriorismo autoreferenziale della parola scritta. E a sua volta, l’azione diventa immagine, frantumandosi su molti schermi che scendono e salgono nell’intero spazio scenico, in una sorta di danza freddache traduce l’ineffettuale nostalgia dell’azione medesima, tesa a recuperare, appunto, l’essere definitiva in quanto parola scritta.
Non a caso, le battute dei personaggi che compaiono sugli schermi vengono dette da Agota Kristof, seduta dietro la sua scrivania: perché, inutile sottolinearlo, quei personaggi non esistono che come proiezioni della sua mente e frutti della sua attività come scrittrice. Tanto è vero che Mathias, il bambino al quale Lucas/Claus si lega con affetto di padre, è solo una statua che sbuca dal sottopalco attraverso una botola: una statua enorme, fuori norma perché chiamata a ribadire di nuovo l’estraneità della creazione letteraria rispetto alla realtà. E accadrà, certo, che in seguito i personaggi si riapproprieranno i loro corpi e interpreteranno l’azione dal vivo. Ma, com’era logico attendersi, nell’ultima parte dello spettacolo si mescoleranno, i personaggi che agiscono dal vivo e quelli che agiscono sugli schermi. E infine, sulla scena vuota, non resterà che lei, Agota Kristof, sempre seduta dietro la sua scrivania.
Assai bravi, infine, gl’interpreti, e perfettamente funzionali al disegno complessivo dell’adattamento e della regia. Ne cito i principali, tutti in più ruoli: Federica Fracassi, Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti e Lorenzo Gleijeses. Con una nota a parte per quest’ultimo. L’avevo visto di recente in «Uomo e galantuomo» di Eduardo De Filippo, accanto al padre Geppy. E mi era parso non più che diligente. Qui, invece, offre una prova di spessore. Insomma, mi pare che il suo spazio sia quello del teatro di sperimentazione. Del resto, è maturato grazie al sodalizio con Eugenio Barba.
In ultimo (ma davvero, last but not least) osservo che questo spettacolo invera al meglio il titolo («Il corpo delle parole») dato da Claudio Longhi, il direttore del Piccolo, alla stagione in corso. E una simile coincidenza costituisce anch’essa una rarità.

••••••

“Trilogia della città di K.”: se l’inferno familiare diventa una fiaba nera, di Michele Weiss | La Stampa, 24 novembre 2023

Il capolavoro di Ágota Kristóf sbarca al Teatro Studio nel progetto di Fanny&Alexander e Federica Fracassi

Prendiamo a prestito un celebre passo dell’“Inferno” di Dante per recensire il nuovo, atteso, spettacolo ispirato al capolavoro di Ágota Kristóf (1935-2011), “Trilogia della città di K.”, progetto di Federica Fracassi e Fanny&Alexander che ha debuttato in prima assoluta al Teatro Melato: «Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente».

E se l’Alighieri aveva Virgilio e la fede per scendere nell’inferno, i due gemelli e gli altri protagonisti dell’opera non hanno altro che loro stessi, ovvero una nebulosa e lacerata umanità che l’opera restituisce come un “groviglio”, un labirinto emotivo in cui il vero e il falso si scambiano continuamente le parti.

In passato Fanny&Alexander si erano già misurati con testi stratificati e di complessità rara (il “Rave Foster Wallace” ad esempio), ma come Fracassi il loro punto di partenza è stato lo squassamento che il testo, all’epoca, produsse. Impossibile rendere oggi l’idea della fantasmagorica ricezione avuta dalla trilogia, composta da tre romanzi singoli – “Il grande quaderno”, “La prova”, “La terza menzogna” – usciti tra il 1986 e il 1991: tradotto in oltre trenta Paesi, fu un caso editoriale prima e un nuovo classico poi, ancora oggi oggetto di venerazione.

Basta riprendere in mano il testo e leggere la prima parte per avvertire la forza unica di un linguaggio semplicissimo ma misurato fino all’ultima parola, capace di penetrare nell’anima rivelando l’attrazione novecentesca per un esistenzialismo sradicato, sicuramente scatenato da due catastrofiche guerre mondiali, rivoluzioni e dittature assortite. Insomma, la Trilogia ci porta nel cuore dell’orrore del “Secolo breve”, per dirla con Hobsbawm.

Fracassi apre la pièce nei panni dell’autrice che racconta seduta alla scrivania il primo romanzo, il grande quaderno: a supportarla – trovata interessante ispirata al lavoro della nota architetta italiana Bo Bardi – una quindicina di schermi rettangolari semoventi che proiettano il racconto dei gemelli Claus e Lucas deportati a casa della nonna allo scoppio della guerra. La prima parte, quella più radicata per così dire, grazie anche all’efficacia dei video, è veramente affascinante: una sorta di teatro ipermediale in cui le parole si mischiano e rincorrono le pillole video, molto curate e raffinate.

Nella seconda opera gli schermi scompaiono (tornano nella terza ma con funzioni diverse dalle precedenti) e sale in cattedra la ricerca d’identità della coppia di gemelli che si separa. Protagonista è lo stile di recitazione “eterodiretto” di F&A, con gli attori che compaiono in scena senza sapere la parte, bravissimi (un plauso a tutto il cast!) a recepire battute e direttive dagli auricolari della regia. In un palco spoglio tranne una manciata di sedie, un piano che suona senza pianista, una creatura gigantesca, in una sorta di ragnatela drammaturgica immateriale.

Diviso in tre parti come le opere che racconta, la Trilogia è un lavoro ambizioso e di spessore. Nell’epoca dello sradicamento assoluto (Kristóf è scappata dall’Ungheria in Svizzera nel 1956), solo la scrittura – e il teatro in questo caso – possono offrire sollievo come esercizio di sopravvivenza sui generis. Solo che le leggi della scrittura non sono simil-lineari e qui comincia l’inghippo che occupa le due restanti parti dell’opera kristofiana. La verità è quindi proprio il “garbuglio”, i gemelli forse sono la stessa persona, ma a ognuno il compito di trovare la sua verità nel labirinto della psiche.

Nella nostra epoca squassata dal nuovo metalinguaggio della comunicazione digitale che ci sta travolgendo tutti, portando a frutto la lezione di Kafka, Benjamin e del surrealismo, il capolavoro straniante della Kristóf ricorda che nessun destino colmerà la ferita e il senso di perdita originari che pervadono anche i borghesi più inurbati, che abitano tra le stesse, piccole, mura da sempre.

••••••

L’enigma conturbante di Agota Kristof. Intervista a Luigi De Angelis, di Simone Nebbia | Teatro e Critica, 26 novembre 2023

In prima assoluta al Teatro Studio Melato del Piccolo Teatro di Milano, il debutto di Fanny e Alexander con Federica Fracassi con Trilogia della città di K. dal romanzo omonimo di Agota Kristof. In questa intervista Luigi De Angelis, regista dello spettacolo, evidenzia molti punti di riflessione offerti dall’opera. Nell’articolo gli scatti dal backstage.

La Trilogia della città di K. è un labirinto, un meccanismo stratificato e complesso che avvicina e allontana di continuo storie e personaggi. Come interviene il teatro – arte che intesse strati più di ogni altra – per affiancare questa complessità?

L’unico modo per onorare questa complessità labirintica era lavorare su una messa in scena più dinamica possibile. Prima di tutto c’è l’idea di adattamento di Chiara Lagani, quindi quella prima difficoltà di far passare la voce interiore di una materia fatta per la lettura a una voce esteriore da far incarnare attraverso dei corpi; fin da subito poi, assieme a Federica Fracassi che ci ha proposto inizialmente l’idea, abbiamo deciso di mettere in scena tutti e tre i libri, perché fanno parte di un libro unico già nelle intenzioni della scrittrice. Poi ci sono delle immagini che hanno guidato me nell’idea di regia, come quella che più volte ho avuto modo di vedere in un museo a San Paolo del Brasile, una installazione dell’architetta italo-brasiliana Lina Bo Bardi che ha creato questo museo in cui le opere sono presentate non secondo una rappresentazione gerarchica, cronologica, con la sequenza dei vari periodi storici, ma attraverso una stanza unica in cui le opere sono incastonate in dei vetri appesi a un basamento di marmo e sembrano galleggiare, fluttuare nell’aria. Lei dice che il tempo, secondo la visione occidentale, è sempre lineare, come diceva anche Nabokov, ma questo ci fa parlare di esso sempre con metafore e termini legati allo spazio, altre visioni invece parlano di compresenze di tempi, creando quello che lei chiama “un groviglio meraviglioso”. Questa immagine è un po’ il filo rosso della nostra Trilogia: un’unica stanza ospita icone, quadri che non hanno neanche un titolo, quindi ti chiedono di fare un movimento di avvicinamento, un atto di volontà del fruitore.

Qual è la struttura che avete inteso dare allo spettacolo?

C’è un primo atto in cui è convocata sulla scena la stessa scrittrice, incarnata da Federica Fracassi, perché la vicenda parte da una base fortemente autobiografica, non solo per il tema dell’esilio che la portò da Koszeg, la città ungherese del titolo, fino in Svizzera, ma soprattutto perché la sua infanzia somiglia molto a quella dei due (?) protagonisti; nel momento in cui lei inizia a immaginare il suo romanzo, le immagini vengono evocate sulla scena attraverso queste icone, queste “carte video” che fanno parte del Grande Quaderno frammentato, sparso nel Teatro Studio che, grazie alla sua forma particolare, ci garantiva questa doppia possibilità: da un lato la frontalità, dall’altro la rottura dei piani prospettici in cui gli schermi, le icone, appaiono grazie all’immaginazione, come se fossero legati con dei fili al cervello di Agota Kristof e assistessimo all’epifania del suo processo creativo. Nel secondo atto, dopo il famoso passaggio della frontiera e dell’esplosione della mina, il personaggio di Agota dà il manoscritto al proprio personaggio Lukas, interpretato da Alessandro Berti – scelta fondamentale perché Berti è anche un autore, quindi ha un rapporto particolare con la parola; qui non ci sono più i video, le evocazioni immaginarie, ma è proprio Lukas che convoca degli attori a mettere in scena i fili, la sua costellazione familiare nella grande città di K.

Il terzo atto invece insiste di più su questo carattere labirintico, portando in scena questa compresenza di diversi piani temporali, come accade nel terzo dei libri, in cui si passa dalla prospettiva di Klaus, il fratello in origine separato da Lucas, a quella di Claus con la “c”, forse un’altra menzogna, forse Lucas che è tornato e cerca di incontrare il fratello; queste due prospettive sono sia nel tempo presente sia nel tempo del ricordo, del sogno, quindi siamo stati costretti a onorare questa caleidoscopicità attraverso una forma onirica e mutante. Tutti e tre gli atti poi sono molto caratterizzati attraverso il suono curato da Mirto Baliani e Emanuele Wiltsch Barberio. Nel primo c’è un autopiano in scena, come un pianoforte verticale del contesto borghese da cui i due gemelli arrivano, che suona un esercizio classico di quando si studia pianoforte: Mikrokosmos del compositore ungherese Bartók; l’universo sonoro del secondo atto è quasi cinematografico, con suoni naturali; nel terzo invece c’è un contesto sonoro più elettronico e sospeso.

Quali temi del romanzo ricorrono nella poetica di Fanny e Alexander?

Accanto al tema della guerra, molto forte nel romanzo, sicuramente emerge uno dei nostri temi forse più radicati, quello che richiama le fiabe nere dell’infanzia abusata, di chi non può crescere come dovrebbe ed è obbligato a inventarsi fin dalle origini una relazione con il mondo adulto. Proprio in merito all’infanzia, nel secondo atto è convocata una presenza, una statua che compare da una botola usata originariamente da Strehler per il Faust con Svoboda nel 1988 – visione indimenticabile da spettatore – che nella struttura così orizzontale della grande città, narrata emotivamente o geometricamente attraverso le luci, accoglie una presenza mancante che moltiplicasse la dimensione ossessiva del guardare, evocando sulla scena Mathias, il bambino deforme nato da un precedente incesto, che non crescerà mai; ecco, lui rappresenta proprio l’infanzia che non può crescere, che rimane bloccata all’interno di questi personaggi costretti a diventare subito adulti. La statua, realizzata da Nicola Fagnani, è ispirata a una scultura iperrealista, gigantesca, di Ron Muek vista alla Biennale di Venezia molti anni fa, un bambino accovacciato all’entrata dell’Arsenale, alto quattro metri, che guardava il visitatore osservandolo ossessivamente. A prestare la voce al bambino-gigante è la poetessa Chandra Livia Candiani, una voce allo stesso tempo bambina e anzianissima, che ha tutte le età e che quindi rappresenta bene questo bambino imprigionato in un corpo gigante.

A proposito del legame con il Piccolo Teatro. Come ha influito elaborare un’opera con una produzione così composita e di lunga tenitura nel vostro modo di lavorare?

È stato un lavoro profondamente corale, in cui tutti hanno partecipato in misura diversa ma con identica motivazione. A questo proposito una cosa che mi preme segnalare è la qualità del team del Piccolo Teatro di Milano, non solo per il grande impegno tecnico che abbiamo richiesto e che richiediamo ogni sera in cui lo spettacolo va in scena, ma soprattutto per la serietà dell’approccio – tutti, fonici, sarti, macchinisti, avevano il libro in mano e lo hanno letto durante la lavorazione – che avvicina il lavoro dei tecnici a quello degli interpreti. Per questo consideriamo lo spettacolo frutto di una creazione corale, in cui tutti hanno avuto una grande serietà, anche gli attori apparsi nei video solo per un piccolo frammento senza audio.

C’è un forte legame con la letteratura lungo la vostra produzione artistica (il Nabokov di Ada, poi i molti spettacoli sul mago di Oz di Baum, ma anche il progetto su T. E. Lawrence o più recentemente Primo Levi), in cui traspare spesso il discorso sull’alterità che compare nella Trilogia, o forse più in esteso sull’alterazione percettiva. Quali elementi ricorrono nelle scelte letterarie della compagnia?

Molto raramente abbiamo messo in scena testi teatrali, mentre la letteratura – grande passione sia mia che di Chiara Lagani – offre la possibilità di confrontarti con dei mondi altri in cui fare dei viaggi, quindi creare differenti prospettive per attraversarli. Ci sono tematiche ricorrenti, già in Ada di Nabokov c’era un’infanzia esplicitamente non lineare, in cui come nella Trilogia è fortemente marcata la violenza; invece tutti i recenti ritratti mimetici – da Levi a Nina Simone o Charles Manson – pur non avendo a che fare direttamente con la letteratura la sfiorano, perché ci siamo interrogati sull’oralità, su ciò che può ancora parlare al tempo presente in maniera urticante.

Pensandoci ora non a caso forse ricorre Primo Levi nella Trilogia, quell’apprendimento attraverso il corpo e il linguaggio che caratterizza uno dei capitoli più belli di Se questo è un uomo, in cui Levi esprime come urgenza primaria il desiderio di recitare a un compagno di una breve passeggiata nel lager, in una lingua mediana in quel luogo come il francese, tutti i versi che ricorda del canto di Ulisse della Commedia, proprio il canto della conoscenza, dei limiti del tempo e dello spazio, a confronto qui con il desiderio dei due gemelli di conservare in segreto quello che diventerà il Grande Quaderno e il dizionario del proprio padre lontano.

Si crea nella storia un enigma conturbante che sviluppa un certo erotismo, al servizio di un meccanismo vorace, la scrittura invece è scarna, telegrafica, perché in francese, la lingua dell’esilio. Forse infatti uno dei temi più forti del romanzo è proprio la scrittura intesa come sopravvivenza; non a caso nella vicenda un personaggio molto importante è proprio lo scrittore, Victor, che non riesce a scrivere perché non gli escono le parole e che solo attraverso un atto violento, l’uccisione della sorella, tornerà alla scrittura. A un certo punto lui dice: “Nella vita ognuno dovrebbe scrivere un libro”; sembra proprio la storia di Agota, perché, per quanto lei dica che la letteratura non è salvifica e ti fa sprofondare ancora di più nel tuo gorgo, scrivere questa trilogia è stata la sua unica possibilità per mantenere il legame con la città natale, per tenerla in vita dentro di sé. È come se così tornasse continuamente al tempo e allo spazio rimosso, quello dell’infanzia.

••••••

Nella città di K. il dolore dell’infanzia, di Paolo Perazzolo | Famiglia Cristiana, 30 novembre 2023

La sfida per chi voglia mettere in scena Trilogia della città di K., capolavoro dell’ungherese Ágota Kristóf, è quello di mantenere l’essenziale ferocia del testo e di restituirne la complessità di significati e piani temporali. Il progetto, voluto da Federica Fracassi e realizzato da Fanny& Alexander (adattamento e drammaturgia di Chiara Lagani, regia di Luigi De Angelis) per il Piccolo Teatro di Milano, accetta e vince la sfida (al Teatro Studio fino al21 dicembre).

Il racconto si articola, come nel romanzo, in tre momenti. Il primo è affidato alla stessa scrittrice (la Fracassi), le cui parole vengono “amplificate” da una serie di schermi-icone che, calando dall’alto, integrano e sviluppano la storia dando voce ai personaggi e alle loro azioni. Espediente suggestivo sul piano visivo e funzionale allo sviluppo drammaturgico. Ecco la storia di due gemelli che i genitori, allo scoppio della guerra, decidono di affidare alla nonna materna. La seconda si dipana in maniera più tradizionale, con Lucas (Alessandro Berti, molto bravo), uno dei gemelli che continua la sua esistenza da solo, dopo che Klaus ha varcato il confine e se n’è andato nell’ “altro” mondo. Anche qui una trovata scenica dà intensità emotiva alla narrazione: una grande scultura in legno che emerge dal basso e rappresenta Mathias, un bambino con disabilità figlio di una donna abusata, simbolo potente del tema dell’infanzia negata e violata. Nella terza e ultima parte, in cui Lucas  tenta di ricongiungersi al fratello Klaus e affiora una verità diversa rispetto a quella fin qui narrata, tornano i pannelli, questa volta senza audio.

••••••

Fanny & Alexander nei doppi di Kristof, di Mario De Santis | Doppiozero, 1 dicembre 2023

I labirinti attraggono per due forze simultanee: quella che conduce al mistero al centro di esso e quella che spinge a uscirne. Per questo il vero labirinto in fondo è semplicemente un bivio.

Basta il doppio a creare una tensione irrisolvibile. Così fa Agota Kristof, con la sua Trilogia della città di K., un dedalo narrativo che ruota intorno alla vicenda di due gemelli, dalla loro infanzia dura, all’età adulta della separazione e poi a un misterioso ritrovarsi. Una storia unica, ma fatta di tre romanzi (Il grande quaderno, La prova e La terza menzogna) autonomi quando uscirono tra il 1987 e il 1991 ma ormai considerati, anche editorialmente, inseparabili (come i gemelli).

Un trittico diventato ora spettacolo teatrale, ideato e fortemente voluto da Federica Fracassi, che parallelamente alla sua attività già notevole di attrice (pluripremiata negli anni, l’ultimo premio è l’Hystrio 2022) ha sempre partecipato a ideazioni e creazioni teatrali, basti ricordare la fondazione e poi la direzione per vent’anni di Teatro – i. “Ho letto la Trilogia a fine anni ’90 – ha detto di recente Fracassi – da allora l’ho tenuta sempre con me, desiderando di portarla in scena prima o poi”. Un desiderio condiviso negli anni scorsi con Chiara Lagani e Luigi De Angelis, ovvero Fanny & Alexander, anche loro con una passione per Kristof e una lunga e acclamata storia di ricerca teatrale che ha praticato spesso l’adattamento di opere narrative.

Lagani e De Angelis hanno curato rispettivamente drammaturgia e regia di questa trasposizione dei tre romanzi che mantiene il titolo einaudiano Trilogia della città di K. e che ha debuttato in prima assoluta il 23 novembre al teatro Sala Melato (dove rimarrà fino al 21 dicembre), prodotto dal Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa.

Il compito non era facile, per un romanzo cult, dal forte e indimenticabile timbro letterario (dovuto anche al fatto che Kristof, ungherese fuggita in Svizzera con marito e figlia nel 1956, lo scrisse in francese, nella lingua rimasta per lei sempre straniera se non nemica) e dalla struttura entro la quale si aprono continue digressioni, scatole cinesi narrative, ribaltamenti di verità e anti verità, presenze e fantasmi, sovrapponendo l’immaginato, il sognato e il vissuto. Fracassi, Lagani & De Angelis lo hanno risolto da un lato riprendendo l’esempio di quel che Ronconi dichiarò aver fatto per il suo Pasticciaccio del 1996 (“Ne ho fatto un’edizione teatrale più che un adattamento scenico”) con la scelta di dare rilievo alla scrittura, alle parti descrittive fatte recitare ai vari personaggi.

Dall’altro lato per rendere la polifonia, l’intrico psichico che caratterizza i personaggi di Kristof, F&A hanno attinto al loro stile di scrittura della scena, con l’uso di tecnologie vocali, immagini, musiche, rumori. All’interno dello spazio circolare del Melato, vuoto, con solo una scrivania, tagliato in due da una linea luminosa (che evoca il doppio, le due lingue, i confini, la mente bicamerale) si muovono in presenza cinque attori, ognuno interpretando più personaggi (oltre a Federica Fracassi, ci sono Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti, Lorenzo Gleijeses). Con loro, anche una ventina di schermi che sospesi nel vuoto, entrano ed escono, calati dall’alto (significativo che a uscire per primi a prendere gli applausi i quattro tecnici addetti al movimento delle corde). Un vero e proprio movimento danzante di video-installazione, all’interno dei quali comparivano lacerti di paesaggi, luoghi, dettagli, flashback ma soprattutto gli altri personaggi, interpretati da altri attori o in qualche caso solo la presenza in video dei loro corpi (a partire dai gemelli sdoppiati digitalmente, e incarnati da Leone Maria Baiocco per l’infanzia e Yari Montemagno per l’adolescenza).

Ne viene fuori una sorta di macchina ariostesca di grande fascino ed efficacia perché restituisce sulla scena l’immaginazione in modo materico, nel salto di linguaggio dalla scrittura al corpo e oltre, rendendo visibile allo spettatore il teatro mentale che il libro crea. Quello della scrittrice innanzitutto, e non a caso la scelta di Lagani è immettere in questa versione teatrale anche il personaggio-autrice, nel primo atto: la stessa Kristof interpretata da Federica Fracassi con una impressionante mimesi fisica e che avvia il racconto, nel dire quel “noi” in prima persona plurale del romanzo, che insieme alla sintassi crea quella prosa che Manganelli definì di “perfetta, innaturale secchezza, una prosa che ha l’andatura di una marionetta omicida”. Uno stile che dà correlativo stilistico alla durezza della vicenda narrata nel primo libro della trilogia: l’abbandono dei gemelli da parte della madre a una nonna crudele e indifferente (in video Anna Coppola). Le apparizioni digitali sono un tratto immaginifico del lampo di una favola nera, ad esempio qui la nonna con le sue risate demoniche. I due ragazzini fanno vita durissima di stenti e autodisciplina, mutano verso un cinismo infantile col quale sopravvivono in un paesaggio spettrale, tra guerra (siamo intorno al 1944), fame, violenze stupri, pedofili. I due gemelli appariranno sempre e solo in doppio video, con doppiaggio da altra voce di bambino (Vittorio Consoli). Qui forse c’è uno dei pochi elementi non convincenti: se la narrazione condotta da Fracassi con leggero accento straniero è adatto al senso di straniamento della prosa di Kristof, non altrettanto efficace l’effetto della voce del bambino che risulta fuori registro, incapace di contenere in sé quella potenza arcana di mondo tremendo che sarebbe necessaria.

Per il resto invece proprio la recitazione adottata nel corso dei tre atti da F&A, secondo il loro metodo dell’eterodirezione, funziona, anche se ovviamente con una partitura narrativa così complessa pesa un po’ sulla dilatazione dei tempi nella seconda parte, già lunga di suo e articolata (gli attori non hanno imparato a memoria il testo, ma lo dicono “in sync”, ascoltandolo da un auricolare letto dalla loro stessa voce). Un effetto al confine dell’antinaturalismo, che contribuisce alla tensione magnetica, sospesa, dello spettacolo. In questa seconda parte, che coincide con il secondo libro, prevalgono gli attori sugli schermi, senza più la presenza di Kristof. Si resta immersi nello sviluppo della vicenda e nella sua complicazione. Narrata prima in terza persona (e sempre gli attori a dire le parti descrittive, di volta in volta che la battuta passa a loro) è la storia di Lucas (Alessandro Berti) il gemello che, stando alla narrazione del primo romanzo, non è fuggito all’estero ma è rimasto nella città di K. Qui sopravvive suonando nelle osterie, vendendo ortaggi al curato (in video Renato Sarti) con cui ingaggia schermaglie psicologiche. Crescendo si lega a Yasmine (Consuelo Battiston), donna raminga a cui impedisce di uccidere il figlio Mathias, che poi crescerà come suo, anche se il bambino svilupperà un rapporto morboso e abnorme. “Il bambino è dappertutto” dice Lucas, è il segnale di un’ossessione e di un trauma che si rivelerà poi nel terzo libro (ma questa abnormità dell’infanzia, è data da una statua enorme, creata da Nicola Fagnani, che raffigura Mathias, accovacciato, che emerge da una botola, come una creatura del sottosuolo). Dal suo interno viene la voce, stavolta qui in modo efficace, una voce bambina che non è di bambina e infatti è quella, inquietante e fragile, della poetessa Chandra Livia Candiani. Si intrecciano i destini di vari personaggi: l’amante di Lucas, la bibliotecaria Clara (Fracassi), il libraio Viktor (Lorenzo Gleijeses), il funzionario di partito Peter (Andrea Argentieri). Sarà poi il suicidio di Mathias e la scomparsa misteriosa di Yasmine a determinare l’improvvisa sparizione di Lucas.

La trilogia della città di K è un “meraviglioso groviglio” scrive nelle note di regia De Angelis, e più si va avanti più cresce, cambiando ancora il punto di vista del narratore, tra prima e terza persona. A Lucas subentra – dopo cinque anni, secondo la vicenda romanzesca – Claus (sempre Berti) che sostiene essere l’altro gemello, fuggito all’estero decenni prima, tornato a K. per cercare proprio il fratello Lucas. Fatica a convincere gli altri, ma a complicare la situazione un rapporto di polizia che decreta il rimpatrio di Claus perché né lui né Lucas sono mai comparsi nei registri della città di K.

Si comprende la passione di Fracassi, Lagani e De Angelis per la Trilogia, perché è anche una strepitosa macchina teatrale (come del resto da sempre il topos dei gemelli) ed è a questo punto che diventa un meccanismo a orologeria (Kristof ha fatto per anni l’operaia in una fabbrica svizzera di orologi) ma inquietante, perché volutamente sghembo eppure esatto, nel passaggio delle voci e delle storie. Una cupa giostra di destini incrociati, un carillon stonato (e tra l’altro sono efficaci anche musiche e ambiente sonoro di Mirto Baliani e Emanuele Wiltsch Barberio, con adeguati contrappunti di accordi ipnotici e qua e là dissonanti).

Prima dello scioglimento finale, al sedicente Claus viene fatto ritrovare un Klaus T. che porta il suo cognome: chi è allora il fratello ricercato? E chi quello che cerca? Forse tutto quel che abbiamo visto era solo quanto immaginato (e scritto) in un romanzo da Lucas che ha cambiato nome una volta all’estero?

Anche Klaus lo ha cambiato, egli è poeta e scrive con lo pseudonimo “Claus Lucas” e scrive in prima persona questa parte della storia. È proprio a questo punto che l’impianto teatrale congegnato da F&A, con mescolanze di carne e digitale, luci e musica, e con lo stesso ingombro fisico degli schermi, che si muovono come spettri che fanno apparire ricordi e flashback, esplode in bellezza, diventando una costellazione o forse un labirinto attorno a un centro che non c’è.

In particolare risulta efficace nella fase finale dello spettacolo, quando Lucas è tormentato da sogni e da sofferenza psichica, cerca di ricostruire la propria storia, che gli appare, grazie anche al gioco di schermi e voci, sempre diversa. E ancora, quando ha finalmente il confronto con un gemello che non vuole averlo come specchio, in una vicinanza che si fa insieme distanza siderale tra i due, acuita dall’effetto maschera indossata da Gleijeses e soprattutto dallo scollamento tra corpo dell’attore che mima la sua parte con la voce registrata di Renzo Martinelli. Una terza parte pienamente compiuta, in cui la Trilogia di Fracassi e Fanny & Alexander diventa una tragedia onirica, kafkiana, ma senza alcun deus ex machina. Una storia che espelle sé stessa, la sua versione omozigote e che culmina nel duello tra i due gemelli dentro il loro castello di narrazioni che pare somigliare a un disegno di Escher. Tutto è esposto ma nulla è dato. Si rompe la linearità di tempi, con la sincronicità anche delle scene, sovrapposte e velocizzate. Emerge così alla fine quello che è può essere anche un senso ulteriore del romanzo, consegnato come un passaggio di testimone proprio al teatro, dal postmoderno narrativo al postdrammatico.

Il teatro come “terza menzogna” e unica possibile verità. Dove possono convivere proprio perché su una scena, le due menzogne gemelle, una che si travasa nell’altro come i passaggi dei quaderni dal primo al terzo atto. Un gemello completerà il manoscritto dell’altro, anche se il loro incontro non sarà riconoscersi come fratelli. Tutta l’operazione Trilogia della città di K. trasferisce nello spettatore l’incubo del romanzo, materializzando gli slittamenti di identità e l’angoscia di possedere, sì, una storia, che pure raccontiamo a noi stessi e sulla quale costruiamo il nostro destino, ma che è una casa con molte porte così come con molte verità. Non resta che accettare che tutte le storie, sia inventate che vere, siano meravigliosi grovigli di menzogne.

Nel portare in scena tutta la complessità del labirinto-Kristof, nel lanciare i frammenti romanzeschi in campo di tensione, lo spettacolo cresce via via, facendo dimenticare le tre ore di durata, si compatta e coinvolge emotivamente nello sgomento: quel che stavamo cercando come verità e risposta all’enigma, di questa vicenda e forse anche nella vita, è basato sulla domanda di una soluzione. Invece esiste una risposta che precede tutte le domande: “Mantieni l’enigma”.

••••••

Arriva a teatro a Milano la Trilogia della città di K, romanzo-capolavoro di Ágota Kristóf, di Laura Bevione | Artribune, 2 dicembre 2023

Coraggiosa e ambiziosa è la nuova produzione del Piccolo Teatro di Milano, il cui direttore, Claudio Longhi, ha accolto la proposta dell’attrice Federica Fracassi e dei suoi “complici” Chiara Lagani e Luigi De Angelis – ovvero la compagnia ravennate Fanny & Alexander – di realizzare un adattamento teatrale di uno dei romanzi più inquieti – e inquietanti – della letteratura contemporanea europea. Trilogia della città di K., pubblicato in Italia nel 1998, è, infatti, un romanzo corposo e complesso: suddiviso in tre parti – Il Grande quadernoLa prova e La terza menzogna – riflette, pur nell’aggrovigliato sovrapporsi dei piani narrativi e dei punti di vista e nella quasi disumana desolazione di situazioni e personaggi, l’esperienza biografica della sua autrice, l’ungherese naturalizzata svizzera Ágota Kristóf (1935-2011). La condizione di rifugiato, la dissoluzione delle relazioni familiari, l’obbligo di imparare e di esprimersi in una lingua nuova – una necessità, questa, che la scrittrice descrisse con dolorosa esemplarità nel racconto autobiografico L’analfabeta – sono l’humus di una narrazione tanto chiara e sobria quanto enigmatica e perturbante. Peculiarità che Chiara Lagani, autrice dell’adattamento teatrale, e Luigi De Angelis, cui si devono regia, scene, luci e video, riescono a restituire potentemente anche sul palcoscenico.

Qual è la struttura dello spettacolo Trilogia della città di K

L’adattamento teatrale del romanzo di Ágota Kristóf ne rispecchia la tripartizione: alle tre parti corrispondono altrettanti “atti”, ciascuno dei quali caratterizzato certo da un peculiare linguaggio drammaturgico benché coesione e unitarietà siano ognora preservate, grazie, in primo luogo, all’ampio spazio scenico dello Studio Melato. La prima parte è una sorta di film: in scena, seduta a una scrivania, spesso con la sigaretta in bocca, Fracassi incarna la stessa Ágota Kristóf – la somiglianza è impressionante – intenta a scrivere il suo romanzo mentre sui numerosi schermi rettangolari che incombono sul palco scorrono le immagini dei personaggi e delle situazioni evocate dall’autrice. I video – ne sono protagonisti Fausto Cabra, Anna Coppola, Alfonso De Vreese, Giovanni Franzoni, Marta Malvestiti, Mauro Milone, Renato Sarti – riflettono dunque lo sguardo interiore della scrittrice, la sua immaginazione creativa, nutrita di esperienze realmente vissute e di oscura visionarietà, di incubi concretamente sperimentati o orribilmente sognati.
La seconda parte, invece, vede l’irruzione in scena dei protagonisti del romanzo, interpretati, oltre che da Federica Fracassi qui nei panni della bibliotecaria Clara, da Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti, Lorenzo Gleijeses. In questo secondo atto lo sguardo è quello di Lucas che, insieme al gemello Klaus, è il motore dell’intero romanzo. Diventato adulto, abita nella città di K. dove sopravvive coltivando l’orto ed esibendosi nelle taverne, accoglie in casa una madre e il suo bambino – un enorme e conturbante pupazzo che fuoriesce da una botola – e intreccia una relazione con la bibliotecaria… Eventi e scelte che, apparentemente realistici e coerenti, celano un sottotesto narrativo al contrario rarefatto e quasi oniricamente espressionistico.
Nella terza parte, infine, gli sguardi – e i linguaggi, recitazione e video – si sovrappongono, rivelando – forse – la verità della vicenda di cui sono protagonisti i gemelli Lucas e Klaus…

La tecnica di recitazione dello spettacolo e l’architettura di Lina Bo Bardi

Luigi De Angelis racconta di aver tratto l’ispirazione per la sua “foresta” di schermi/pannelli rettangolari dall’allestimento creato dall’architetta Lina Bo Bardiper il Museo d’Arte di San Paolo del Brasile: «nel suo progetto, i dipinti di epoche diverse coesistono nello stesso spazio, sospesi, come se volassero nel vuoto, non se ne vedono i titoli, ma è il visitatore che, a seconda della propria affettività, seguendo un impulso emotivo, è attratto da un’opera o da un’altra». Allo stesso modo, il pubblico del Teatro Studio è libero di seguire quello o quell’altro degli schermi sospesi nel vuoto: una mobilità dello sguardo che interessa anche la seconda e la terza parte dello spettacolo, durante le quali gli attori si muovono in tutto lo spazio, suggerendo i diversi luoghi semplicemente spostando una sedia. Non solo, l’eterodirezione – la particolare tecnica di recitazione elaborata negli anni da Fanny & Alexander e che prevede che gli attori non imparino a memoria battute e movimenti ma li ricevano tramite auricolari durante la stessa performance – accresce la discreta ma palese incontenibilità del romanzo, la sua non riducibilità a paradigmi di incontestabile realismo.
Il progetto, nato da un’idea di Federica Fracassi e condiviso con Lagani e De Angelis, centra, dunque, con rigorosa e appassionata dedizione, l’obiettivo di ricreare sul palcoscenico il tormentato universo evocato da Ágota Kristóf, scrittrice desolatamente consapevole che l’immaginazione non è capace di curare le ferite inferte dall’esistenza bensì soltanto di “nominare” e “oggettivare” incubi e paure. L’immaginazione non consola dunque ma, come anche il teatro, permette di dare una forma e guardare negli occhi i propri fantasmi. Lo spettacolo, che si può vedere fino al 21 dicembre 2023.

••••••

Dalla città di K. si alza l’urlo della guerra, di Marco Balzano | La Lettura – Corriere della Sera, 3 dicembre 2023

Il 25 novembre sono andato a vedere Trilogia della città di K. al Picco Teatro di Milano. Il mattino avevo sfogliato come al solito il quotidiano e letto gli aggiornamenti sulla guerra in Medio Oriente – di quella Ucraina ho trovato qualche trafiletto solo nelle pagine centrali – e alcuni nuovi dettagli sulla tragedia di Giulia Cecchettin. Poi ho partecipato alla manifestazione milanese contro la violenza sulle donne: una folla numerosa e gremita invadeva largo Cairoli. E a sera ho assistito allo spettacolo. Racconto questo perchè la Trilogia è un’esperienza intensa che, con la forza che possiede solo il teatro, ti trascina proprio nel gorgo della guerra e della violenza.

Non ho mai riletto il capolavoro di Ágota Kristóf per l’ipertrofia della violenza che si incontra a ogni pagina, nella prima parte più che mai. É un romanzo eccezionale, con una scrittura tagliente con un ritmo incalzante che mi ha sempre comunicato claustrofobia e che ai tempi mi aveva molto inquietato, come è giusto che la letteratura faccia. Nessun altro mi fa pensare così a fondo alla guerra e nessun altro produce uno degli effetti catartici più sublimi: far toccare con mano il male per inoculare il desiderio di respingerlo. Senza guerra, del resto, l’intera storia non avrebbe senso. Non si coglierebbe la relazione continua, insistente, perturbante della violenza agita indifferentemente sui bambini, le donne, gli uomini:l’accanimento sui corpi lacerati, l’indugio sui cadaveri, la distorsione dei rapporti sentimentali, familiari, sessuali. La guerra è matrice di tutti gli orrori perchè li scatena, li legittima, li rende abitudine e non permette a chi li subisce di curarne il trauma.
Il primo merito di questa rappresentazione sta proprio nel rinnovare il desiderio di misurarsi con il testo della Kristóf, opera capitale del Novecento, che chiede ancora di essere interrogata, specie in periodi come quello che stiamo attraversando. Ma molti sono i pregi strettamente scenici e drammaturgici di cui qui si può provare a dare conto, non senza premettere però che l’attenzione del direttore del Piccolo, Claudio Longhi, alla letteratura da mettere in scena è una novità particolarmente importante nella storia di questo teatro. Federica Fracassi da molti anni ambiva a rappresentare l’opera della Kristóf e questo desiderio si incarna nel talento e nella naturalezza che porta sulla scena, confermandosi un’attrice di calibro nel panorama nazionale.
Nella realizzazione complessa di questo progetto l’hanno accompagnata Fanny & Alexander, con cui ha collaborato gomito a gomito dando vita ad un allestimento più che mai contemporaneo. L’attrice si siede pressapoco sotto lo schermo che raffigura Ágota Kristóf negli anni della sua maturità: il trucco la fa somigliare all’autrice in maniera impressionante. Fracassi quando racconta è come un aedo: la sua invocazione dà corpo a personaggi che su pannelli animati calano lentamente fino a terra, a pochi passi dal pubblico. La scrittrice appare così cantore e insieme spettatrice della sua stessa invenzione, la cui parola accende la vita e la memoria dei protagonisti.
Compare il padre che parte per la guerra, la madre che lascia i figli alla nonna, i gemelli inseparabili che trovano nell’esercizio fisico e nella scrittura il modo per sopravvivere e resistere al dolore. Tra i visi proiettati sugli schermi riconosciamo anche qualche voto noto, come quello di Renato Sarti nei panni del curato.
L’adattamento del romanzo e della drammaturgia sono di Chiara Lagani, che ha saputo mantenere in modo ammirevole l’equilibrio tra fedeltà all’opera e invenzione del contesto. La regia di Luigi De Angelis, infine, ha ben bilanciato le tre parti del romanzo – Il grande quaderno, La prova e La terza menzogna – facendole durare pressapoco lo stesso tempo e restituendo una percezione di forte unità.

La trama si srotola come nella Trilogia, con qualche inevitabile ellissi, ma con lo stesso ritmo incalzante. Le tragedie si susseguono una dietro l’altra, i pannelli animati si alzano e si abbassano e i volti dei gemelli crescono, si fanno ragazzi e poi uomini: alla stessa maniera il viso della nonna – che li chiama “figli di cagna” ma trova un modo per amarli e lasciar loro la sua eredità – diventa ancora più rugoso e stregonesco. Lì finalmente irrompono sulla scena gli altri attori, tra cui va ricordato Alessandro Berti, che interpreta Lucas e Klaus, i gemelli, e che si carica sulle spalle interi blocchi di storia, raccontandola con cambi di voce e di postura davvero ammirevoli. L’ingresso degli attori, infatti, fa scomparire Fracassi-Kristóf e la sua scrivania da autrice. Il testimone dell’aedo passa allora nelle mani degli interpreti, responsabili non solo del loro personaggio ma anche delle parti narrative che descrivono le singole azioni e congiungono i dialoghi.
La potenza di questo meccanismo drammaturgico sta nel fatto che agli attori basta evocare il gesto per farlo accadere cosicché possano concentrarsi sull’interpretazione per caricarlo di pathos. Penso ad esempio a Clara – sempre interpretata da Fracassi – la bibliotecaria che mette all’indice i libri che Lucas vorrebbe leggere. La sua malattia, il desiderio sessuale disperato, il dolore per la morte del marito Thomas, vengono resi in un’effusione carnale dove sangue e sesso si incontrano in un grido che non riesce ad essere mai definitivamente liberato.

Nell’ultima parte, come ci ricorda il titolo, tutta la storia viene messa in dubbio, ogni accadimento è forse l’esito di altri fatti e nasce da altre cause. Gli stessi personaggi potrebbero non essere ciò che sono: la nonna una semplice anziana della città, Lucas potrebbe essere Claus e viceversa. A questo punto il mondo desertificate, spoglio, distrutto dalla violenza della guerra non può nemmeno dirsi con certezza una qualunque città del profondo Est durante la dittatura, anche se l’ombra di un regime che obbliga a obbedire, a rispettare le gerarchie e a “non pensare”, come ribadisce Peter, è sempre più lunga.
In questo finale la storia assume quasi una dimensione metafisica, sottolineata sulla scena dai pannelli di un azzurro sporco, particolarmente carico, che insieme alle luci forti e calde fanno stringere gli occhi allo spettatore. Sembra allora di ritrovarsi in un aldilà, una dimensione extraumana o fiabesca dove però il dolore dell’anima continua a straziare. Una sofferenza che trova la sua ragione di esistere in ogni luogo in cui prosegue la guerra.

••••••

Fanny & Alexander e la Trilogia della città di K. al Piccolo Teatro, di Anna Toscano | Minima & Moralia, 5 dicembre 2023

La Trilogia della città di K. è in scena al Piccolo Teatro fino al 21 dicembre, nel Teatro Studio Melato che accoglie, e abbraccia, lo spettacolo nato da un progetto dell’attrice Federica Fracassi e realizzato con il collettivo Fanny & Alexander, composto da Chiara Lagani e Luigi De Angelis.

Lo spettacolo teatrale nasce dall’omonimo libro di Ágota Kristóf, uscito nella sua edizione integrale nel 1988: un romanzo composto da tre romanzi, pubblicati in anni diversi, e in sé apparentemente autonomi.

Una storia non lineare, quella della Trilogia della città di K., si snoda in varie e differenti vicende che accadono a due ragazzini gemelli in tempo di guerra e fino all’età adulta. Nel primo romanzo, Il grande quaderno, sono i due gemelli che parlano dicendo noi e raccontando la loro storia da quando la madre li porta dalla grande città, bombardata dalla guerra, alla piccola città, la città di K., dalla nonna. I due narrano la loro vita scrivendola in un quaderno, il loro quotidiano fatto di difficoltà da superare, di assenze e solitudine. In una grande mancanza di affetto – la nonna li chiama “figli di cagna” – affrontano la crescita, in un mondo e in un modo durissimo, uniti. Fino alla loro divisione, quando uno dei due passa il confine con la promessa di tornare.

I due gemelli, scopriamo nel libro centrale, La prova, sono Luca e Claus; Lucas resta nella piccola città e racconta ciò che gli accade negli anni in cui attende che torni Claus. I personaggi che compaiono, nei primi due libri, sono molti e tutti interagiscono come uscendo da una grande solitudine per incontrare gli altri, ma incontrano solo anime in esilio anche da loro stesse. Nel terzo romanzo, La terza menzogna, vediamo Claus che riceve una telefonata di Lucas che è tornato per incontrarlo. Chi è partito? Chi è tornato? Chi sono i due gemelli? Esistono davvero entrambi? Quale è stata la sorte dei genitori, quale delle due narrazioni sono vere? O quella vera è un’altra ancora? Sono domande che la lettrice e il lettore si pongono perché la narrazione di Ágota Kristóf è un continuo raccontare diversi punti di vista della storia e questo narrare preclude ogni logicità. Le storie sono diverse a seconda di chi le racconta, i dettagli non combaciano, i particolari sfuggono, la storia è sempre più crudele per tutti i personaggi. Ma nessuno mente, ognuno racconta la propria verità, una verità accaduta o ricostruita per non soffrire ancora: i ricordi si intersecano o si sfiorano, perché la mente che ricorda è casa dagli specchi alterati.
Ágota Kristóf in questo romanzo ha riversato parte di sé stessa e di molte storie che sono accadute nei primi decenni della sua vita: fuggita a 21 anni con un neonato al collo dall’invasione armata sovietica in Ungheria, arriva nella Svizzera francese da dove non andrà più via. Una vita, quella da rifugiata, segnata dalla solitudine, dall’esclusione sociale, dalla durezza del quotidiano in una fabbrica, dal sentimento di non apparenza. Dopo una dura lotta con la lingua francese Ágota Kristóf scrive i tre romanzi, ispirandosi alla lingua scritta sui quaderni di scuola dei suoi bambini: i fin dei conti saranno proprio due bambini gemelli a parlare nel primo libro.

Il Teatro Studio Melato, con il suo spazio circolare, sembra il luogo profetico in cui questa storia riprende vita, e lo fa attraverso la scelta geniale di aprire sulla scrittrice stessa, Ágota Kristóf, intenta al suo tavolo a scrivere la storia, una scelta fortissima che sottolinea come le storie, quelle della scrittrice e quelle nel romanzo, siano indissolubili. Ágota avanza lenta nello spazio vuoto, solo la scrivania e una linea luminosa che divide in due la scena, con il suo distintivo caschetto nero e gli occhiali, e racconta una storia. Lo fa a parole, le sue del romanzo, e per lei lo fanno personaggi in carne e ossa e personaggi che appaiono in numerosi pannelli animati che in tempi e luoghi diversi portano atti, parole, sguardi, gesti.

I primi due libri sono la prima parte dello spettacolo che, con la comparsa della scrittrice, scorre con i personaggi della storia interpretati da quattro attori (oltre a Federica Fracassi, ci sono Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti, Lorenzo Gleijeses) che entrano nel gioco del doppio, dello sdoppiamento, della ripetizione di gesti e parole. I tic ripetuti, le immagini ricorrenti, gli oggetti che riappaiono, nell’essenzialità della messa in scena, dilatano la narrazione e fermano l’immaginario in potenti diapositive. Il tempo della narrazione nella scena teatrale si condensa in un’unica macro storia in cui tutti i personaggi raccontano la loro vicenda, senza alterare nulla della verità menzognera che portano con sé.

La favola nera dei due gemelli abbandonati con la nonna strega in un mondo fatto di prove dure da superare si condensa in un interno borghese di famiglia in cui gli orrori della Storia attraversano ogni vita, e gli orrori della storia minore non sono esenti da crudeltà, gli orrori di molte famiglie, di molte vite. Sembra di essere per un attimo dentro La quinta del sordo, in cui l’artista Philippe Parreno, attraverso un video che vaga tra luci e ombre, suoni e visioni, dà vita alle Pitture nere di Goya tra pareti e stanze: la follia, l’incubo, il dolore e la violenza nei volti di decine e decine di Luca e Claus.

Il secondo tempo dello spettacolo scioglie i fili facendoli passare vicini, quasi unendoli, per poi riaggrovigliarli: i due gemelli si incontrano di nuovo, speculari e distantissimi, ognuno nella trincea del proprio dolore, trincea colma. La storia si dipana. Questo ultimo atto è una scelta coraggiosa nel dare una risposta alla spettatrice e allo spettatore, così come alla lettrice e al lettore, una risposa che sia la soluzione dell’enigma, eppure al contempo presenta l’enigma a cui ogni persona può dare, se vuole, una soluzione.

L’interpretazione eccezionale, nel continuo spostamento di corpi in uno spazio quasi del tutto vuoto e pieno di così tanta storia, dà forma a una vicenda obliqua e dolorosa. Rende ancora più potente la resa il fatto che gli interpreti recitino le battute non a memoria, ma ascoltandole da un auricolare dalla loro stessa voce, una sorta di parlato in flusso di parole che ne amplifica la traiettoria. Flusso di parole che possono essere discorsi diretti o indiretti, che si amalgamano ai pochi e precisi movimenti, ai tic e ai gesti che fissano il personaggio e la sua direzione. Viene portato in scena il filo rosso che unisce ogni personaggio che è l’estrema solitudine di ognuno, solitudine che si unisce a quella dell’altro o dell’altra nella ricerca di un poco di umanità. Umanità che di rado fa capolino in questa come nella gran parte delle storie del mondo.

Il montaggio delle diverse, e lontanissime tra loro, verità che compongono il romanzo, da parte di una grande scrittrice che ha saputo riversare sé stessa nella scrittura rendendo le sue storie un pezzo delle storie di tutta l’umanità, è un montaggio che in questo spettacolo diviene fedele al testo fino a interpretarne l’enigma.

Lo spettacolo si conclude con la scrittrice, Ágota Kristóf, che rientra in scena, per chiudere il cerchio, chiudere la storia, congedare i suoi personaggi, ma meravigliosamente lasciando la porta aperta sull’interpretazione di ognuna e ognuno, perché come scrive la scrittrice stessa «Non si può spiegare tutto, non fa bene. Sull’esilio, sulla morte, sul dolore non c’è molto da dire. Sono fatti. Tutto qui».

••••••

La scrittrice narra la vita dei gemelli, di Magda Poli | Corriere della Sera, 7 dicembre 2023

Schermi scendono dal cielo dello Studio Melato di Milano, quasi fossero pagine di un libro che si riempiono di immagini, personaggi, o restano alla fine bianche, quasi lo spettatore possa riempirle con il suo sentire.
Sul palco una scrivania e una donna che con accento dell’Est le anima col suo raccontare. E’ Federica Fracassi nel ruolo della grande scrittrice Ágota Kristóf, autrice del corposo Trilogia della città di K., penetrante romanzo d’iniziazione, che in tre distinti libri scritti in tempi diversi lo compone.
Sostenitori e complici di un’operazione impegnativa e di bel fascino sono Fanny & Alexander, Chiara Lagani e Luigi De Angelis e sul palco bravi attori da Andrea Argentieri a Lorenzo Gleijeses. E la narrazione della vita dei gemelli Lucas e Klaus abbandonati per salvarli dalla guerra a una nonna pessima, quindi della loro separazione, e infine del loro impossibile ritrovarsi. Lo spettacolo restituisce la complessità di una scrittura asciutta ed aspra che non segue un tempo cronologico, e penetra nel labirinto di vite sconvolte. Tre verità, tre diverse storie, tre menzogne?
C’è un filo che tutto unisce la solitudine e il complesso, aspro a volte impossibile scorrere dell’esistenza.

••••••

Narrazione e metanarrazione in “Trilogia della città di K.”, di Alessandro Stracuzzi | Fermata Spettacolo, 8 dicembre 2023

«Lo spazio dello spettacolo, di fatto, non esiste. La sua dimensione fisica risiede solo negli oggetti che appaiono in scena». Così, nel 2002, in una conversazione con Aldo Viganò, Luca Ronconi narrava il proprio lavoro su “Quel che sapeva Matisse”. L’allora direttore del Piccolo era già noto per la propensione a tradurre sulla scena testi nati per la lettura, ma Maise era un caso particolare: l’infanzia della ormai anziana protagonista veniva narrata attraverso il filtro dei ricordi del passato, facendo emergere una ricostruzione incompleta, instabile, traballante.

Il tema della parzialità della narrazione e della frantumazione delle informazioni traspare in modo assoluto anche in “Trilogia della città di K.”, nuova produzione del Teatro Piccolo di Milano, in scena fino al 21 dicembre presso il Teatro Studio Melato.

Il romanzo di Agota Kristof, punto di partenza della drammaturgia di Chiara Lagani, segue da vicino i destini diversi di Lucas e Claus, gemelli separati da bambini allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. La città di K. è un luogo infernale dove la morale viene costantemente tradita, dove regnano sopraffazione ed abuso. La cruda e disturbante vicenda – che ingloba in sé questioni complesse, come guerra, violenza e sopravvivenza – si compone come un puzzle di eventi, nomi e dettagli, un labirinto di informazioni in cui lo spettatore deve districarsi per ricostruire attivamente un’immagine compiuta della storia.

In questa traduzione scenica del romanzo sembrano emergere due lenti tematiche. Da un lato, nella regia di Luigi De Angelis domina il concetto di “limen”, confine: sin dall’inizio dello spettacolo, e praticamente per tutta la sua durata, una linea di luce divide perfettamente in due il palcoscenico. Rappresenta la frontiera tra la città di K. e il resto del mondo, tra le zone in guerra e le terre in pace, ma è anche simbolo dei sentieri paralleli che i due gemelli sono costretti a intraprendere.

D’altro canto, il dramma composto da Lagani sembra proporsi come una riscoperta delle possibilità e delle potenzialità della narrazione. Ridotta al minimo l’azione scenica, l’evolversi della storia avviene perlopiù tramite il racconto. Nella prima parte della trilogia, personaggi e location evocati dalla ricostruzione di Ágota Kristóf (interpretata da Federica Fracassi) vengono mostrati al pubblico unicamente attraverso statiche sequenze video, trasmesse su schermi rettangolari posti a mezz’aria. L’immagine filmica, lungi dall’essere sfruttata per la sua potenzialità illusoria, finisce per svelare la natura finzionale dello spettacolo stesso. I primi piani degli attori sono immersi in posticci fondali neutri e vengono giustapposti ad ambienti reali e naturali (alberi, fiori, ruscelli, animali…). Nel secondo e nel terzo atto, invece, sono gli stessi corpi degli attori a diventare medium della narrazione: la loro recitazione è straniata, la loro azione limitata, ed enunciano sistematicamente didascalie di scena.

Esperimento di tenuta e dilatazione del tempo, lo spettacolo immerge il pubblico in una dimensione fuori dal comune che lo rende alienato di fronte al dolore. Emblematica è l’immagine che appare sul palco a inizio secondo atto: una gigantesca statua dalle sembianze umanoidi viene lentamente e perentoriamente a galla da una botola. È un corpo deformato, dalle spalle disassate e rannicchiato su sé stesso. È Matias, nient’altro che un bambino, nient’altro che il risultato informe della claustrofobica società del testo.

••••••

‘Trilogia della città di K.’, il ritratto doloroso di Ágota Kristóf, di Anna Bandettini | la Repubblica, 8 dicembre 2023

Il teatro ruba spesso alla letteratura, talvolta con effetti mortali. Invece per i Fanny e Alexander, sigla nota e amata della scena contemporanea italiana, è un lavoro serio, fatale, fin dai tempi del giovanile Alice da Lewis Carroll, a Ada, cronaca familiare da Nabokov, o al progetto su Il mago di Oz.

Ora, spinti dalla volontà e determinazione di una brava attrice come Federica Fracassi e grazie al Piccolo di Milano che ne ha colto la potenzialità, hanno affrontato una avventura interessante e complessa, per di più su un best seller che raccoglie schiere di inossidabili fan, con la prima messa in scena italiana della intera Trilogia della città di K. di Ágota Kristóf, grande successo editoriale degli anni Novanta: tre romanzi sulle vicende di due gemelli, Lucas e Claus, la loro nonna atroce, la miseria, la guerra, l’avvilimento… tutto lungo traiettorie divergenti che ne fanno insieme un racconto di formazione, un thriller visionario, un’autobiografia, una storia del Novecento.…

E infatti lo spettacolo dei Fanny – Luigi De Angelis alla regia, Chiara Lagani all’adattamento, perfetto, del testo – costruisce, nello spazio a pianta centrale del Teatro Studio dove ogni sera è accolto da applausi convinti e dove resterà fino al 21, una macchina scenica volutamente ambigua, un eterogeneo mosaico di teatro, cinema, dialoghi e voci interiori, molto congeniale alle presenze e assenze, ai viaggi reali e mentali del diabolico romanzo.

Si parte dal primo libro, con una trentina di schermi che salgono e scendono dall’alto, e compongono con suggestione quel labirinto di luoghi e persone (e c’è un cast solo per lo schermo: Anna Coppola, Fausto Cabra, Renato Sarti, Giovanni Franzoni per citarne alcuni…..) che è il primo capitolo della trilogia, in parte narrato dalla stessa Ágota Kristóf, cioè Federica Fracassimimetizzata nella scrittrice ungherese mentre crea la storia davanti al pubblico.

Più teatrale, antinaturalista è la rappresentazione del secondo libro dedicato alla vita di Lucas e ai suoi itinerari mentali (e qui lo spettacolo con evidenza cita Dogville di Lars von Trier), per chiudere nell’ultima parte, con il ritorno di Claus, quella dove più la storia resta sospesa tra realtà e irrealtà, e lo spettacolo tra cinema e teatro. Gli attori, sono tenuti lontani da verità psicologiche; azioni, gesti, vocalità paiono parte di una geometria prefissata, e sono perfetti così.

Federica Fracassi, Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti, Lorenzo Gleijeses fanno un lavoro teso, pulito e restituiscono il ritratto doloroso, estremo della condizione umana che vibra nell’universo Ágota Kristóf.

••••••

Trilogia della città di K. Federica Fracassi e Fanny & Alexander nel romanzo della Kristóf, di Mario Bianchi | KLP – Krapp’s Last Post, 9 dicembre 2023

Bisogna proprio amarla con tutta l’anima, e conoscerla fin dentro le sue viscere, la “Trilogia della città di K.” di Ágota Kristóf, per metterla in scena, tanto è difficile perfino narrarla a parole, e descriverne, uno dopo l’altro, in modo convincente, gli avvenimenti, con tutti quei suoi anfratti narrativi, e i punti di vista sempre diversi… che alla fine quello che sembrava così naturale non è poi ciò che avevi intuito.

Così tanto l’hanno probabilmente amata Federica Fracassi e Fanny & Alexander (Chiara Lagani, drammaturga, e Luigi De Angelis, regista) che, allo Studio Melato di Milano, hanno scelto di utilizzare – per le tre parti di cui è composto questo capolavoro – strumenti teatrali diversissimi.

La scrittrice ungherese pubblicò i tre romanzi tra il 1986 e il 1991, componendo una specie di favola nera che si svolge al centro di un inferno familiare, tratteggiata da episodi spesso raccapriccianti, dove il termine speranza è pura illusione, e dove “il verbo amare non è un verbo sicuro”. La città di K, in fin dei conti, riflette anche l’esistenza dell’autrice che, giovanissima, decise di emigrare dal suo Paese, invaso dall’Armata Rossa, per trasferirsi nel 1956 in Svizzera con il marito e la figlia.

Al centro della storia vivono i gemelli Lucas e Claus, che la madre, per salvaguardarli dalla guerra che sta travolgendo il Paese, affida alla vecchia nonna, che abita in un paesino lontano, la città di K appunto.
La nonna, una donna burbera e respingente, sottopone i due ragazzi, diventati inseparabili, a lavori gravosi e a punizioni corporali, nell’intento di renderli immuni alle sofferenze. Intanto i due ragazzi scrivono in un quaderno tutte le loro esperienze e i loro rapporti con gli altri abitanti della città di K.
La fine della prima parte coincide, dopo la morte della madre a causa di una bomba, con la loro la separazione, quando Claus, in maniera machiavellica, riuscirà a oltrepassare la frontiera, ma del gesto ne farà le spese il padre.
Vedremo più avanti come tutto quello raccontato e visto in scena sino a questo momento non corrisponde però quasi per niente a quanto accaduto in realtà.
La prima parte è narrata da Federica Fracassi nelle vesti di Ágota Kristóf che, su una scrivania, scrive e legge il “Grande quaderno”, il plot che costituisce la prima parte del romanzo. I personaggi non vivono sulla scena, ma prendono sostanza attraverso una coralità di immagini che sembrano sgorgare dalla sua mente, visualizzate in maniera evocativa attraverso numerosi schermi, di varie dimensioni, che dall’alto vengono calati di volta in volta, non sempre relazionandosi a ciò che è narrato, invadendo la scena da ogni parte dello spazio circolare del Teatro Melato, diviso in due da una striscia luminosa, a indicare forse la separazione tra verità e realtà immaginata, e lasciando a tutti noi la possibilità di scegliere quella giusta.
Vediamo dunque il passare dell’età dei due gemelli: prima ragazzini, poi adolescenti (Leone Maria Baiocco, Yari Montemagno), i genitori, la nonna (Anna Coppola), il curato (Renato Sarti), la ragazza dal labbro leporino.

Nella seconda parte, denominata “La prova”, i modi teatrali del raccontare mutano radicalmente. Davanti agli spettatori, aiutati da scritte luminose, si muovono i personaggi in carne ed ossa: Lucas, Yasmine e Mathias, il figlio nato da una relazione incestuosa tra la donna e il padre, che sotto forma di una grossa scultura (di Nicola Fagnani), esce dal pavimento.
Vedremo Lucas (Alessandro Berti) innamorarsi di Clara (la stessa Fracassi), occupandosi amorevolmente di Yasmine (Consuelo Battiston), e Mathias che, dopo l’abbandono della madre, deciderà di suicidarsi.
Gli attori non hanno imparato a memoria il testo ma, come posseduti dal personaggio, lo recitano “in sync”, ascoltandolo da un auricolare, letto da loro stessi, un espediente di etero direzione molto caro a Fanny & Alexander, che rende l’atmosfera più antinaturalista, ambientata in un luogo e in un tempo sospeso.
Della partita sono anche il libraio Viktor (Lorenzo Gleijeses) e il tetro dirigente di partito Peter (Andrea Argentieri).
Intanto Claus fa ritorno nella città di K.

Nella terza parte (“La terza menzogna”) schermi muti e attori si intersecano tra loro, per dar vita al ritorno del fratello lontano, diventato uno scrittore con lo pseudonimo di “Claus Lucas”. Tuttavia nessuno degli abitanti sembra ricordarsi di lui, e non esistono neanche prove della sua presenza nella città di K.
Eppure i due fratelli paiono proprio incontrarsi. Ma sarà vero o uno ne ha solo le apparenze e utilizza una maschera per sembrargli simile (Lorenzo Gleijeses)?
Rimangono molte altre domande a interrogare lo spettatore, con risposte possibili ma non certe, in un crescendo in cui tutto pare verosimile…

In principio narrato in terza persona, e poi con il testo tramandato dagli attori che ne hanno precedentemente proposto le parti descrittive, nel pubblico pian piano si incuneano nuove e diverse realtà, che smentiscono ogni intuizione precedente.

Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti e Lorenzo Gleijeses si pongono in scena coadiuvati da una ventina di altri attori che appaiono in video, ognuno interpretando più personaggi. Lo spettacolo è una specie di caleidoscopio, un labirinto emozionale che si mostra sempre colmo di stupori inattesi e non sempre volutamente intellegibili con la ragione, riuscendo nel contempo a impastare in modo sapientemente suggestivo la presenza degli attori con immagini e riverberi vocali, musicali, rumoristici (il fantasmagorico ambiente sonoro è creato da Mirto Baliani e Emanuele Wiltsch Barberio).

Così, il teatro, per sua natura “menzogna”, si fa artefice, attraverso i mezzi che possiede (qui anch’essi spesso menzogneri) di molte verità, tutte plausibili, che per oltre tre ore ci inducono a comprenderne sino in fondo i reali contorni, ma senza riuscirci completamente.
Ne nasce uno spettacolo assai particolare, coraggioso nella sua costruzione, imbastito attraverso diversi e profondi saperi teatrali, proprio per rendere intatta – nella sua incredibile complessità (e similmente articolata) – un’opera tanto particolare come quella della Kristóf, che acquisisce con il teatro nuova e diversa linfa vitale.

••••••

Lo sguardo in tralice di Agota per la sua Trilogia, di Maddalena Giovannelli | Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2023

Chi ha letto e amato Trilogia della città di K di Agota Kristof a ridosso della sua uscita in Italia (1998) spesso ha la sensazione di  ricordare bene il libro e le sue atmosfere cupe. Guardando lo spettacolo omonimo che ha appena debuttato al Piccolo Teatro, tuttavia, il lettore scoprirà che i ricordi riguardano probabilmente la prima parte della trilogia, Il grande quaderno: una raggelante favola nera in cui i fratelli Claus e Lucas fronteggiano le asprezze della guerra in una cittadina dell’Est, subendo e provocando ogni genere di crudeltà. La compagnia Fanny& Alexander, che firma la versione teatrale, si prende invece carico di dispiegare l’intera vicenda (per un arco di oltre tre ore), tendere i fili interni, provare a discernere la fitta e oscura trama di realtà e finzione.

Per farlo, utilizza tutte le frecce che uno spettacolo teatrale ha al suo arco: l’ottimo adattamento drammaturgico (a cura di Chiara Lagani), le luci, l’articolazione dello spazio, le relazioni personaggio/ interprete(regia di Luigi De Angelis). Basti un solo esempio, per rendere l’idea. Nella seconda parte, La prova, Kristof fa emergere la possibilità che la coppia Claus/Lucas sia in realtà frutto dell’immaginazione di uno dei due. Scegliere per i fratelli ormai adulti un solo interprete oppure due diversi attori diviene in questo quadro una fondamentale scelta di regia e di interpretazione (non sveleremo qui le articolate soluzioni adottate). Per ogni atto lo spettacolo adopera una diversa cifra stilistica, immergendo di volta in volta il pubblico in conturbanti paesaggi sonori e visivi. La città di K. dell’infanzia— con i suoi cimiteri, i granai, la frontiera—è restituita al nostro immaginario con una selva di schermi di diversa dimensione (che rarità, sulle scene, un utilizzo così elegante e funzionale dei video); il secondo atto è un reticolo di case e stanze tracciate à la Dogville attraverso una rigorosa geometria di luci(notevole qui la performance attoriale di Alessandro Berti); il terzo si muove tra tre registri—sogno, realtà, passato—mentre ricostruisce come in un noir la verità.

A tirare le fila della vicenda, in principio e alla fine, è una figura curva e pensierosa che scruta la scena attraverso spessi occhiali e prende appunti: è l’attrice Federica Fracassi (a cui si deve anche la co-ideazione del progetto) che incarna l’ungherese Agota Kristof. Se si guarda con attenzione il programma di sala, si scopre un interessante quadro cronologico ricostruito dalla compagnia, che mette in luce le relazioni tra la grande Storia(il ruolo dei dominatori tedeschi, e poi russi in Ungheria), la piccola storia di Lucas e Claus, e la biografia di Agota. Le simmetrie sono tali e tante da autorizzarci a pensare che qualcosa dell’atroce vicenda che abbiamo appena ascoltato riguardi anche lei. Così sembra suggerirci con il suo sguardo in tralice, triste e sornione.

••••••

Trilogia della Città di K. Fanny & Alexander nella ragnatela Kristóf, di Sergio Lo Gatto | Teatro e Critica, 14 dicembre 2023

La Trilogia della Città di K. non è una trilogia; è un racconto unico ma fratturato e contuso da una grafia sofferta e maniacale. Tornando sullo stesso modello, per un’intera vita di scrittrice l’ungherese/svizzera Ágota Kristófinseguirà sé stessa e i propri traumi (che poi sono quelli di tutta un’Europa) in un labirinto di rimandi, allusioni, nascondimenti e voragini. La Trilogia non è un’epopea, ma un’elegia, un incubo a occhi aperti in cui si affastellano i più profondi sensi di colpa dell’essere umano. La Trilogia è un irrisolvibile anagramma logico, una sciarada narrativa che non concede mai la speranza di assumere davvero un punto di vista altro che non sia quello dell’autrice, impegnata a sgattaiolare via attraverso insospettabili cunicoli scavati dentro a una struttura del discorso labirintica e, in definitiva, indecifrabile.
Se possiamo dire questo è perché abbiamo assistito all’omonimo progetto di Federica Fracassi e Fanny & Alexander prodotto dal Piccolo Teatro di Milano. Si tratta di un’imponente operazione che, nelle mani di Chiara Lagani, non abita neppure più il reame dell’adattamento, ma espugna quello della possessione, del mesmerismo drammaturgico e della macabra creazione e uccisione di doppi. Quella dei gemelli Lucas e Klaus – separati dall’invasione russa in Ungheria nel 1939 e poi riuniti e sovrapposti in una sorta di altrove della memoria che si mescola al delirio onirico – è una vicenda che disegna un contorno alla violenza, alla guerra, alla brutalità dell’infanzia, alla lacerazione emotiva dell’età adulta.

Perfettamente adatta è la scelta dell’agorà scura del Teatro Studio Mariangela Melato, dove la regia di Luigi De Angelis (leggi anche l’intervista a cura di Simone Nebbia) può davvero radunare trent’anni di ricerca scenica di questo sorprendente duo e catturare il pubblico in un sortilegio collettivo cui è impossibile sottrarsi. In una profondità di palco oceanica, squarciata a metà da una sottile striscia di led luminosa, si accendono quadrati di luce sagomata che all’occorrenza mutano gradiente, agendo sulla temperatura della scena e della sala. Lo spazio è aperto e non tollera pareti, ospita pochi mobili strappati al proprio abituale fondale, abbandonati a fare da fredda sineddoche di piccole vite nelle scene d’interno, mentre dall’alto piove giù e monta una ventina di schermi, mostrando ora una scenografia virtuale, ora icone incorniciate in “stanze digitali”, segni di una storia che non può rispettare nessi cronologici. In questo ineffabile gioco di specchi sta il senso di una narrazione solo apparentemente frammentata, e che piuttosto tiene in equilibrio le diverse sfaccettature di un unico sguardo – disperato – sulla realtà, fatto di promesse non mantenute, tradimenti, abusi ingiustificabili, morti improvvise e improvvise resurrezioni di un personaggio dentro l’altro.

Il sound design di Mirto Baliani ed Emanuele Wiltsch Barberio è spazializzato a 360 gradi, diffonde ovunque la chirurgica eterodirezione – da tempo un’arte e una regola nelle mani di De Angelis e Lagani – che comanda un cast camaleontico (anche grazie ai costumi di Gianluca Sbicca) di cinque interpreti che danno vita a venticinque personaggi: severamente bonario è Andrea Argentieri, agile nel melò come nell’invettiva Consuelo Battiston, granitico e tagliente Lorenzo Gleijeses, tutti in perfetto asse ritmico e padroni dello spazio, mentre l’attore-autore Alessandro Berti viene finalmente liberato come interprete nella propria maestria di corpo, gesto e sfumature vocali. E poi Federica Fracassi, una sorta di spirito ancestrale irrefrenabile e cangiante che abita quasi tutte le dolenti figure materne convocate dall’autrice, oltre che l’autrice stessa, quest’ultima in un’evocazione quasi negromantica che cita il percorso dei ritratti mimetici già tratteggiato altrove da Fanny & Alexander.

Montata su un ascensore che lentissimamente sale da sotto a una botola è poi la scultura gigante di Mathias, il bambino-martire che funge, per la storia e così per la lettura del regista, come capro espiatorio di una vicenda che lascia tutti sconfitti. Con questo macrocefalo simulacro di quell’adolescenza divorata dalla guerra – che davvero racchiude il senso di Kristóf per l’innocenza – l’artista Nicola Fagnani reinterpreta un’opera iperrealista di Ron Mueck: prende vita in una gelida immobilità, spandendo nello spazio la voce infantile prestata dalla poetessa Chandra Livia Candiani. Il gusto per il macabro e per il posticcio, unito a un sottile lavoro sul doppio, ritorna poi nell’ultimo atto, quando i due gemelli si riuniscono in un inquietante doppelgänger, la cui potenza metafisica si traduce nella straniante vestizione di una maschera: i tratti somatici di Berti sono animati dal corpo e dal labiale di Gleijeses, la voce di Lucas/Klaus è ormai una traccia registrata di frequenze medie come quelle delle chiamate interurbane. Somiglia un po’ a quel pianoforte automatico relegato a fondo palco, sul quale qualche fantasma interviene a tratti a ticchettare.

Di là dai fasti di una sontuosa produzione che – e troppo spesso capita di rammaricarsene – difficilmente potrà attraversare il Paese, quel che sorprende di questa operazione è l’apparenza di un totale controllo della pur intricata trama, trattata come una crudele pagina di diario interiore che, non fosse accartocciata da una paradossale grafia, potrebbe portare la firma di chiunque di noi.
Se pur non risparmia ampi scivoli e spericolate sinusoidi nel ritmo scenico e nella durata, La Trilogia della Città di K. di Federica Fracassi e Fanny & Alexander lo fa in maniera calcolata e volutamente ruvida: non è un esercizio intellettuale, ma una sfida alle possibilità fisiche del teatro. Essa chiede molto all’occhio che guarda e all’orecchio che ascolta, risultando a volte irritante per la caparbietà con cui manipola il tentativo che tutte e tutti abbiamo ad assegnare significato univoco alle storie di vita. Il punto, forse, sta proprio qui: non importa quanto sgradevole possa risultare, il teatro può rendere spazio, corpo e durata un viaggio emotivo e insieme intimamente politico. E il senso di fastidio è lo stesso provato da Kristóf mentre, tessendo la trama di un simile ordito, si rendeva conto che un’identità univoca noi umani non siamo fatti per averla. Come in una lezione di responsabilità, quest’opera sembra dirci che sta a noi definire e comprendere la Storia, così esplosa in un palindromo di eventi dove, d’improvviso, il senso precipita e scompare.

••••••

Viaggio con Ágotha Kristóf al termine dell’infanzia. Conversazione con Luigi De Angelis, regista della “Trilogia della città di K”, di Nicola Arrigoni | Sipario, 16 dicembre 2023

«Non si può spiegare tutto, non fa bene. Sull’esilio, sulla morte, sul dolore non c’è molto da dire. Sono fatti. Tutto qui.» Sono parole di Ágotha Kristóf, parole che cercano una fattualità dell’accadere che è destinata inevitabilmente a sciogliersi nella molteplicità dei punti di vista.  Lo sguardo narrate dei gemelli Lucas e Klaus ha come scenario la guerra che incombe, l’abbandono della casa natale. Il Grande Quaderno, La prova e la Terza menzogna sono le parti della Trilogia della città di K., romanzo ambientato negli anni della Prima Guerra Mondiale, ma che non esplicita le coordinate storiche per proiettarsi in una sorta di assolutezza del racconto. mediato dalla testimonianza dei due protagonisti Lucas e Klaus. La Trilogia della citta di K., messo in scena da Fanny & Alexander, è una sorta di chiamata condivisa da Federica Fracassi e accolta dal Piccolo Teatro di Milano e dal suo direttore Claudio Longhi in uno sforzo produttivo potente e inventivo che mette alla prova la tenitura dei linguaggi e ne esplora le potenzialità.

«Per questo uno spazio come il Teatro Studio Melato è parso il luogo adatto per realizzare la nostra Trilogia della città di K., un progetto condiviso in primis con Federica Fracassi che ci ha voluto coinvolgere in questo suo sogno che è diventato anche il mio e di Chiara Lagani e degli attori in scena: Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti, Lorenzo Gleijeses. A questi si affianca la partecipazione, in video, di Fausto Cabra, Anna Coppola, Alfonso De Vreese, Giovanni Franzoni, Marta Malvestiti, Mauro Milone, Renato Sarti; in voce, di Chandra Candiani, Renzo Martinelli, Woody Neri. Mi sembra giusto partire da qui, da questa voglia – comune – di farci guidare dal linguaggio, dalle parole di Kristòf e da una storia che trascende il tempo e lo spazio», spiega il regista Luigi De Angelis in una pausa delle repliche dello spettacolo. E De Angelis si concede a una riflessione sulla messinscena in replica fino al 21 dicembre in un luogo speciale: «Hanno riallestito per me il camerino al quarto piano che fu di Giorgio Strehler, un onore e una grande emozione. È questo un luogo in cui posso studiare, lavorare, pensare a come va, sera dopo sera, lo spettacolo, è uno spazio che riverbera teatro e la magia del teatro, quello del Faust di Goethe, una delle grandi imprese strehleriane».

Dalle sue parole nella realizzazione della Trilogia della città di K. si avverte la sensazione dell’irripetibilità, di un punto di svolta o di passaggio per Fanny & Alexander, compagnia che delle incursioni letterarie e teatrali ha fatto un suo tratto distintivo.
«Ed è così. Lo spettacolo è una macchina tecnologica complessa in cui gli attori in scena convivono con fantasmi in video, con schermi che delineano lo spazio. Tutto è pensato per questo spazio e tutto è stato possibile grazie alla capacità unica del Piccolo Teatro di Milano di essere luogo di creatività, un mondo dove i sogni diventano realtà, grazie non solo all’intuizione e al pensiero creativo di attori e registi, ma anche a uno staff tecnico di grande qualità e straordinaria preparazione. Faccio solo un esempio. Prima di iniziare a lavorare ho saputo che la squadra che avrebbe operato con me e Chiara Lagani aveva letto la trilogia, era già dentro alla produzione ancora prima di iniziare. L’esito di questo lavoro è frutto di un staff creativo e tecnico e di una cura che ho ritrovato solo nei grandi teatri europei e, molto spesso, in occasione di produzioni liriche».

E tornando alla materia, al punto di partenza della messinscena non si può non osservare come la Trilogia della città di K. sia una di quelle opere che per alcuni risuonano come disvelamento di verità inaudite o sono motivo di messa in discussione di sé. È accaduto a Federica Fracassi che vede nel libro di Kristòf una piacevole ossessione. Cosa ha spinto Fanny & Alexander ad accogliere la proposta di Fracassi?
«Alla base di questa avventura, un poco folle ma di grande soddisfazione, c’è un aspetto personale che è determinante per capire il perché la proposta di Federica Fracassi sia subito risuonata in me e in Chiara Lagani. Chiara e io abbiamo iniziato a lavorare insieme quando avevamo sedici anni, a Ravenna. Ho conosciuto Chiara grazie a sua madre, Loretta Masotti, che era la mia insegnante di storia e filosofia al liceo classico. Alla fine degli anni Novanta, fu lei a regalarmi Trilogia della città di K., un libro in quel momento importantissimo, scioccante, e fu lei a farmi conoscere Chiara. Ci sono dei fili che si riannodano, in questa proposta di Federica, e l’idea di poter fare qualcosa insieme è stata un regalo grandissimo».

Venendo allo spettacolo l’impressione è che La Trilogia di K non sia solo uno spettacolo, ma è un’esperienza immersiva che risucchia lo spettatore, senza mai dargli una certezza. Al tempo stesso sembra potente e chiara la maturità del vostro agire, viene in mente il lavoro su Alice, ma anche gli spettacoli dedicati al Mago di Oz. In un certo qual modo storia e lingua s’intrecciano in molti dei vostri lavori. E qui tutto accade in maniera amplificata e intensa.
«C’è un aspetto narrativo, legato al romanzo e un altro aspetto linguistico, legato alla lingua in cui Kristòf ha scritto il romanzo: il francese, non la sua lingua materna, ma la lingua dell’esilio, della separazione dalla sua città natale. E dopotutto di questo si parla nel romanzo. Della fuga dalla città natale dei due gemelli Lucas e Claus con la madre, del loro affidamento alla nonna matrigna nel Grande Quaderno che li allena al dolore e ne cancella i sogni infantili, per poi passare alla seconda parte La prova in cui si assiste ad un apparente ritrovarsi o riannodarsi della vicenda, una vicenda scritta in terza persona. La storia si chiude – se così si può dire –  con La terza menzogna che ribalta gli scenari e infondendo il dubbio sulla veridicità delle altre due parti (la prima e la seconda menzogna?). In tutto questo la storia prende corpo, come non mai, dalla lingua, dal suo ritmo, in uno scenario che è uno scenario di guerra con al centro un’infanzia violata e negata o meglio allenata a resistere a tutto, al dolore, ma anche alle emozioni e ai sogni. La Trilogia della città di K. è un libro duro, che non lascia molte speranze…».

Lei e Chiara Lagani amate confrontarvi con i testi narrativi, basti pensare a Sylvie e Bruno di Lewiss Carroll, Il meraviglioso mago di Oz di Frank Baum, ma anche alla trilogia dell’Amica geniale della Ferrante, per non dimenticare Se questo è Levi. Insomma un terreno non sconosciuto per la sua regia e per la scrittura di Lagani.
«Nel primo atto è Federica Fracassi che nei panni di Ágotha Kristóf dà corpo e voce alla storia e lo fa con una lingua quasi telegrafica, con un accento straniero. Si parte da una consapevolezza che usare le parole ha un suo peso specifico e come dicono gli stessi gemelli/Kristóf i verbi che parlano dei sentimenti non possono essere usati a caso. Federica Fracassi è al tempo stesso la scrittrice e uno dei gemelli, la troviamo alla sua scrivania, luogo delle epifanie del racconto che prende corpo e voce davanti agli spettatori. Il racconto è epifanico grazie all’apparire dinamico di 21 schermi che trasformano lo spazio ed evocano i personaggi che le si disegnano dentro nell’atto stesso della scrittura. È come se entrassimo nella sua mente. La seconda parte vede come protagonista Lucas che fa ritorno a casa e da tutti è considerato “lo scemo” del villaggio, un ritorno che lo porta a confrontarsi con Mathias, frutto della relazione del padre con Jasmine. Mathias è un bambino prigioniero del suo corpo ed è lì che ci guarda in una grande statua sul modello di quelle realizzate dallo scultore Ron Mueck. È un enorme bambino di due metri e passa che incombe su tutto e tutti. Il terzo atto, quella Terza menzogna, ribalta la prospettiva e diventa evidente come alla fin fine la scrittura per Ágotha Kristóf sia un modo per riconnettersi con i luoghi e i tempi dell’infanzia. Tutto questo ha trovato nella riscrittura di Chiara Lagani un atto di assoluto rispetto nei confronti del romanzo e del pensiero linguistico che lo rende unico e interrogante».

In tutto questo le parole e il racconto hanno una loro potenza visionaria e linguistica che conferma Fanny & Alexander come una compagnia che non si limita a fare spettacoli, ma a dare immagini, spazio e tempo al pensiero.
«Sono partito dalla soggettiva del lettore che, affrontando un libro come questo, si trova davanti a una serie di porte: può varcarne una per rientrare da un’altra, attraversando in lungo e in largo il romanzo. Quando Federica ci ha parlato del progetto, mi sono immediatamente formato un’immagine che era quella dell’allestimento pensato da Lina Bo Bardi per il MASP, il Museo d’Arte di San Paolo del Brasile: l’architetta dispose le opere della collezione non secondo la modalità abitualmente seguita dai musei. Nel suo progetto, i dipinti di epoche diverse coesistono nello stesso spazio, sospesi, come se volassero nel vuoto, non se ne vedono i titoli, ma è il visitatore che, a seconda della propria affettività, seguendo un impulso emotivo, è attratto da un’opera o da un’altra».

C’è una sorta di coesistenza temporale e spaziale che non appartiene alla nostra cultura?
«Il tempo lineare – sostiene Bo Bardi – è un’invenzione dell’Occidente. Il tempo non è lineare, è un meraviglioso groviglio dove, in qualsiasi momento, possiamo scegliere punti e inventare soluzioni, senza inizio e senza fine». Questa visione mi ha riportato alla sensazione provata leggendo i tre libri della Kristóf e abbiamo voluto tradurla nello spettacolo che abbiamo costruito, un groviglio meraviglioso per il metodo di recitazione utilizzato, in cui gli attori sembrano governati da fili e per i video sospesi nel vuoto, grandi icone affidate alle mani dei tecnici, anche loro parte dell’enorme matassa che insieme cerchiamo di governare».

Un meccanismo che necessita di uno spazio ad hoc, per questo considera la Trilogia della città di K. irripetibile?
«Se l’irripetibilità sta nel dna del teatro, in questo caso lo è a maggior ragione perché lo spettacolo e la macchina scenica che abbiamo costruito insieme ai tecnici del Piccolo Teatro ha nel Teatro Studio Melato il suo luogo deputato e diversamente non potrebbe essere. Più che in altre sale, qui ogni spettatore ha la possibilità di creare una propria personale visione, generando una molteplicità e una complessità di ipotesi che corrisponde sia all’idea labirintica alla base del romanzo, sia a quello che ciascuno di noi è. Sempre la madre di Chiara, la mia insegnante, ci portò a vedere il Faust di Goethe, allestito da Strehler in questa sala, con le scene di Svoboda: fu un evento di svolta, nella mia vita, perché mi suggerì la possibilità di una messa in scena complessa, dinamica, che coinvolgesse tutta l’architettura del teatro. Nel teatro accanto, vidi poi Lolita di Nabokov, diretto da Ronconi, un’altra regia che utilizzava una prospettiva quasi cinematografica: ragionare su un progetto che onorasse queste memorie visive è stato molto stimolante».

In che senso questi riferimenti entrano nell’invenzione della Trilogia della città di K?
«Si tratta di lavori non solo complessi, ambiziosi, tecnicamente impegnativi, ma anche di occasioni in cui il racconto e la riflessione sul linguaggio coesistono e il teatro si dimostra uno straordinario luogo di pensiero in cui lo spettatore è coautore di ciò che accade in scena. Alla base dello spettacolo è, infatti, l’idea della soggettiva dello sguardo: il primo atto contiene la soggettiva di Ágota, i suoi pensieri, che si materializzano in una dimensione non prospettica, continuamente rompendo la frontalità della visione, in cui possono coesistere più immagini interiori, frantumate, come in una tavola atlantica, o su un grande quaderno. Nel secondo atto, l’occhio e l’orecchio sono quelli di Lucas: ora guardiamo e ascoltiamo attraverso i suoi sensi; nel terzo atto, che è il momento del disvelamento della verità, il labirinto è esplicitato e ricordo, tempo presente, sogno, realtà si intrecciano, coesistono, lasciando forse intuire, tra le pieghe del gomitolo, una possibile verità. L’autrice, attraverso questa tecnica di soggettiva dello sguardo, compie un atto d’amore verso il lettore che noi vorremmo trasferire allo spettatore».

Attori in carne e ossa, attori in video i codici linguistici si sommano e si intrecciano nel suo teatro, la struttura del racconto viene decostruita, accade in molti vostri lavori, e non è un caso che le opere letterarie che lei e Lagani frequentate abbiano una forte componente metalinguistica e metanarrativa, in cui ciò che viene raccontato non nasconde di aver significati e piani di lettura molteplici. Non da ultimo a fornirne una riprova sembra essere l’utilizzo della tecnica dell’eterodirezione, dispositivo di scrittura live e di performance d’attore per cui l’interprete va in scena senza aver imparato a memoria né la parte né i gesti da eseguire. Quale valore assegna alla Trilogia della città di K. nella storia di Fanny & Alexander?
«Credo che la forza di questo progetto sia nel non avere avuto paura di lasciar parlare liberamente l’inconscio, per cui si è trattato per me di un lavoro molto intimo, estremamente personale, in cui ho potuto trovare riverberi interiori e allo stesso tempo corale, in cui ho potuto esprimere al meglio quello che sentivo nel profondo, in maniera istintiva, fluida, porosa, in dialogo con le mie compagne di viaggio. Ringrazio la cura, generosità, dedizione con cui i cinque meravigliosi attori che sono in scena si stanno facendo attraversare da questa storia incredibile, esplorandone i meandri ogni sera (per 23 recite!) e allo stesso tempo il numeroso cast che ha frequentato per quasi un mese il set delle riprese allestito al Piccolo Teatro. Nell’articolarsi di un labirinto come quello di Trilogia della città di K., l’utilizzo di una tecnica come l’eterodirezione è di fondamentale aiuto per governare quanto avviene sulla scena: se, oltre alla complessità dei gesti e dei movimenti, gli attori avessero anche dovuto imparare a memoria un testo simile, la preparazione dello spettacolo avrebbe richiesto almeno tre mesi di prova. Oltre a questo, il dispositivo sottolinea come tutto avvenga nell’hic et nunc, lasciandoci tutti, interpreti e pubblico, sempre connessi a un tempo presente in cui tutto è sincronizzato e allo stesso tempo connettendoci ai fili di un tempo passato, a un’entità remota che è l’essenza della materia viva e creativa della scrittrice. L’eterodirezione è il perno della regia e della drammaturgia, tutto si appoggia su questo strano processo che crea e mantiene un fluido energetico costante».

E alla fine ci si ritrova catapultati in un mondo altro, in una sorta di opera totale che non lascia via d’uscita e che sollecita il cuore e il cervello al tempo stesso.
«Spero che il pubblico possa abbandonarsi a un vero viaggio delle emozioni e allo stesso tempo portarsi a casa delle domande.»

••••••

La luce nella Trilogia della città di K. in scena al Teatro Studio Melato di Milano: intervista a Luigi De Angelis, di Cristina Tirinzoni | Luce Web, 16 dicembre 2023

Una fiaba nera. Nerissima. In un luogo e tempo dai confini labili, assediati della guerra. Un labirinto narrativo che ruota intorno alla vicenda di due fratelli gemelli, Lucas e Klaus, dalla loro infanzia crudele con la nonna strega fino all’età adulta della separazione e poi a un misterioso ritrovarsi. Una narrazione che sa abilmente mescolare presente e passato, verità e menzogna, sovrapponendo l’immaginato, il sognato e il vissuto, presenze e fantasmi, storie dentro le storie, facendo perdere il senso dell’orientamento allo spettatore. Klaus e Lucas sono veramente due gemelli o le due facce di una stessa persona? Forse tutto quel che abbiamo visto in scena era solo quanto immaginato (e scritto) in un romanzo di Lucas che ha cambiato nome una volta fuggito all’estero? Un groviglio di domande. Lasciando la porta aperta sull’interpretazione, “Non si può spiegare tutto, non fa bene. Sull’esilio, sulla morte, sul dolore non c’è molto da dire. Sono fatti. Tutto qui”, dice Federica Fracassi, l’attrice che interpreta il ruolo della scrittrice, quando rientra in scena, per chiudere la storia, congedando i suoi personaggi.

È andata in scena in prima assoluta al Teatro Studio Mariangela Melato del Piccolo Teatro di Milano (dove resterà in replica fino al 21 dicembre) la versione teatrale di la Trilogia della città di K., tratta dal celebre romanzo omonimo della scrittrice ungherese Ágota Kristóf. Un progetto dell’attrice  Federica Fracassi e della compagnia Fanny & Alexander (Chiara Lagani, autrice dell’adattamento teatrale e Luigi De Angelis che cura regia, scene, luci e video). In scena, oltre a Federica Fracassi, si muovono altri quattro attori, ognuno interpretando più personaggi: Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti, Lorenzo Gleijeses. Bravissimi (un plauso a tutto il cast).

Un elemento distintivo dello spettacolo è sicuramente l’illuminazione: la capacità di creare con forme di luce, nell’essenzialità della messa in scena, in uno spazio quasi del tutto vuoto eppure pieno di così tante storie, lo spazio architettonico ed emozionale per ogni scena. Un apparato luci imponente: 34 cambi luminosi, 14 proiettori Svoboda, sagomatori, 27 schermi video. Alla consolle computerizzata  delle luci (sincronizzate con la traccia audio) Manuel Frenda, capo elettricista del Piccolo Teatro, sound design Mirto Baliani ed Emanuele Wiltsch Barberio. Abbiamo approfondito il discorso con Luigi De Angelis che ne cura la regia e le luci. Nato a Bruxelles nel 1974, De Angelis ha sempre posto il tema della luce e del suo utilizzo come strumento centrale del suo lavoro, nei contesti di un’attività artistica articolata e sicuramente eclettica sul piano dei linguaggi. È regista, scenografo, filmmaker, light e sound designer. Nel 1992 ha fondato a Ravenna, con Chiara Lagani, Fanny & Alexander, uno dei gruppi teatrali più radicali della sperimentazione italiana.

Perché la scelta della Trilogia?

Nasce da una sorta di ossessione che io e Chiara, insieme a Federica, coviamo da tempo. Sono moltissimi gli aspetti che rendono questo romanzo terribilmente bello e affascinante, a partire dalla prosa per nulla facile della scrittrice. L’argomento drammaturgico è in partenza un materiale vulcanico in cui realtà e finzione si trasmutano senza posa l’una nell’altra, rispecchiandosi in maniera liquida e inafferrabile. E può ancora parlare al tempo presente in maniera urticante. Cosa è vero cosa è falso? Non si sa più a quale menzogna o realtà credere.

Come nasce il progetto?

Fin da subito, discutendo con Federica che ci ha proposto inizialmente l’idea, mi è tornato in mente l’allestimento pensato dall’architetto brasiliano Lina Bo Bardi per il Museo d’Arte di San Paolo del Brasile dove le opere d’arte sono disposte non seguendo un ordine cronologico o monografico, ma attraverso un’unica stanza in cui sono incastonate in vetri appesi a un basamento di marmo e sembrano galleggiare, fluttuare nell’aria. Così ho voluto fare anche per Trilogia: creare una molteplicità di sguardi. Ho pensato di fare lo spettacolo proprio qui, al Teatro Studio Melato – anche se mi auguro di portare la Trilogia in altri teatri -, perfetto per la struttura labirintica del testo. La sua pianta circolare rompe la tradizionale frontalità attore-spettatore, consentendo una dialettica continua di distanza e vicinanza con gli spettatori. Un vortice degli sguardi e delle traiettorie che permette al pubblico di sentirsi partecipe di un travaglio di interpretazione e non soltanto spettatore.

Quanto è importante l’uso delle luci?

il teatro che maggiormente mi interessa, mi prende, è il teatro che ha la capacità di esplorare nuovi linguaggi. La luce è una componente importantissima, viaggia dunque sullo stesso binario della regia. Non riesco mai a comprendere il limite di demarcazione tra scenografia e lighting design, questa è per me una barriera che non esiste. La luce non può essere banalizzata a semplice mezzo per abbellire la parte scenografica e per illuminare bene gli attori. Anzi, per me non è poi così importante che l’attore sia illuminato bene, secondi i canoni dei manuali. A volte voglio che sia l’attore ad andare verso la luce che crea lo spazio. La luce non è al servizio dell’illustrazione dello spettacolo, ma dell’”espressione”, affinché la drammaturgia del testo parli in qualche modo in maniera subliminale allo spettatore. L’immateriale della luce riesce a esprimere quel non detto che il pubblico in qualche modo può recepire, trasformare, ributtare in avanti.

E come le ha concepite per questo spettacolo?

A inizio spettacolo, è in scena la stessa Ágota Kristóf (interpretata dall’attrice Federica Fracassi, con una impressionante mimesi fisica) seduta a una scrivania, intenta a scrivere il suo romanzo. Come se fosse nel suo stesso studio di casa. Volevo una luce che proteggesse la sua intimità avvolgendola in modo morbido come il guscio di una mandorla. Ho usato una serie di sagomatori con ottiche molto strette (5 o 10 gradi) che sembrano dei bazooka. Posizionati anche a distanza di dieci metri, permettono di concentrare la focale su un punto anche molto piccolo, dettagli come i piedi. Nella scena dell’amplesso violento di Clara con Klaus, il volto di Clara è invece disegnato totalmente nel bianco ghiacciato, quasi fosse una creatura spettrale, mentre tutto intorno è avvolto in una tinta rosso-violacea. Nel secondo capitolo, la luce ha una funzione potrei dire “architettonica”. La città di K è narrata emotivamente o geometricamente da rettangoli disegnati grazie a sagomatori perpendicolari, con l’aggiunta di due lampade a LED che vengono fatte calare dall’alto e la cui distanza dal pavimento può variare a seconda delle situazioni, concentrando o allargando il fascio colorato. La loro funzione, così come i cambia-colori dall’alto, è quella di far vibrare le situazioni tramite un colore che ha una funzione emotiva, mai illustrativa. L’elemento immateriale della luce plasma lo spazio, creandone l’ossatura architettonica della città, in una sospensione psichica determinata dal colore. Una terza parte che culmina nel duello verbale tra i due gemelli dentro il loro castello di narrazioni. Si rompe la linearità di tempi, con la sincronicità anche delle scene, sovrapposte e velocizzate.
Sovrastano dall’alto i celeberrimi proiettori svoboda con quei fasci di luce molto potenti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Queste luci le ho usate per illuminare la passerella centrale e per illuminare la statua che raffigura il piccolo Mathias, accovacciato, che emerge da una botola, come una creatura del sottosuolo (una statua gigantesca, iperrealista, creata da Nicola Fagnani, ndr). Ma anche per avvolgere la protagonista nel primo atto in una luce che la protegga. Ma le ho volute subito, senza sapere ancora come le avrei usate. Come omaggio a Josep Svoboda, architetto, scenografo, sperimentatore geniale. Attraverso il laboratorio della “Lanterna Magika” metteva a punto una serie d’invenzioni illuminotecniche, creando scenari drammatici usando solo la luce che per lui costituisce un elemento imprescindibile delle scenografie, tanto che non accettava che qualcuno altro si occupasse per lui dell’illuminazione di una sua opera. Queste luci portano il suo nome perché le ha ideate proprio lui, in collaborazione con gli specialisti di ADB. Creano sipari di luce, morbida, avvolgente, calda e uniforme, senza una direzione apparente. Di Svoboda avevo visto nel 1989 una spettacolo leggendario, quel Faust frammenti di Giorgio Strehler. Avevo 15 anni e quella messa in scena mi ha segnato tantissimo per tutta la vita. Ho un ricordo molto netto, molto preciso. Sospesa sull’alto soffitto del Teatro Studio (allora si chiamava così), a sovrastare la scena, una gigantesca spirale di seta bianca, trecentocinquanta metri di seta di tre metri di larghezza, invenzione di Josef Svoboda, illuminata da tenui luci, tesa a illustrare metaforicamente il cielo, il cosmo, l’eternità.

Una strip led di luce divide in due il pavimento. Con quale intento? 

Può simboleggiare tante cose: il tema della frontiera che viene costantemente evocato dai fratelli che vogliono oltrepassarla. Anche Kristóf ha dovuto attraversare la frontiera quando dall’Ungheria, invasa dall’armata rossa, è andata esule in Svizzera con marito e figlia nel 1956. Ho voluto dare alla luce la valenza simbolica di questa condizione, ma simboleggia anche il doppio dei fratelli gemelli, il taglio, una lama che a un certo punti separa, divide, Lucas e Claus. Persino un rivolo di sangue, quando la luce diventa rossa.

La Trilogia della città di K. è un labirinto che avvicina e allontana di continuo storie e personaggi. Come interviene la trasposizione teatrale per affiancare questa complessità? 

L’unico modo per onorare questa complessità labirintica era lavorare su una messa in scena il più dinamica possibile. Dall’alto pendono anche grandi schermi, come dei parallelepipedi, abitati da una miriade di personaggi, icone video. Si muovono come spettri che fanno apparire ricordi e flashback,  luoghi, dettagli, i gemelli stessi bambini, la nonna, il perverso curato del paese, la ragazza menomata e abusata, l’ufficiale omosessuale. Schermi che a un certo punto, quando fantasia e realtà si confondono, diventano nient’altro che monocromi di luce.

••••••

Intreccio e visione, di Graziano Graziani | Il Tascabile, 25 febbraio 2024

Il rapporto tra letteratura e teatro è ricco di frutti meravigliosi e di inciampi. L’anno scorso, quando il premio Nobel è stato assegnato a uno scrittore noto soprattutto per i suoi testi teatrali come Jon Fosse, qualcuno ha storto il naso su entrambi i fronti. Da un lato la diffidenza per una scrittura “monca”, che trova il suo vero completamento in scena, come quella teatrale. Dall’altro il sospetto, per i teatranti, di una riduzione del teatro al testo, della drammaturgia a una branca della letteratura (o della poesia), come fu in epoche passate. Eppure, proprio perché mondi diversi accomunati dalla parola e dalla visione, pur evocate in modi differenti, teatro e letteratura sono stati vicendevoli campi di ispirazione l’una per l’altra. E infatti molti spettacoli che hanno fatto la storia del nostro teatro di regia, ma anche di quello di ricerca, sono nati da opere letterarie, non tanto con l’obiettivo di ridurre scenicamente una storia raccontata sulla pagina, quanto con l’aspirazione di creare “mondi teatrali” a partire da “mondi letterari”.

È quanto avvenuto con due dei lavori più interessanti di questa stagione: la Trilogia della città di K. firmata da Fanny&Alexander e Federica Fracassi; e La ferocia messo in scena da Vico Quarto Mazzini. Entrambi spettacoli di grande impatto, ma diversissimi per estetica e concezione del teatro, accomunati però da un’idea “sorgiva” del testo letterario per la scena – secondo quella lezione che fu soprattutto di Ronconi, senza per questo “pagare pegno” a un maestro del teatro così connotato come lui – che sono riusciti nell’intento non semplice di creare una sintesi di intreccio e di visione in grado di evocare mondi profondamente “autonomi” sulla scena, senza proporre cioè opere derivative, che vivono solo dell’eco dei romanzi che portano a teatro.

Partiamo dai Fanny&Alexander, che non sono nuovi alla dimensione letteraria, avendo lavorato su testi di Nabokov, Ferrante, Baum, per altro spesso – come anche qui – interrogando l’infanzia e la giovinezza (suggestione che già emerge nella scelta bergmaniana del nome della compagnia). Con questo nuovo lavoro arrivano al classico di Agota Kristof grazie alla collaborazione con Federica Fracassi – ideatrice dello spettacolo assieme alla compagnia ravennate – che incarna sulla scena la scrittrice ungherese grazie a una grande intensità recitativa giocata sul mimetismo sì, ma fuori dai canoni naturalistici, che include un accento straniero dell’est volto a ricordarci la condizione di “esule della lingua” di Kristof, che usò il francese come idioma letterario – un idioma in cui si considerava una “analfabeta” – e rigettò quella del mondo da cui fuggiva.

La scenografia che accompagna lo spettacolo è di quelle che sorprendono e che sono destinate a restare nel tempo, all’interno del deposito dell’immaginario teatrale condiviso. Una “selva” di schermi che cala nel suggestivo spazio del teatro studio “Melato” del Piccolo di Milano, riempiendolo con frammenti allo stesso tempo disordinati (nel contenuto) e geometrici (nella disposizione nello spazio). Elementi che rimandano alla storia dei gemelli Klaus e Lucas, affidati a causa della guerra ad una nonna arcigna, sradicati dal materno e dal paterno, che decidono di importi una disciplina ferrea di fortificazione, brutale e senza fronzoli come la lingua in cui viene raccontata, risposta uguale e contraria alla barbarie in cui è immersa la loro infanzia.

La trilogia della città di K. è un libro centrale della letteratura di fine secolo scorso e ha una lingua così compatta (forse la “risposta” più dolorosa al sentirsi esule della sua autrice) che è difficile immaginare una riduzione teatrale. Ma il progetto di Federica Fracassi e Fanny&Alexander riesce a centrare l’obiettivo insistendo su due punti nodali del libro che sono anche, allo stesso tempo, interrogativi fortissimi per chi frequenta la scena e le sue dinamiche: il linguaggio come strumento di falsificazione, in prima battuta; il tema del doppio, che non è solo reminiscenza artaudiana (per altro quanto mai azzeccata nella temperie di questa storia) ma, più precisamente, esigenza dello sguardo altrui per poter definire sé stessi, per statuire la propria esistenza.

L’esule, sottraendosi alla propria lingua e al discorso sul mondo che fa la propria cultura, ha due scelte davanti a sé: aderire a un contesto altro, fino a perdervisi dentro; o ricercare il confronto con un’identità frantumata, distante, uno specchio non più in grado di rifletterci. Lo spettacolo mette in scena esattamente questa frammentazione, riuscendo nel compito non semplice di evocare in scena la lingua affilata del romanzo di Kristof, che di per sé è il motore della tensione che serpeggia per i tre libri, sempre sul punto di deflagrare senza farlo mai, come se la pagina stessa non fosse altro che un fascio di nervi in tensione. Questa evocazione avviene grazie all’adattamento, ovviamente, ma a ben guardare è soprattutto incarnata nei corpi di attori altrettanto affilati nella recitazione come Federica Francassi e Alessandro Berti – interpreti dei ruoli centrali – e Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Lorenzo Glejesis. È grazie a loro che il mondo livido di Kristof prende forma in scena, attraversando una foresta di immagini e voci, impreziosita dalle tante partecipazioni (come quella di Chandra Livia Candiani, Renato Sarti, Renzo Martinelli e tanti altri ancora).