SYLVIE E BRUNO
Liberamente tratto da Sylvie e Bruno di Lewis Carrol tradotto da Chiara Lagani per Einaudi editore
Finalista Premi UBU 2021 Migliore nuovo testo italiano o scrittura drammaturgica
ideazione Chiara Lagani e Luigi De Angelis | drammaturgia Chiara Lagani | regia, scene e luci Luigi De Angelis |
con Andrea Argentieri, Marco Cavalcoli, Chiara Lagani, Roberto Magnani, Elisa Pol | musiche e sound design Emanuele Wiltsch Barberio | costumi Chiara Lagani | cura del suono e supervisione tecnica Vincenzo Scorza | organizzazione Marco Molduzzi, Maria Donnoli, Martina Barison | comunicazione e promozione Maria Donnoli, Francesca Volpato | immagine Igor Siwanowicz | una produzione Ravenna Festival, E Production/Fanny & Alexander, in collaborazione con Ravenna Teatro | ringraziamenti Anita Baliani, Paul Behnam, Brando Carella, Vittoria Casadio Lombini, Guido Farina, Anna Frantini, Leo Molduzzi, Rodolfo Sacchettini | La Canzone del Giardiniere è cantata da Emanuele Wiltsch Barberio | foto Enrico Fedrigoli
In occasione dell’uscita, per Einaudi, del terzo romanzo di Lewis Carroll, Sylvie e Bruno nella nuova traduzione di Chiara Lagani (drammaturga di Fanny & Alexander) la compagnia immagina uno spettacolo tratto da questa affascinante trama. Il libro racconta due storie in parallelo: una contrastata vicenda d’amore, e una storia «magica» di cui Sylvie, una bambina, e il minuscolo, sgrammaticato Bruno, suo fratello, sono i protagonisti.
Sylvie e Bruno, che ispirò James Joyce nella costruzione del suo famosissimo romanzo Finnegans Wake, opera attraverso le categorie visionarie del sogno, una dimensione rapinosa che ci porta al di fuori dalla percezione ordinaria della realtà, perfino diremmo dai nostri involucri materiali concreti, concedendoci esperienze immaginifiche e vertiginose che riflettono al contempo problematiche nodali dell’inconscio singolo e collettivo.
Immaginatevi di essere terribilmente stanchi e che il sonno stia per sorprendervi e trascinarvi al fondo di un sogno. Il punto di partenza di questo spettacolo è proprio quello stato parzialmente vigile e al contempo di semi-abbandono in cui il corpo si fa improvvisamente pesante, la mente si solleva e quasi possiamo vederci dall’alto, salvo repentini sussulti delle membra che, se non ci svegliano, segnalano proprio un profondo inevitabile trapasso ad un mondo “notturno”, fatto di immagini e suoni volatili eppur consistenti. Siamo allora nel mondo dei sogni, un mondo dotato di sue regole parallele che in qualche modo riorganizzano e trasformano le immagini diurne con quelle del nostro inconscio.
Sulla scena, gli attori sono in certo senso le radici sensibili di questo processo, che attraversando molti ruoli, permettono al pubblico di restare attaccato alla dimensione “concreta” della rappresentazione, fatta di pochissimi elementi visivi, poiché l’azione è immersa in uno spazio inizialmente “neutrale”, che a poco a poco si va caratterizzando nel riempirsi di voci e di suoni che ricreano in modo iperrealistico una serie di luoghi che, nella logica surreale del sogno, si materializzano, come ologrammi sonori o puri fantasmi, dando vita alle due storie intrecciate.
Un esile «io», quello di un testimone-narratore, passa e trapassa dall’uno all’altro mondo (e, a staffetta, dall’uno all’altro attore) – dal sogno alla realtà, mentre altri personaggi hanno una sorta di “doppia cittadinanza” nelle due dimensioni, e infine i magici Sylvie e Bruno possono prendere plausibile figura umana e mescolarsi al mondo grigio e disonestamente virtuoso degli adulti.
I due mondi, sogno e realtà, hanno incidenti e modi differenti, hanno una logica diversa e questa logica è affidata in primo luogo all’incantevole Bruno e in minor grado a due erratiche e confinarie figure di Professori, impegnati in scoperte scientifiche molto carrolliane, nonché in una sorta di filosofica, strampalata forma di “resistenza”. Nel mondo magico, infatti, è appena avvenuto un violento colpo di Stato, operazioni di aggiotaggio fatato, mentre nel mondo reale, al culmine della storia, infuria una terribile misteriosa febbre, simile alla pandemia di questi nostri giorni.
Dunque da un lato abbiamo un mondo al collasso in cui all’improvviso irrompe la forza della bellezza e dell’immaginazione; dall’altro un mondo piagato da una terribile, metaforica malattia, che però sopravvive, in nome della potenza dell’amore e dell’arte.
TOUR
16-19 giugno 2021, Ravenna, Ravenna Festival
17-19 novembre 2021, Ravenna, Fèsta – Stagione dei Teatri (Ravenna Teatro)
23-24 marzo 2022, Bologna, Arena del Sole
13 luglio 2022, Milano, Da vicino nessuno è normale
29 novembre 2022, Lugano, LAC
21-26 marzo 2023, Roma, Teatro India
20 ottobre 2023, Potenza, Città delle 100 Scale Festival – Il Piccolo Teatro
RASSEGNA STAMPA
VALENTINA VALENTINI, FATA MORGANA WEB
MASSIMO MARINO, DOPPIOZERO
GIANNI MANZELLA, IL MANIFESTO
MICHELE PASCARELLA, GAGARINE MAGAZINE
RENZO FRANCABANDERA, PANEACQUACULTURE
FRANCESCA GIULIANI, L’INCERTEZZA CREATIVA
LUDOVICA CAMPIONE, IL PICKWICK
MADDALENA GIOVANNELLI, IL SOLE 24 ORE
Invertire l’ordine delle cose, di Valentina Valentini | Fata Morgana web, 20 giugno 2021
Il rapporto fra letteratura e teatro, trascorsi gli anni della conflittualità in cui è stato necessario affermare l’autonomia dello spettacolo rispetto alla dominanza del testo, nel Nuovo Millennio si pone in termini di parità delle diverse materie espressive: spazio, attore, suono, luce, testo verbale, possibili dispositivi costruttivi dello spettacolo. In Sylvie e Bruno l’autorialità di Chiara Lagani si dispiega in più funzioni: ha tradotto il romanzo di Carroll, è una delle due attrici in scena, ha curato il passaggio dalla pagina allo spazio scenico insieme a Luigi De Angelis (regia, luci) e al gruppo compatto dei performer formato, oltre che da Lagani e Cavalcoli, da Andrea Argentieri, Roberto Magnani, Elisa Pol. Inoltre, l’utilizzo di romanzi come fonte letteraria per lo spettacolo è una pratica consolidata per Fanny & Alexander. Nella loro teatrografia infatti troviamo scrittori come Nabokov, Ferrante, Levi, Foster Wallace, Baum. Affiancare al lavoro di dramaturg quello di traduttrice del testo su cui si è costruito lo spettacolo manifesta una sua organicità, in quanto il processo di traduzione da una lingua a un’altra per Chiara Lagani non è dissimile dall’allestire uno spettacolo, richiedendo entrambe le attività un mettersi in ascolto della voce dell’autore/autrice, tracciare i collegamenti fra le parti delle storie, visualizzare ambienti e figure.
Tale relazione si fa più stretta con uno scrittore come Carroll perché il suo procedimento di scrittura passa per il racconto orale, nel senso che lui stesso recitava di fronte a gruppi di bambini le storie che inventava e solo dopo passava a fissarle sulla pagina. Questo metodo è simile a quello di chi scrive testi teatrali che trovano la loro genesi con gli attori nello spazio scenico. Scrive Lagani: «Il suo è un reale laboratorio di scrittura, costellato da vere e proprie “prove teatrali” durante le quali il reverendo Dodgson si lancia, nei salotti delle case e nelle scuole, in spericolate performance vocali, dando virtuosisticamente voce ai vari personaggi (soprattutto allo sgrammaticato Bruno) con grande diletto del suo giovane pubblico» (Lagani 2021, pp.V-XXXV). Il lavoro di dramaturg di Lagani passa dunque attraverso il suo lavoro di traduzione del testo ed entrambi poggiano sull’oralità, nel senso che, grazie alla sua pratica teatrale, la scrittura letteraria assume una dimensione plastica e contemporaneamente la scrittura scenica, innervata profondamente dal piacere del testo, si installa come scrittura vocale, dunque la parola scritta è ricondotta alla sua radice di pneuma. La scrittura vocale fisicizza la voce attoriale nel tentativo di riagganciare la parola alle sue radici corporee e pulsionali.
Quale funzione svolge il romanzo Sylvie e Bruno nella composizione dello spettacolo? L’operazione è complessa: escludendo di procedere nell’operazione improba della comparazione fra testo e spettacolo, ci chiediamoci cosa ritroviamo nello spettacolo dei mondi di Carroll, in cui – come scrive Lagani nella prefazione al romanzo – reale(la società vittoriana di fine Ottocento) e simbolico slittano l’uno nell’altro come succede alle identità dei personaggi, agli oggetti e ai luoghi. Proviamo a rintracciare come nello spettacolo questi scivolamenti prendono forma.
Il romanzo racconta due storie in parallelo: una contrastata vicenda d’amore e una storia «magica» di cui Sylvie, una bambina, e l’infans Bruno, suo fratello, sono i protagonisti. Questi si relazionano con altre figure: l’alter ego adulto di Bruno, Arthur Forester e quella di Sylvie, Lady Muriel Orme, che ha un fidanzato, Eric Lindon. Fra il mondo della favola dove dimorano fate e bambini, professori e governatori e il mondo reale con giardini, salotti e rito del tè, si inerpica il narratore, che cerca un raccordo fra questi balzi e sbalzi di tempo e spazio.
Lo spazio scenico disegnato dallo spettacolo si dilata in lunghezza e in larghezza, brilla per nitore, tirato a lucido dalle luci (un cerchio rituale è disegnato a terra), attraversato in tracciati geometrici dai tre attori e dalle due attrici con i loro abiti colorati (fucsia, celeste, rosso) che utilizzano come unici oggetti delle sedie/panche su cui si dispongono frontalmente agli spettatori, in uno spazio animato da voci e suoni che provengono da fonti diverse (fuori campo, dal vivo, eterodirette). I continui passaggi fra azione, descrizione, racconto sono sostenuti dal dispositivo del remote acting, un elemento drammaturgico propriamente sperimentato, teorizzato e anche codificato – dopo tanti spettacoli – della pratica teatrale e dell’estetica di Fanny & Alexander. È questo “essere detto nel dire” che fa sentire le vibrazioni e le intonazioni del testo di Carroll, respirando nello spettacolo, nella composizione ariosa e musicale, nel suo procedere per duetti, assoli, quartetti, quasi un “recitar cantando”.
I movimenti delle due attrici e dei tre attori nello spazio nitido allestito in uno dei capannoni dell’Almagià a Ravenna si accordano con le stratificazioni della storia che nello spettacolo è sia narrata da voci fuori campo che drammatizzata, descritta in terza persona (“Lei è l’eroina”), sia dialogata che commentata (“Tutto cambia in continuazione, qui”). Anche il ruolo di testimone-narratore non è fisso, ma trapassa, “a staffetta”, all’altro attore, come dal sogno alla realtà (“Adesso ti racconto una storia”) e gli spettatori sono trasportati in una piazza dove tanta gente infuriata si è radunata per protestare. Poi l’azione si trasferisce su un treno dove i passeggeri conversano, qualcuno ha paura delle gallerie e il governatore parla di rivoluzione. Seguendo il registro della favola compaiono elefanti, gli uomini si trasformano in porcospini (il cattivo Uggug), appaiono anche un cantante, un giardino e un giardiniere che apre la porta del muro di cinta. Nell’oscillazione fra i due mondi non si è mai sicuri se si vede realmente o se si vede in sogno, se i mendicanti sono due o uno solo. Si lanciano domande: “Cosa accade al tempo sprecato?”. E ritornano risposte: “Non torna indietro”, “ Il tempo è uscito dai cardini”. Come si potrebbero immaginare gli esiti di queste storie? Viene lanciata una richiesta: “Qualcuno ci aiuti a concludere questa storia”.
Potremmo sostenere la tesi: la realtà non è meno inafferrabile del sogno. Come nel mondo magico è avvenuto un colpo di Stato, nel mondo reale «al culmine della storia, infuria una terribile misteriosa febbre, simile alla pandemia di questi nostri giorni». Il romanzo e lo spettacolo fanno dell’infanzia una risorsa rigenerante per il mondo adulto, nel senso che la relazione adulto-bambino rientra nella dinamica di mondi che slittano fra favola e realtà, umano e animale, malvagio e buono. La lingua sgrammaticata di Bruno è il linguaggio deragliato del Finnegan’s Wake di Joyce, salta i nessi logici, causali e temporali, gira al contrario, prende un treno per non partire. La folla che protesta inverte le sue rivendicazioni: “Più tasse! Meno pane!”. Marco Cavalcoli smozzica le frasi, ingarbuglia le parole, compone un ammasso di suoni consonantici impronunciabili. Con il suo manipolare il linguaggio, ribaltarne il senso, capovolgere il dritto in rovescio, Carroll-Lagani, il romanzo e lo spettacolo, mescola e mette in subbuglio l’ordine delle cose, come fanno i bambini, dalla cui prospettiva gli adulti dovrebbero posizionarsi.
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Mario Draghi nel regno delle fate, di Massimo Marino| Doppiozero, 25 giugno 2021
Siete pronti a entrare tra gli incantesimi? Un suono molto basso, un pizzicato, un accordo, un violino, poi un flauto sottile. Sospensione. Tre attori e due attrici prendono possesso con larghi gesti, misteriosi, di uno spazio bianco, lungo e stretto, circondato da oggetti che sembrano strani leggii. Questi si illuminano di cangianti luci nette, blu, verdi, gialle, rosse, come occhi quadrati. Gesti ieratici, sospesi; sospensione della gestualità quotidiana. Gli attori si schierano di fronte al pubblico. Si rimpallano le “regole per riuscire a vedere una fata”: “deve essere un pomeriggio caldissimo… troppo caldo per fare qualsiasi altra cosa… devi avere un po’ di sonno, ma non tanto da non riuscire a tenere gli occhi aperti… e ti devi sentire, come dire?… incantato… eerie dicono gli inglesi… ma soprattutto, l’ultima regola è: i grilli non devono cantare… (Si sente il suono di bosco. Uccellini, ruscelli, fronde… Ci sono anche dei grilli) Niente grilli, ho detto!” (Cessano i grilli.)
Benvenuti nel mondo di Sylvie & Bruno, l’ultimo romanzo del reverendo Lewis Caroll, libro vertiginoso pubblicato nel 1889, diversi anni dopo Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, ora ritradotto per Einaudi da Chiara Lagani, sacerdotessa ridente e alquanto patafisica del mondo fantastico (sua è la traduzione dei Libri di Oz di Baum, sempre per Einaudi). Lo ha trasportato sulla scena per Ravenna Festival con la sua compagnia teatrale, Fanny & Alexander, vascello di naviganti devoti al regno di Phantasia e Surrealtà.
Arrivano presto le voci registrate dei due protagonisti bambini, Sylvie e Bruno, lei ragazzina giudiziosa, lui piccolo sgrammaticato curioso Pinocchietto, che vede sempre nudo l’imperatore. Abitano in quella Terra di Fuori dove siamo stati trasportati dalla magia iniziale degli attori. Ma essi veri incantatori non sarebbero – non sarebbero veri sciamani – se si limitassero a trasferirci lontano e ci lasciassero in quel mondo perfetto ma alquanto ansiogeno, come tutti quelli dove il desiderio è così puro da non farci mai toccare gli oggetti desiderati, in preda a un sogno che ci sposta continuamente in un altro desiderio. E invece veri maghi sono, perché continuamente da quel reame incantato, un palazzo circondato dal bosco delle fate, ci fanno saltare altrove. Finiamo in un vagone ferroviario come in un poliziesco di Agatha Christie (che nasce un anno dopo, nel 1890); ci precipitano in una grottesca congiura di palazzo (di nuovo Terra di Fuori), con un principino dal nome simile a un borborigmo o a un rincanagliamento della voce, Uggug. Suo padre è un Sotto-Governatore che ambisce a indossare i panni di Père Ubu (la prima versione dei Polacchi di Alfred Jarry è per coincidenza del 1888-1889), con la moglie che come la merdrosa Mère Ubu aspira a trasformarsi in una Lady Macbeth da Grand-Guignol, mentre le voci del popolo salgono come brusio o frastuono con slogan come “più pane, meno tasse” o anche “più tasse, meno pane”… Poi torniamo in treno, in un corteggiamento molto vittoriano, quindi sulla banchina della stazione, poi in una tenuta di campagna, insomma nella Realtà, ogni tanto aperta, frammentata, fatta esplodere dalle apparizioni di Sylvie & Bruno guastatori.
Irrompono, ora, anche orsi e vichinghi, che sembrano quelli spinti da Trump a invadere il Campidoglio di Washington, mescolati a sentori, profumi, colori di fate, poi ritorniamo nella tenuta, con un fidanzato militare impettito che arriva e fa naufragare i desideri di un altro dei protagonisti, innamorato di Lady Muriel, che diventa spesso Sylvia… Il sogno riparte, magari dalle parole di un professore, o di un narratore, o dall’apparizione di un mendicante, o da qualcuno che promette di rimettere indietro le lancette dell’orologio perché il tempo non esiste, o si può magicamente cambiare, o è relativo, psichico, interiore, e Proust è ancora adolescente e Einstein presenterà la teoria della relatività ristretta una quindicina di anni dopo la pubblicazione di questo romanzo.
Insomma, Sylvie & Bruno, che con le sue invenzioni linguistiche ha ispirato nientemeno che il Finnegan’s Wake di Joyce, continuamente fa slittare la realtà nel sogno e il sogno nella realtà (L’interpretazione dei sogni di Freud è del 1899), con la consapevolezza che la forza motrice delle metamorfosi è la narrazione, capace di creare attraverso le acrobazie della lingua mondi, spazi, tempi, di instaurare quel perfetto reame del desiderio che ci muove in continuazione con il dispositivo della mancanza, una mancanza che in realtà non desidereremmo mai colmare.
Alla fine del romanzo Einaudi, Chiara Lagani individua 45 situazioni di transizione, propiziate da “ponti” netti, meccanismi di passaggio da un piano all’altro. Ma avverte che molti di più sono gli slittamenti, a volte contenuti in poche parole o gesti. E così disegna la mappa della drammaturgia, che poi i bravissimi, perfetti attori dello spettacolo fanno diventare territorio incantato, pieno di scosse elettriche che ci riportano continuamente al Mondo.
Sono la stessa Chiara Lagani, leggera e densa; Marco Cavalcoli, tornato alla compagnia e capace, come sempre, di farsi attraversare da personaggi come voci, come campionario di gesti, come frammenti di altrove; Andrea Argentieri, che è stato un perfetto clone di Primo Levi in un precedente spettacolo della Compagnia; Elisa Pol, elettrica, in “prestito” da Nerval Teatro; un accattivante Roberto Magnani, anche lui in prestito, dal Teatro delle Albe. Sono sostenuti da un tappeto sonoro continuamente cangiante, magicamente favolistico, di Emanuele Wiltsch Barberio, con la regia del suono di Marco Oliverio. La regia, le scene e le sorprendenti luci, capaci di creare altri salti, altri ponti, psichedelici, con quei fari piatti che spenti sembrano leggii, e ci dicono chiamarsi “Lupo”, sono di Luigi De Angelis. Lui concerta le azioni come un movimento continuo, nello spazio inizialmente neutro, un balletto vertiginoso che trasporta da una parte all’altra, da un piano a quell’altro, evocando non solo un regno di favola e una storia d’amore irrigidita negli schemi ottocenteschi, ma riportandoci anche al nostro mondo quando sovrappone Mario Draghi al Sotto-Governatore intento a progettarsi (in modo un po’ imbranato) come grande capo assoluto di un Paese confuso.
La favola acquista sapori davvero vicini quando all’inizio, una delle voci che spiegano come vedere le fate, precisa: “Adesso, facciamo una prova. In tutti questi mesi a casa, vi sarà capitato ogni tanto di immaginarvi dei luoghi, no? Voglio dire dei luoghi diversi da quello in cui eravate… Ad esempio, un bosco”. Ma non si appiattisce mai nella descrizione: riparte subito il meccanismo della metamorfosi, della contaminazione dei piani, del lapsus psichico, nel testo sapientemente ricavato da Chiara Lagani dal romanzo.
Come in un videogioco si salta da un livello all’altro. Solo che il livello precedente non è mai esaurito: ci si viene riproiettati continuamente. Così gli attori non assumono mai una figura di personaggio totalmente su di sé: una è ora Sylvie, poi Muriel, per lo più con passaggi velocissimi. In questo modo si può praticamente, con cinque interpreti, dare vita a una folla cangiante di personaggi. Ma questo sarebbe solo un espediente pratico, sinceramente insoddisfacente per una compagnia che ha teorizzato e praticato la recitazione come “eterodirezione” dell’attore dall’esterno. Vuol dire che voce, corpo, atteggiamenti, azioni del personaggio vengono indossati dall’attore sulla base di ordini esterni, come in una specie di trance iperrealistica o fantastica indotta attraverso comandi e testi trasmessi per mezzo di auricolari dal regista, dalla drammaturga o da un programma del computer, rispecchiamento della situazione di spossessamento che viviamo continuamente, enfatizzazione tecnologica del processo di trasferimento nella finzione teatrale.
Qui gli auricolari non si vedono e sembrerebbe, tanto vertiginoso è il salto tra i mondi e il trascorrere dei personaggi, che non ci sia eterodirezione. Parrebbe essere il testo, con i suoi scivolamenti, a eterodirigere. E invece De Angelis ci chiarisce che tutti i movimenti e le parole sono ordinate da comandi inviati dal computer, facendoci apparire la sarabanda dello spettacolo ancora più ammirevole, un balletto meccanico, un’alienazione nella fantasia, uno sguardo divertito e spietato alle derive linguistiche e comportamentali odierne, con un fondamento lontano e anticipatore nell’ottocento.
Fanny & Alexander con Sylvie & Bruno non fornisce soltanto uno spettacolo godibile, uno specchio in cui guardarci continuamente intinti di sogno, di desiderio, di mancanze e di tentativi per vivere nelle inospitalità del mondo reale. Ci dice anche che possiamo continuamente mutare, diventare fluidi come l’acqua; che possiamo danzare sospesi tra i flutti come recita, più o meno, un verso della poesia dedicatoria che leggiamo nella prima pagina del romanzo.
Ed è anche una rivelazione di quello che è, che può essere, il teatro, l’arte, quando rinuncia a essere intrattenimento o predica e prova a diventare attraversamento di stati, reagente psichico, sfruttando le possibilità di nomadismo, di invenzione, di resa al mondo e di critica alla resa. Diventa un viaggio irto di difficoltà ma affascinante in possibilità sopite, un’astronave verso l’infinito, il finito, il lontano, il vicino, e oltre. Una sonda spazio-temporale interiore con le pareti costituite da un bosco, con il suono di un ruscello, con apparizioni di fate e capotreni, di babau politici, professori e custodi, di orologi dalle lancette manovrabili, con un assordante frinire di grilli che non ci fanno vedere le fate, e momenti di delicato silenzio che le fanno apparire, per riadagiarle subito nel mondo parallelo, sottostante.
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Fanny & Alexander, viaggio nel paese delle meraviglie, di Gianni Manzella | il manifesto, 26 giugno 2021
A teatro. Nell’ambito di Ravenna Festival presentato il nuovo spettacolo dal titolo «Sylvie e Bruno»
Che bello ritornare all’interno di un teatro, si diceva, ma lo è altrettanto ritrovare spazi molto amati come le stanze dalle pareti nere del Comandini, a Cesena, che riaprono sotto il segno dell’enigmatica, inquietante performance visiva e sonora di Romeo Castellucci sul potere totalitario della parola, si intitola infatti Il terzo Reich. E chi conosce un poco il lavoro dell’artista non fatica a ritrovarvi il filo che dal lontano Amleto attraversa lo sconvolgente Genesi di qualche decennio fa. O le ottocentesche Artificerie Almagià, a Ravenna, perfetto esempio di archeologia industriale recuperata alla cultura, dove Fanny & Alexander – nell’ambito del cartellone 2021 del Ravenna Festival – hanno presentato il loro onirico Sylvie e Bruno.
E VERREBBE VOGLIA di dimenticare per un momento, se fosse possibile, la desolante vicenda della nomina del nuovo direttore di Emilia Romagna Teatro e la sua ancor più sconfortante conclusione, e i corvi neri che pure già si addensano sul Teatro di Roma. Lo spettacolo che Chiara Lagani e Luigi De Angelis hanno tratto con molta libertà dall’ultimo romanzo di Lewis Carroll, lei drammaturga e interprete, lui regista (ma a Chiara Lagani è dovuta anche la nuova traduzione del romanzo appena pubblicata, ne ha scritto Paola Colaiacomo su Alias) sembra prendere il via dal medesimo pomeriggio caldissimo in cui inizia la discesa di Alice nella sua Wonderland. Anche qui del resto c’è di mezzo una bambina, con un fratellino, come recita il titolo Sylvie e Bruno, e un paese delle meraviglie che può adombrare tanto l’Inghilterra vittoriana del reverendo Dodgson quanto un tempo a noi assai più vicino. Dove si parla di un assalto al Campidoglio guidato da un finto vichingo con le corna in testa e di una crisi economica in cui non è il momento di prendere soldi dai cittadini ma di darne. Che poi i bambini abbiano una speciale relazione con il teatro, va da sé. Diciamo che sta nel piacere di ascoltare una storia che si sa già come va a finire. Da grandi impareranno che questa storia si chiama vita. «Facciamo che», dice il narratore. Adesso vi racconto una storia. Facciamo che questa piazza è un giardino. E lo spazio nudo dell’antico magazzino dello zolfo si anima senza bisogno di arredi scenici, bastano le luci mutevoli create dai proiettori che stanno tutt’intorno e qualche sedia bianca che, come nei giochi infantili, possono trasformarsi nella carrozza di un treno.
BASTANO i cinque interpreti (oltre a Lagani, sono Marco Cavalcoli, Andrea Argentieri, Roberto Magnani e Elisa Pol) che volentieri cambiano mantelli e soprabiti, appesi a vista fuori dal perimetro della scena, ma non diventano mai personaggi nel senso convenzionale del termine. Creature metamorfiche, piuttosto.
Anche il sovrapporsi dei piani narrativi scolora nel sogno o in quella sua metafora che è il gioco (teatrale). Anche il riluttante narratore, coinvolto nel gioco, ha il suo bel daffare a star dietro alle avventure di una Lady Muriel e i suoi due spasimanti, a congiure di palazzo e rivolte di piazza, a lezioni su quale sia l’ora migliore per vedere le fate. Dove siamo finiti? si chiedono spesso. Se lo chiede anche lo spettatore, felice comunque di esserci.
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Dietro (dentro) il reale. Quattro casi, di Michele Pascarella | Gagarin Magazine, 26 giugno 2021
Esercizi di fantasia si potrebbe forse sottotitolare, in omaggio al Maestro Rodari, il nuovo spettacolo di Fanny & Alexander, visto alle Artificerie Almagià di Ravenna al debutto, all’interno del programma del Ravenna Festival 2021.
Fantasia, qui, è termine da intendersi a metà strada tra la fuga nell’immaginario e la problematizzazione del reale. Punto di partenza (o, meglio, trampolino di lancio per questo ennesimo salto nell’ignoto) è Sylvie e Bruno di Lewis Carrol, autore amato e lungamente attraversato dalla colta Compagnia ravennate.
Il segno / colore iniziale dà il là a tutta la creazione: un profondo blu che rimanda a quello, celeberrimo, di Yves Klein, a suggerire una analoga immersione nel vuoto e in una dimensione onirica e al contempo realistica dell’esperienza umana.
Sylvie e Bruno appare, ai nostri occhi, opera della piena maturità innanzi tutto di Luigi De Angelis (regia, scene, luci).
Un’attitudine scultorea, in sottrazione, mette in relazione significante e straniante i corpi (fisici, sonori, luminosi, materici, verbali), e chiama lo spettatore, grazie a un sapiente montaggio che giustappone materiali scenici minimali, a comporre nella propria mente immagini e immaginari.
Esercizi di fantasia, si diceva: anche nei molti giochi presentati e rappresentati dagli interpreti («facciamo che questo teatro adesso è una piazza»).
Composizione, si diceva: anche alternando narrazione e interpretazione, soliloqui e cori ritmici, entità vocaliche e semantiche, toni colloquiali e recitati intonati, silenzi e fragore di tumulti e scioperi di piazza.
Pochi semplici sgabelli suggeriscono ambienti, le cinque figure in scena (tra cui una straordinaria Elisa Pol, che abbandona certe ridondanti sguaiatezze interpretative di precedenti produzioni per rivelare nuovi, ben più magnetici e precisi, colori) si offrono con dedizione a questo gioco ineffabile, a sua volta dato al nostro sguardo con un misto di fiducia e noncuranza.
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Fanny & Alexander in scena con Sylvie e Bruno, l’ultimo romanzo di Lewis Carroll, di Renzo Francabandera | Paneacquaculture, 5 luglio 2021
Sylvie e Bruno è il terzo e ultimo romanzo – pubblicato in due parti nel 1889 e nel 1893 – di Charles Lutwidge Dodgson (Daresbury, 27 gennaio 1832 – Guildford, 14 gennaio 1898), più noto al pubblico grazie al bizzarro presudonimo letterario, nato dalla deformazione giocosa del suo vero doppio nome: Lutwidge versione inglese di Ludovicus, suggerì a Charles di ribattezzarsi Lewis, mentre l’anglicizzazione di Carolus, il latino per Charles, diede origine a Carroll. Fu moltissime cose in vita sua, oltre che scrittore: matematico, un grande (e fra i primi) fotografi d’arte a metà Ottocento, logico e prete anglicano britannico dell’età vittoriana. Una vita di passioni anche controverse che gli fruttarono pure accuse di pedofilia.
Fatto sta che Lewis Carroll a oggi è sicuramente una delle figure più influenti della letteratura, soprattutto per i due romanzi Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, opere apprezzate da una straordinaria varietà di lettori e scrittori che a lui si sono ispirati. Nel 1856 (a 24 anni) pubblicò Alice con il suo pseudonimo di derivazione classica, e da quel momento in poi Charles Lutwidge Dodgson e Lewis Carroll diventarono quasi due identità con vite parallele e per molti versi indipendenti, un Jeckyll e Hyde che hanno avuto nella “loro” vita capacità di compenetrarsi ma anche di restare indipendenti e sdoppiati.
Sarà forse per questa coesistenza binaria, o anche per il gusto, mostrato fin dagli esordi, per ambientazioni che oggi definiremmo sci-fi (rappresentazioni fantascientifiche di realtà sociali, equiparabili a tante serie TV che popolano i canali specializzati, come la celebre The Black Mirror), sarà perché a fine Ottocento, in piena rivoluzione industriale, l’Inghilterra era una fucina in cui si alimentavano i fermenti politici più vigorosi, e in cui Karl Marx fomentava di persona la nascita e la formazione delle prime forme partitiche di ispirazione comunista e dove morì nel 1883; sarà per ciascuna e tutte queste ragioni che nel 1889 uscì la prima versione del romanzo Sylvie e Bruno, completata in senso letterale quattro anni dopo. Il romanzo è evoluzione, peraltro, di un precedente racconto Bruno’s Revenge, pubblicato nel 1867 su Aunt Judy’s Magazine. Il suo seguito, Sylvie and Bruno Concluded (1893), fu la sua ultima opera per bambini.
L’opera raggiunse una certa popolarità ma, come riporta l’Encyclopedia Britannica «è stata considerata sconcertante e sconclusionata. Contenendo più battute tra i fratelli protagonisti che trama, la contorta vicenda opera su due livelli paralleli, uno realistico e didattico e l’altro onirico e fantastico. Include elementi di fiabe (Sylvie e Bruno sono bambini fatati decisi a fare buone opere e salvare un trono)». Il romanzo abbonda di un certo sentimentalismo moraleggiante e si regge su una serie di episodi di tenore edificante che guardano al bisogno di una riforma sociale.
Siamo a 132 anni dalla seconda e definitiva versione, e ne favorisce la ripubblicazione una traduzione italiana (uscita pochi giorni fa per Einaudi) di Chiara Lagani, una delle anime del sodalizio teatrale Fanny & Alexander, insieme a Luigi De Angelis. I bibliofili appassionati del padre di Alice nel paese delle meraviglie ne avevano potuto apprezzare in Italia (ed. Bordeaux) un’edizione del 1978 con la traduzione di Franco Cordelli (in ripubblicazione).
Dal lavoro di traduzione della Lagani è nata una versione per la scena che ha debuttato a metà giugno nell’ambito di Ravenna Festival, ospitata presso il suggestivo spazio delle Artificerie Almagià, ex-deposito del materiale pirico prossimo alla darsena e ora rifunzionalizzato. Una struttura architettonica ampia che pare quasi una basilica di quelle che a Ravenna sono ricoperte di mosaici in ogni centimetro; questa sorta di chiesa spoglia, invece, illuminata da piccoli dispositivi luminosi e sonori semoventi, è diventata la scenografia prescelta per il debutto del pot-pourri umano frutto della fantasia di Carroll – da Lady Muriel alla Madama, dal fidanzato miscredente al riprovevole Uggug, il truffaldino Vicegovernatore, il Giardiniere con la sua Canzone e moltissimi altri. Personaggi che non fatichiamo a credere fossero prossimi a quelli che si paravano sotto gli occhi dello scrittore nelle sue mille vite, nei mille salotti che frequentava, o anche solo ai mille se stesso che intercettava la mattina allo specchio.
Lo spettacolo permette quindi di ri-conoscere un pezzo di letteratura, e gioca sulla struttura stessa del romanzo, sulla intricata molteplice vicenda, in parte ambientata nel mondo fantastico di Fairyland, in parte nel mondo puritano e moralista dell’epoca vittoriana.
Un assaggio? Il padre di Sylvie e Bruno, e Governatore dell’Ultra-Paese, cede temporaneamente il potere al fratello, che ne approfitta per proclamarsi Imperatore. Il Governatore intanto diviene Re degli Elfi all’insaputa di tutti, tranne che di Sylvie e Bruno, i quali iniziano le loro avventure nel mondo fantastico in cui vive anche il Narratore (presente di persona anche alle vicende dei due bambini nel mondo fantastico e medium per il lettore, per consentire il salto narrativo fra le vicende). Viaggi in treno, spostamenti di spazio e tempo, fumo di sigarette immaginarie a intasare il vagone.
Dentro la vicenda si respirano ovviamente i riferimenti della grande letteratura inglese (anche teatrale), suggestioni fiabesche ma anche i temi dell’intreccio fra sogno e realtà, fra realtà sognata e vissuta, che già erano nei primi romanzi di Carroll, e su cui si fonda l’impostazione registica di De Angelis. Si gioca su un binario in cui i personaggi scivolano fra una vicenda e l’altra senza cambiare i costumi monocromi o giocati sui toni complementari, disegnati per l’occasione dalla Lagani stessa.
Il fatto di non cambiare spazio scenico, di non connotarlo, di non prevedere costumi diversi fra i doppi personaggi che ciascun attore interpreta, in un sistema a trame autoavvolgentisi e raddoppianti, sprofonda presto lo spettatore in un profondo straniamento. È un tema questo sempre indagato dalla compagnia, che ha proprio cercato, nel bypass della funzione cognitiva primaria, un rapporto originale e diverso con l’impressione e la conoscenza dell’atto scenico – non di rado mediata dal ricorso alla tecnologia – con cui gli attori vengono istruiti in scena su cosa fare dalla regia tramite stimoli auricolari. E sospettiamo che qualcosa di simile sia comunque presente anche in questo caso, visto che tutti hanno dispositivi auricolari.
Il gruppo di talentuosi attori (Andrea Argentieri, Marco Cavalcoli, Chiara Lagani, Roberto Magnani, Elisa Pol) vive lo spazio scenico in un perenne movimento, un caos che provvede a cancellare uno spazio poco dopo averlo creato, ad amplificare il trasporto volutamente antinarrativo.
Così alla fine è facile, un po’ come Alice, trovarci in un universo nonsense, simile a quello che conosciamo, con le regole sociali, i ruoli, le paranoie soggettive, le nevrosi, i tic (Carroll era balbuziente), ma in cui si finisce per non comprendere, pur sforzandoci.
Non capire è ovviamente un’iperbole, nel senso che quello che si vuole che si capisca non è la trama, il primo livello, quello che la mente umana è abituata a metabolizzare con pigrizia.
La ricerca è proprio su un gioco che coinvolge il medium teatrale, perchè diventi proiezione di inquietudini e fantasie. Lo stesso spettacolo inizia con gli attori che, con gesti immaginari, delimitano spazi, raccolgono il nulla, lo annusano, aprono e chiudono universi. Insomma giocano al teatro. E solo dopo questo esordio sul rapporto fra teatro e universo fantastico di cui sono artefici gli attori e gli spettatori, le vicende di Carroll prendono corpo, come proiezione di un universo che solo la mente del teatrante può costruire e quella dello spettatore rendere dinamicamente possibile.
L’effetto fruitivo è quello di cui si faceva cenno: un continuo provare ad aggrapparsi alla vicenda, senza mai poterla afferrare, mentre l’identità sdoppiata dei personaggi si moltiplica nella mente di chi guarda e che prova ad afferrare brandelli e a metterli in relazione. L’anti narrativo scenico, una regia diremmo quasi brechtiana nell’approccio profondo, gioca proprio ad impedire ogni immedesimazione, a togliercela di dosso al minimo tentativo che si avvii il processo mentale.
È quindi una indagine sulla confusione, sul nostro rapporto col caos, con l’incomprensibile, con la post-verità, con la forma sociale deflagrata e le sue declinazioni intime. Qualcosa quindi di attualissimo e contemporaneo.
Da spettatori ci si avvicina e ci si allontana dalla rappresentazione con una dinamica ciclica ma non schematica. Ci si appassiona e ci si annoia. Si cerca di capire e si manda al diavolo questa possibilità. Si guardano gli attori creare mondi e distruggerli impietosamente. Si ragiona sul rapporto complesso fra teatro e letteratura, essendo costretti a perderci ma non condannati ad essere perduti.
Un bel bottino per un’ora e mezza di recita.
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Nel mondo “psichedelico” di Lewis Carroll, di Francesca Giuliani | L’incertezza creativa, 22 dicembre 2021
Si entra all’Almagià di Ravenna e si è avvolti da una nebbia misteriosa: in Sylvie e Bruno di Fanny & Alexander palcoscenico e platea condividono lo stesso universo favoloso. In scena si muovono su un rettangolo bianco, entrando e uscendo da esso, Andrea Argentieri, Marco Cavalcoli, Chiara Lagani, Roberto Magnani, Elisa Pol, guidati dalla regia di Luigi De Angelis, immersi nel paesaggio sonoro ideato da Emanuele Wiltsch Barberio. La narrazione si stratifica su due livelli paralleli, uno realistico e uno onirico; entrambi non si incontrano mai se non per collisione di alcune parole che fanno switchare da una storia all’altra o per intrusione dei due bambini nei sogni del narratore che più spesso si addormenta. La struttura narrativa mescola la fiaba – personaggi che si trasformano in animali, il bosco e le fate, il destino che serpeggia – al romanzo vittoriano dove lo sviluppo del dramma era più spesso spezzato dai commenti del narratore: da una parte Sylvie e Bruno in un mondo fantastico; dall’altra Lady Muriel amata da un dottore e dal suo giovane amico ma fidanzata a un militare.
Ci sono due aspetti che colpiscono fin da subito in questa riscrittura scenica dell’omonimo testo di Lewis Carrol, recentemente tradotto da Chiara Lagani per Einaudi: il primo è lo spazio vuoto che amplifica il potere che ha il teatro di creare infiniti mondi attraverso il solo utilizzo sapiente dei suoi meccanismi drammaturgici di base: gli attori in primis, i suoni e le luci; il secondo è la scrittura, e quindi la letteratura, che orchestra parole che sanno scardinare le porte delle stanze del meraviglioso.
[La struttura su piani narrativi paralleli è possibile perché il teatro di F&A si porta dentro (rimedia) non solo il formato letterario ma quello cinematografico del montaggio e degli scarti temporali].
Questa è anche la forza del teatro di Fanny & Alexander che apre squarci profondi nei testi letterari che prende a cuore e, portandoli in scena, ricarica di nuova linfa vitale i temi e i personaggi connettendoli al presente, facendoli risuonare con l’oggi: così è stato per Storia di un’amicizia (2017-‘19), tratto dalla tetralogia di Elena Ferrante, L’amica Geniale, così è stato con l’ampio progetto Il Mago di Oz (2007-‘09) ispirato al romanzo di L. Frank Baum, solo per citarne due.
Con Sylvie e Bruno c’è ancora qualcosa in più: quest’opera sta su un margine poroso che fa sì che molti dei lavori della compagnia dialoghino fra loro, giungendo fin anche all’origine della compagnia stessa, come già era stato fatto in una loro prima regia lirica, quella de Il Flauto Magico: lì come qui due bambini giocano a creare mondi immaginari e lo fanno sapendo di essere guardati. E questo è chiaro fin da subito: gli attori si siedono su degli sgabelli bianchi – unici oggetti di scena – in fila davanti alla platea e si rivolgono direttamente allo spettatore; spesso si fermeranno a guardarci e più spesso romperanno il quadro della rappresentazione descrivendo e commentandosi addosso le azioni. E così facendo ci conducono dentro l’origine stessa della parola teatro, quel luogo da cui si guarda e dal quale si è guardati; non a caso quelle due aperture che illuminano dal fondo la scena appaiono come due occhi che si aprono e si chiudono cambiando, attraverso il solo utilizzo del colore – tema questo già presente nel favoloso mondo di Oz – anche la percezione visiva ed emotiva di quanto si sta osservando.
Un saltello che dice l’atto del cadere nel pozzo di Alice per giungere al di là segna l’inizio del viaggio che si compie tra il reale e l’immaginario. E proprio come accade nei giochi dei bambini il corpo di ciascun attore attraversa più personaggi e si fa medium; così facendo ripercorrono lo stesso percorso interpretativo che fanno Lila/Fiorenza Menni ed Elena/Chiara Lagani a partire dallo spettacolo Da parte loro nessuna domanda imbarazzante: lì come qui l’eterodirezione e la ripetizione cumulativa di alcuni gesti fanno cadere nella vertigine del meraviglioso, lì dove i mondi si sovrappongono, realtà e fantasia convivono, e i personaggi di generi letterari differenti si incontrano. E in Sylvie e Bruno Ubu incontra Lady Macbeth, Sylvie e Bruno il Bianconiglio, e così via fino a collassare nel mondo di oggi dove nascosti tra il dire dei personaggi appare a un tratto anche Mario Draghi.
Se, come ci dicono i neuro scienziati, quella Rem è la fase più psichedelica del sogno, lì dove i mondi collidono, la fantasia e la realtà si sovrappongono e i colori esplodono, è proprio in questo anfratto del sonno che ci conducono gli attori sovrapponendo i molteplici piani del racconto scenico: il qui e ora del loro essere in scena, la narrazione che conduce al racconto, i mondi che si sovrappongono per farci infine tornare alla realtà: da una parte il Mondo del Fuori, un popolo in rivolta che cade sotto una dittatura, riecheggiando il recente assalto a Capitol Hill, dall’altra un mondo da romanzo ottocentesco che viene colpito dal diffondersi di una febbre mortale. I cortocircuiti tra le opere e i personaggi, la realtà del racconto e la fantasia si incastrano in determinate parole o brandelli di frasi che si sovrappongono invertendo l’ordine del racconto come se ci fosse qualcuno che gioca ad accendere e spegnere un interruttore, incastrando sempre di più lo spettatore nel vortice concentrico della scena. Per poi lasciarlo lì, a un passo dal vuoto, a scandagliare la matassa.
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Facciamo finta che questa stanza era un teatro, di Ludovica Campione | Il Pickwick.it, 28 marzo 2022
L’ultimo attore lascia la scena. Si spengono le luci. Si possono sentire i pensieri degli spettatori in sala: ‘Ma è finito? Posso applaudire?’. La sensazione è quella di essersi svegliati da un sonno profondo in cui non ci si era accorti di essere caduti. È questo che da trent’anni − si sono formati a Ravenna nel 1992 − fanno Luigi De Angelis e Chiara Lagani, aliasFanny & Alexander: abitano quell’interstizio tra sogno e realtà, come fanno i bambini quando giocano a “facciamo finta che io ero la mamma e tu la figlia”, e lì ci trovano il teatro. E ci attirano lo spettatore, senza trucco e senza inganno, con i loro riti sciamanici.
La cornice è ancora una volta un testo letterario; dagli inizi della loro ricerca teatrale, infatti, Fanny & Alexander costruiscono immagini e suggestioni oniriche spesso suggerite, liberamente, dalla grande letteratura: David Foster Wallace, Elena Ferrante, L. Frank Baum, Tommaso Landolfi, Carlo Collodi e Lewis Carroll, dal cui immaginario attinsero per il lavoro che per primo folgorò la scena sperimentale degli anni Novanta, Ponti in core (1996). Ancora a Carroll ritornano con Sylvie e Bruno, terzo e meno fortunato romanzo dello scrittore inglese (che ispirò, però, il famosissimo Finnegans Wake di James Joyce), di recente tradotto per Einaudi proprio da Chiara Lagani, ideatrice della visionaria drammaturgia di questa messinscena − come di tutte le altre produzioni di Fanny & Alexander −, prima tappa del progetto speciale 30F&A!, un percorso lungo un anno tra Bologna e Ravenna per celebrare il trentennale della compagnia.
Come il libro, anche lo spettacolo, diretto da Luigi De Angelis, racconta due storie: una “reale”, una vicenda d’amore tra l’affascinante Lady Muriel e il tormentato dottor Arthur Forester, ambientata in epoca vittoriana, in una città imprecisata decimata da una strana febbre contagiosa (sic!); e una “magica”, che vede protagonisti due piccoli fratelli, Sylvie e Bruno, ennesimi alter ego di Fanny e Alexander, alle prese con una rivoluzione che scuote la Terra di Fuori, di cui il loro padre è Governatore. Ma il confine tra mondo magico e mondo reale, tra sogno e realtà, è così labile da togliere allo spettatore, con velata crudeltà infantile, la certezza di sapere cosa sta guardando e quando lo sta guardando. È come se Lagani e De Angelis dicessero: Ecco, mettiti questi occhi di bambino e gioca con noi. E per giocare serve davvero poco: uno spazio spoglio, qualche faro, di quelli piatti, che sembrano leggii, un paio di cappotti, cinque sgabelli bianchi, cinque attori, e tanta immaginazione.
È buio. Si intravede solo la nuvola di fumo sparato da una macchina per effetti speciali. Si accendono delle luci blu, asettiche, e in processione fanno il loro ingresso uno per volta i cinque attori: Andrea Argentieri, Chiara Lagani, Marco Cavalcoli, Elisa Pol, Roberto Magnani. Indossano vestiti identici, gli uomini un completo con cravatta, le donne un delizioso abitino che lascia scoperta la schiena, solo i colori sono diversi. Si rivolgono subito a noi spettatori, direttamente; ci spiegano come vedere le fate e il gioco è manifesto fin da subito: “In tutti questi mesi a casa, vi sarà capitato ogni tanto di immaginarvi dei luoghi, no? Voglio dire dei luoghi diversi da quello in cui eravate… Ad esempio, un bosco…”. Inizia così la discesa nella tana del bianconiglio: l’ingresso a Terra di Fuori, che poi diventa il vagone di un treno diretto in campagna, che poi diventa il giardino del castello, che poi diventa un picnic al parco. Ci ritroviamo catapultati dapprima in una congiura: il Sottosegretario vuole rovesciare suo fratello e prendere il potere approfittando della rivoluzione cittadina (“Più pane! Meno tasse!”, urla la folla), accompagnato da sua moglie, una starnazzante Lady Macbeth, e dal figlio dall’aspetto maialesco, Uggug (Carroll era balbuziente), che tormenta Sylvie e Bruno e che finirà per trasformarsi in porcospino. Ma ecco che Sylvie diventa Lady Muriel, in viaggio verso casa, dove la aspettano suo padre e Arthur-Bruno, il suo vicino innamorato. Con lei, nel vagone (i cinque sgabelli sono in un attimo i sedili del treno), un campionario di personaggi dai tratti quasi grotteschi tra cui un controllore zelante, un uomo che russa, un altro che fischia insistentemente, una donna infreddolita, un terzo uomo che apre continuamente il finestrino. Basta un battito di ciglia e si torna dall’altra parte, dove il Sottosegretario e sua moglie, travestiti da vichingo e orso (ma noi, ovviamente, possiamo solo immaginare i costumi), cercano il loro figlioletto perduto, mentre Sylvie e Bruno, con l’innocenza dei bambini, chiedono allo strano giardiniere danzante di farli uscire, per sfamare un mendicante.
Per tutta la durata dello spettacolo, gli attori (bravissimi tutti, particolarmente eterea Chiara Lagani) si lasciano attraversare da ogni sorta di strano personaggio, e sono sempre incredibilmente credibili: il patto siglato con lo spettatore ha funzionato. Le luci, concertate magistralmente da Luigi De Angelis, permettono al racconto di prendere vita. I due livelli di narrazione si susseguono in una corsa immaginifica, si rincorrono e alla fine si sovrappongono: saranno proprio Sylvie e Bruno, con le loro voci di bambini, a scegliere e a inventare con le parole il finale della storia tra Muriel e Arthur.
Ne hanno fatta di strada da Ponti in core, questi due enfants terribles ravennati; resta poco di quell’estetica macabra e morbosa da teatrino anatomico dei primi lavori. Eppure sono rimasti fedeli allo stesso discorso iniziato trenta anni fa: il teatro può e deve essere il linguaggio del presente; uno specchio dentro cui guardarci senza, però, che debba necessariamente raccontarci qualcosa su noi stessi. Un gioco dentro cui, se si ha il coraggio di giocare, ci si può riconoscere.
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Realtà e sogno: sul palco c’è Lewis Carroll, di Maddalena Giovannelli | Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2022
La compagnia romagnola Fanny & Alexander – che ha festeggiato da poco i trent’anni dalla fondazione – da sempre sconfina nei territori della narrativa trasformando romanzi in fortunati adattamenti per il palco. Nella teatrografia della compagnia figurano Nabokov e David Foster Wallace (memorabile la maratona di oltre dodici ore su Infinite Jest), ma anche autrici contemporanee come Elena Ferrante o Nadia Terranova (ha appena debuttato a Ravenna la versione teatrale di Addio fantasmi). La fondatrice Chiara Lagani nutre tuttavia un rapporto di elezione con la letteratura favolistica d’autore: nel 2017 ha curato per Einaudi I libri di Oz di Frank Baum, e ora ha dato alle stampe per la stessa casa editrice una nuova traduzione di Sylvie e Bruno di Lewis Carroll, quel romanzo del 1889 che tanto piacque a Joyce, ma da sempre un po’ trascurato da pubblico ed editoria.
Curiosamente, la precedente traduzione italiana si deve al critico Franco Cordelli, penna legata al teatro non meno di Lagani. In realtà, se ci si avventura nella scrittura immaginifica di Carroll, si comprende subito perché il testo si legga bene con gli occhi della scena: c’è un narratore sornione che disegna la cornice, e due piani (il primo realistico e il secondo fantastico) che si intrecciano di continuo, mescolando realtà e finzione come il teatro ama fare. Nel 2021 Sylvie e Bruno è diventato uno spettacolo, con l’adattamento della stessa Lagani (in scena anche come attrice) e la regia nitida di Luigi De Angelis.
L’instabilità percettiva del sogno – che Carroll sembra ben comprendere con sorprendente e millimetrico anticipo rispetto a Freud – diventa un elegante gioco scenico di moltiplicazione dei piani, e sfida lo spettatore a lasciarsi andare proprio come accade quando la testa si fa pesante e le immagini cominciano a rarefarsi. Un’ottima e affiatata squadra di attori fa il resto: gli interpreti elettivi della compagnia (Marco Cavalcoli, Andrea Argentieri) si affiancano Roberto Magnani e Elisa Pol, ben calibrandosi sui toni favolistici e sottilmente inquietanti dell’autore di Alice.
Uno spettacolo che meriterebbe una lunga tournée, per fare discutere di sogni tanti appassionati di teatro e di letteratura, ma che (come molte produzioni di queste stagioni tormentate) ha all’attivo ben poche repliche. La presenza a Milano (lo scorso 13 luglio, data unica) si deve a Olinda e al festival Da vicino nessuno è normale, attento collettore del nuovo che anima da anni gli spazi dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini. Il luogo, ne siamo certi, sarebbe parso ideale a Lewis Carroll.