ROMEO E GIULIETTA – ET ULTRA
di e con Fanny & Alexander| con il contributo e la partecipazione di Sara Masotti, Stefano Tomassini, Davide Savorani, Laura Manzari, Enrico Fedrigoli, Giammarco Volta, gli iscritti al laboratorio di scenografia 1999-2000 di Fanny & Alexander | produzione Fanny & Alexander, La Biennale di Venezia – Settore Teatro
Romeo e Giulietta – et ultra è il punto di arrivo di un lungo attraversamento dell’opera shakespeariana, vista dalla prospettiva del famoso mito dei due amanti votati alla morte. Un primo esperimento in itinere èil doppio lavoro concepito per il progetto Prototipo, composto dagli spettacoli Romeo e Giulietta e Storia infelice di due amanti, che venivano rappresentati contemporaneamente in due spazi attigui per due diversi pubblici.
In Romeo e Giulietta – et ultra la ricerca drammaturgica, traendo spunto dalle riflessioni di Renè Girard, scarta l’approccio romantico caro alla tradizione interpretativa di questo famosissimo mito, per evidenziarne invece gli aspetti mimetici, sacrificali, violentemente drammatici. Si apre così la via ad una costellazione di topoi e nuclei tematici che attraversa l’intero corpus shakespeariano, oltre a Romeo e Giulietta. Il testo risulta tessuto da brani tratti da Giulio Cesare, Il Sogno, Il Mercante di Venezia, La Dodicesima Notte et ultra…
In questa prospettiva ciascun attore incarna una figura stilistica che assomma i ruoli di più personaggi, in particolare Romeo e Giulietta sono indossati dalla stessa figura dell’amante.
La scena, separata dal pubblico da un impalpabile velo nero, è data per sottrazione, tra lampi di luce che fendono il buio, divisa tra la nudità di uno spiazzo vuoto e la liquida luccicanza dello sfondo.
L’ambiente sonoro è altrettanto stratificato, le voci delle figure vengono per lo più da un altrove sonoro disgiunto dai corpi, amplificato, misto al battito e ai sospiri elettronici di una composizione musicale che dà forma fisica immateriale al ritmo della scena.
APPROFONDIMENTI
FOGLIO DI SCENA
Voglio una piazza, larga e retorica, senza nome che tenga la costanza e la bronzea risolutezza di un orizzonte donde parlamentare in estenuanti argomentazioni.
Voglio un imperituro riparo che protegga per sempre il profilo dell’aria dall’intrico d’amore e custodisca la schiva danza dei due sventurati amanti, cui sarà certo negato il tatto, ma non le ambagi del mobile gioco dell’ombra.
Voglio un palazzo, che sia luogo di geometrica luce, e di contro al palazzo io voglio un altro palazzo, identico, solo più alto, puntuto in argento: ad indicare che entrambi i palazzi lotteranno forte, esperti di ferite e di sangue, e non temeranno di far duello con esseri poderosi e iniqui.
Si veda del famoso sarcofago nuziale solo una punta, il lucido piumaggio di ciò che potrebbero essere capelli, animale svelto e inquieto, cespo di fiori, corona regale e barbara: a indicare che quelli che lo abitano non esistono e non possiamo onorarli se non onorando l’aria.
Infine io voglio che al centro siano deposte scheggiate figure, adagiate non senza vezzo sul suolo, figure la cui ambigua grazia sia partecipe dell’uno e dell’altro, le dita miste discorrano ora d’uno ora d’altro messaggio; si supporrà che le immobili dita discorrano per gesti: siano aspramente recise, così che tutta la favola si raccolga nel loro respiro invisibile.
Vi è una storia cortigiana e feroce nei due palazzi, che mescola nella sua mista natura creature diverse e incompatibili. Voglio un luogo che essendo impossibile, indicherà argutamente la qualità insensata e irragionevole degli infelici amanti.
Qui indugeranno, qui moriranno.
Giacché sulla linea di quell’orizzonte impossibile, che mai avevano visto, insensato senza la loro morte, essi s’erano promessi fedele appuntamento
Col contributo e la partecipazione di: Sara Masotti, Stefano Tomassini, Davide Savorani, Laura Manzari, Enrico Fedrigoli, Giammarco Volta, gli iscritti al laboratorio di scenografia 1999-2000 di Fanny & Alexander.
Si ringraziano: Comune di Ravenna, Accademia di Belle Arti di Ravenna, Interzona Teatro, Claudio Spadoni, Vittorio d’Augusta, Paula Noah de Angelis, Francesco Borghesi, Monica Francia, Elena Sartori, Tiziana Fuschini, Franco Fussi, Annamaria Bollettieri.
FIGURE
Questo dramma immortale sembra avere la spudorata pretesa di arroccarsi dietro alla propria bellezza mitologica.
E’ forse il racconto della bella morte di due infelici amanti?
Devi pensare che il sublime vero e bello è ciò che resta per sempre nel gusto di tutti?
Quando la stessa immagine letteraria trova il consenso unanime di persone diverse per professione, vita, gusti, età, condizione culturale, allora questa specie di concorde sentenza pronunciata da giudici diversi, sembra conferire una credibilità salda e incontestabile all’oggetto che viene ammirato.
Eppure quest’opera apparentemente innocua e catartica disegna in sordina ma con tratto deciso la satira del dramma che essa tradizionalmente è.
E’ il racconto della faida, la satira della catarsi, la macabra parodia d’ogni vero ostacolo d’amore.
Questa tragedia è duplice luogo di duplice putredine: avanti è uno spiazzo retorico, aperto e feroce, su cui scandire fastosamente le orazioni e le marce, ma dietro riposa su un niente mobile e liquido, forse palazzo, forse sepolcro, luogo della luccicanza.
La tragedia precipita in sette movimenti quasi impercettibili, condotti da cinque attori e da due alfieri. Per loro natura, i cinque attori hanno rinunciato ad impersonare alcunché, e stringono alleanza con numerose figure stilistiche, ricevendone un vigoroso contraccambio.
attore 1 – figura degli amanti – Romeo e Giulietta
attore 2 – figura del potere, della mediazione e dell’apprendimento – padre, frate, Benvolio
attore3 – figura della vaghezza e della ferocia – principe e Tebaldo
attore 4 – figura della retorica – Mercuzio
attore 5 – figura della consapevolezza adolescente e della crudele superficie – Rosalina, madre, balia, Paride
L’artificio connesso alle figure ha qualcosa di sospetto e genera il dubbio di un inganno, di un’insidia, di un raggiro, specialmente in teatro, quando si parlerà davanti ad un giudice assoluto, ed egli si infurierà, rifiutando di lasciarsi convincere da una qualunque delle orazioni.
Perciò la figura più riuscita sarà quella che non lascerà vedere di essere una figura.
Anche il cumulo delle figure sullo stesso attore riuscirà a commuovere in sommo grado, solo se le due o tre figure, mescolate tra loro, come in società, porteranno un contributo di forza, persuasione e bellezza.
In particolare la figura degli amanti, come è presumibile, innalzerà muri infiniti tra sè e sè, ostacolando il procedere della storia.
Movimenti:
I – L’agone
a – Lotta
1 – Il suono percussivo viene dal grande ventricolo della faida.
2 – Due rossi alfieri salutano l’inizio di tutto.
3 – I cinque attori (atleti?) ritualizzano questo inizio. Quindi marceranno. Quindi lotteranno. Questa lotta è agonistica. Il corpo della lotta espelle un principe che sederà la rivolta e un amante che farà la parte del capretto. Pace e bene! Pace e bene!
b – Apprendimento deuteragonistico
1 – Romeo sulla spiaggia strepita come un cetaceo. E’ ignorante.
2 – Apprendimento per tentativi ed errori. Benvolio inizia il suo tirocinio: stimola e rinforza la reazione dell’amico. Lo schiaffo dell’apprendimento è un’arma pedagogica e agonistica.
3 – Romeo manifesta cambiamenti minimi alla ripetizione. Apprendimento zero. E’ assuefatto alla nevrosi sperimentale.
c – Ars oratoria
1 – Mercuzio rinuncia all’intelligenza altrui. Impiega la retorica come un ipnotizzatore impiegherebbe un’allucinazione. Scavalca con un balzo la figura dell’ossimoro.
2 – La pancia di Mercuzio è gonfia di suoni. Tutto quel fumetto in lui, che paperineggia in gara con le sue flatulenze, è l’agonia dell’agone.
II – Amal’ io l’amo
a – La piatta superficie
1 – L’icona genitorale è l’icona del pesce. l’icona pescificata.
2 – Duplice voce di duplice cenosi assassina.
b – Il blasone
1 – Rosalina e Giulietta sono la doppia ciliegia, divisa in apparenza, ma una in verità. Figura bipartita, come in araldico stemma, figura della simmetria strutturale.
2 – E’ importante che la loro risata sia cristallina e che mantenga questa ambigua simmetria, come di stemma.
3 – Le due antagoniste fraintendono quello che accade all’esterno nell’identica maniera.
4 – Per questa sua anfibia qualità Rosalina potrà dissolversi in balia, in madre e perfino in Paride nel corso del dramma.
III – Simulacro
a – Invenzione dell’immagine
1 – Il respiro affannoso del frate partorisce simulacri. E’ il cesellatore dello pseudonarcisismo degli amanti.
2 – Perché l’amante diventi un idolo, occorre qualcuno che col suo caldo sospiro estragga dallo spirito della faida questa comunione sacrificale tra fronti nemici.
3 – Giulietta desidera ardentemente essere ammirata.
4 – Adorare quest’idolo sarà un gesto sacro, grottesco e ridicolo.
5 – Immagine, imitazione (imago).
b – Venerazione dell’immagine
1 – Il simulacro dell’amante adora il simulacro dell’amante?
2 – Fingerà di non capire la differenza tra copia artistica e originale vivente e sceglierà la forma più teatrale proprio perché è l’unica che comprende.
3 – Il gesto con cui l’amante scopre il proprio volto è solenne, estatico e prolifico.
c – Distruzione dell’immagine
1 – Mercuzio usa l’anamorfosi come gigantesca figura retorica, e come modello d’esistenza.
2 – Potendo contenere ogni forma in sè, si disinteressa del potere della forma, che utilizza solo per la sua mimesi.
3 – Mercuzio è gassoso, è un pallone areostatico. E’ informe, eppure anodino.
IV – Psyche
a – Festa (struttura della psicosi)
1 – Questo luogo spettrale, dove le ipostasi si scontrano, dove emergono i fantasmi e la luce sfiora per caso i corpi, è il luogo dell’indifferenziato, dove una treccia che scorgi potrebbe essere Giulietta, una mano inguantata Romeo, ma le stesse cose potrebbero anche indicare che qui è la madre che incombe, o un padre o un principe.
2 – Questo luogo è stato costruito a poco a poco dalla struttura psicotica, come struttura simmetrica, di doppio, come luogo della psicosi, come miniatura dell’intera vicenda: qui la coscienza dei partecipanti è destrutturata, finché una vittima, uscendo dal gioco, non “ristruttura” la coscienza della folla festeggiante.
3 – La struttura della psicosi o festa non è casuale, anche se caotica. E’ sempre costruita con precisione ossessiva, ed ha una sua mappa geometrica di dinamiche fisse e simmetriche, non trasgredibili.
b – Figura della psicosi – gli amanti
1 – L’amante è l’unico che può resistere all’indifferenziato, perché non riconosce realmente differenze tra sè e l’altro.
2 – Anche il suo tempo è differente.
3 – L’amante individua dei meccanismi operativi attraverso i quali costruire la sua struttura psicotica e poi la struttura della psicosi in cui tutti gli altri festeggiano.
In questo l’amante è metodico e ordinato. Egli costruisce la sua struttura psicotica come racconto mitico che fa a se stesso per sopravvivere nel festeggiamento altrui. Giulietta caccia Romeo e poi Romeo insulta Giulietta, pur essendo la stessa figura. L’attore non reggerà più al loro gioco estenuante.
Mercuzio recita la parte del mediatore in questo falso duello prendendo la parte dell’uno o dell’altra, sostituendosi a entrambi e rischiando la sua stessa vita.
4 – La schizofrenia e la scissione dell’attore in due è solo la lettura mitica che chi vede crede di dare: essa non può essere accettata dall’amante che sa, per esperienza diretta, che il suo rapporto di doppio è reale. Alivello mitico potrà essere approssimativamente tradotta come allucinazione o sdoppiamento.
c – Duello
1 – Tebaldo nel suo campo di battaglia scorge, lontano, il suo mostro.
il falso duello dell’amante con se stesso incarna una violenza reale e irresistibile che solo Tebaldo vuole incarnare.
2 – Tebaldo si innamora delle giunture di Romeo.
3 – Agli occhi del pubblico non ci sarà più nessuna posta reale in gioco, se non quella suggerita dalla conoscenza della storia.
4 – Mercuzio porta a compimento la sostituzione iniziata nella scena precedente: si spaccia per Romeo.
Quest’arguzia mimetica ha un carattere così spiccatamente retorico che né Tebaldo, né gli osservatori più decisi si accorgeranno di nulla. Alcuni parleranno di istrionismo, ignorando ogni altra implicazione.
5 – Mercuzio non muore perché è già morto: la sua onnipresente morte è l’emblema deformato della morte degli amanti.
V – Degree
a – Il degree è un ordine culturale, è una gerarchia. Il luogo dell’indifferenziato attraverso cui ogni oggetto conteso è passato, ha spappolato i confini delle cose.
La gerarchia, coi suoi divieti, assegna ai rivali degli oggetti definiti da desiderare, impedendo lo scontro più feroce.
1 – Alla notizia imprecisa della morte di un qualcuno imprecisato (Tebaldo? Romeo?), e cioè ad una notizia malcerta e spappolata, segue lo spappolamento del linguaggio per Giulietta: la sua glossolalia non è afasia da sgomento, è perdita di confine delle parole, in cui incespica, annega, perde a sua volta contorno. In tutto questo Giulietta sembra una bestiolina, un piccolo volatile, un cardellino.
2 – Il frate tenta una mediazione esterna, con raffinata strategia rituale, estrae il simbolo, la significazione che restituisca confini alle cose e distanza ai desideri; la sua gerarchia partorisce universi simbolici. Il principe invece, di istinto, propone una mediazione interna, dimostrando di non essere estraneo al meccanismo di sovrapposizione e perdita di confini tra le cose.
3 – L’icona genitorale è ora affranta, sfiatata: la sua lucente superficie è appannata, tenta di imporsi, anch’essa indistinta. Giulietta e Paride sono un indistinto sovrapporsi di fiati, di sospiramenti, di spossatezze.
VI – Orrore l’errore!
1 – Il fantasma di Mercuzio è identico al fantasma dell’amante.
2 – La lettera che il frate chiede al fantasma di recapitargli è premeditata e assassina. L’errore è orrore.
3 – Dietro all’invenzione perfetta del frate, la morte artificiale, sta il desiderio irresistibile di lasciarsi ingannare dalla rappresentazione: gli amanti credono ciecamente nella rappresentazione che sono andati vagheggiando per tutta l’opera. Il frate corre il rischio di creare il loro ultimo mito mimetico, e di fallire, ma è solo una variante sottile di quel grande, ormai conosciuto terrore, che Mercuzio sventolando la lettera annuncia da lontano.
VII – Pax
La piccola milizia degli attori ricostituisce lo schieramento. Il degree è in buona salute. Disciplinati, mimetici, tornano da dove sono venuti.
RASSEGNA STAMPA
Domenico Rigotti, Romeo e Giulietta oggi sono solo adolescenti confusi
Rosy Fasiolo, Oltre Romeo e Giulietta
Roberto Canziani, Oltre Romeo e anche oltre Giulietta
Federico Gambini, Romeo, Giulietta e il loro eterno tormento
Ugo Volli, Shakespeare secondo la nuova avanguardia
Titti Danese, Romeo e Giulietta et ultra
Stefania Chinzari, Romeo e Giulietta, tragedia dello sguardo
Franco Cordelli, Ma liberateci dal solito Shakespeare
Franco Quadri, Romeo e Giulietta, un’ombra sulla vita
Gianni Manzella, “Romeo e Giulietta – et ultra”, viaggio nel sogno shakespeariano
Renato Palazzi, F&A, Romeo è Giulietta
Simone Azzoni, Giulietta degli spiriti
Roberto Lamantea, “Romeo e Giulietta” negli abissi dell’amore
Nevio Galeati, Fanny, Alexander e Shakespeare
Chiara Bissi, Viaggio nel classico
Romeo e Giulietta oggi sono solo adolescenti confusi, di Domenico Rigotti / Avvenire / 17 novembre 2000
Una rivisitazione di Shakespeare, del solito Shakespeare? E in particolare, dell’immortale vicenda dei giovani amanti veronesi? Andiamoci cauti con questo Romeo e Giulietta et ultra della compagnia Fanny & Alexander con cui si è inaugurata (con successiva festa giovanile) la lunga, densa stagione del milanese Crt-Teatro dell’Arte, tutta, o quasi, dedicata al “nouveau théâtre”. E’ da chiarire intanto, che il collettivo ravennate è uno dei gruppi di punta dell’ultima generazione del teatro di ricerca italiano. Osannato da taluni (e messo in vetrina anche all’ultima Biennale veneziana del teatro) alla pari di Masque Teatro, Motus e Teatro Clandestino, ai quali tutti la Ubulibri ha appena dedicato un libro ultra celebrativo. E gruppo che, alla pari degli altri citati, tende a infrangere il codice della rappresentazione mediante una fisicità iconica e dirompente che ha i suoi punti di contatto non solo con il mondo delle arti figurative e delle nuove tecnologie ma anche della filosofia contemporanea. In particolare, non più tanto con l’ormai usurato Gilles Deleuze ma con quel René Girard il cui saggio Shakespeare. Il teatro dell’invidia sembra proprio dare il la a questo Romeo e Giulietta – et ultra (dove l’ultra può assumere molti significati; e perché anche s’innestano brandelli di altri testi del Bardo). Il doppio suicidio allora di Romeo e Giulietta inteso non più tanto come un gesto disperato nato dagli ostacoli per realizzare il loro amore ma piuttosto a diventare la scelta di un percorso che precipita verso la sua distruzione. Adolescenti insomma, i due, che faticano come tanti giovani di oggi a entrare nella vita. Suddiviso in “sette movimenti”, lo spettacolo offre momenti ammalianti, ma soffre, come soffrono tanti spettacoli del teatro di ricerca, di carenza drammaturgica. E’ confuso e ripetitivo. E abbonda di quei “cliché” cari ai gruppi sbocciati negli anni 90. Trascurati i contenuti e i messaggi morali, tutto risulta puntato sulla forma che però mette a dura prova occhio e udito. Nel caso presente filtri e un buio costante (l’atmosfera è davvero cimiteriale) ostacolano qui infatti la visione di una scena che appare divisa in due, lo spazio retorico e feroce dove si consuma o si dovrebbe consumare l’azione (ma il “plot” è più che sbriciolato) e quello più arretrato del sepolcro del palazzo regale che è tutto luccicanza. Continuamente poi, faretti manovrati a mano disturbano l’oscurità e il movimento degli interpreti e piccoli specchi ai piedi degli stessi fungono anche da microfoni moltiplicando le presenze e il dire. Un dire spesso beffardo e esagitato, violente escursioni vocali, la cui matrice sembra trovarsi (corsi e ricorsi anche nel teatro) in certi vecchi, lontani spettacoli di Carmelo Bene. E allora, prendere o lasciare. E’ il “nuovo teatro”, quello che dovrebbe frenare il teatro di consumo.
Oltre Romeo e Giulietta, di Rosy Fasiolo / Il Gazzettino / 12 novembre 2000
Shakespeare in the dark: al di là di un velo nero che separa il pubblico dagli attori, si consuma la tragedia degli amanti più conosciuti della letteratura. Avvolti in un buio che non è solo elettrico, ma anche esistenziale, gli attori interpretano il dramma di Romeo e Giulietta suddividendolo in sette movimenti. Ci troviamo davanti ad una operazione di minuziosa e caparbia vivisezione del testo e dalla sua struttura narrativa che approda ad una composizione concettuale e spettacolare del tutto estranea all’opera di partenza. Il gruppo di Ravenna Fanny & Alexander, uno dei più rappresentativi della nuova ricerca teatrale, immagina e costruisce uno spazio duplice, diviso da cancelli di vetro e ferro davanti ai quali accade tutto ciò che rappresenta il pubblico, il sociale: le lotte, le marce, le faide tra famiglie nemiche. Oltre c’è la sofferenza, la disperazione, i desideri, la superficialità, gli errori del nostro io. Non c’è luce che apre al giorno i due spazi, ma solo bagliori crepuscolari, lampi accecanti, fasci luminosi in frenetico movimento che a tratti e solo parzialmente rischiarano i volti dei cinque personaggi interpreti di sé e del loro doppio. Ogni attore infatti, rappresenta non solo un personaggio, ma una figura simbolica identificata secondo una logica di assimilazioni e incarna nello stesso tempo per esempio, entrambi gli amanti, oppure seguendo la linea del potere sta dentro ai panni del frate e del padre. Ad amplificare gli effetti sonori ci sono i microfoni che distorgono le voci in echi ricorrenti, in sussurri e gemiti sepolcrali o in boffonchiate e stridule orazioni di un Mercuzio-Paperino. Le immagini incorniciate dal viso degli attori si muovono sulla scena in una sorta di sacra processione anch’essa deformata dall’ incontro in sovrapposizione con lenti d’ingrandimento. Questo è “Romeo e Giulietta – et ultra”, una deflagrazione strutturale dell’opera teatrale che si proietta verso le arti visive in movimento.
Oltre Romeo e anche oltre Giulietta, di Roberto Canziani / Il Piccolo / 12 novembre 2000
Sotto la sigla di Fanny & Alexander si raccoglie uno dei gruppi più interessanti, e anche più sopravvalutati, di quella generazione teatrale che una generosa formula critica ha definito la “terza ondata” (forse per far credere che il teatro italiano sia un mare formatosi solo qualche decennio fa…).
Ma fin dal ’92, fin da quando erano giovanissimi, neanche ventenni, Fanny & Alexander sono stati bravi a pilotare l’onda che portava spruzzi freschi sulle scene già allora occupate dalla bonaccia di comici spiritosoni e dalla vanità dei marpioni di sempre. Sembrò un miracolo, negli anni ’90, scoprire la delicatezza di questi adolescenti attratti da favole cimiteriali, da passioni da entomologo, e poi intenti a bamboleggiarsi con Pinocchio e la Fata Turchina, mentre attorno a loro Beppe Grillo sbraitava, Paolo Rossi piantava tende da circo, e Gassman scopriva che nel teatro italiano mancava lo zolfo…
Ma crescendo e un po’ ripetendosi, ha finito coll’estenuarsi la loro vena acerba e pudica, mentre il gruppo in allargamento, vede l’originaria coppia trasformata in una formazione variabile, pronta a dimenticare l’eco bergmaniana del nome, per confrontarsi con Shakespeare: quasi un obbligo, o un esame, o una dimostrazione di forza, a cui nessuno dei giovani gruppi vuole mancare.
Così dopo titoli amabili – “Ipotenusa d’amore”, “Ponti in core”, “Sulla turchinità della fata” – ecco Fanny & Alexander pagare il tributo alla propria maturità con “ Romeo e Giulietta – Et ultra” visto a Udine nei giorni scorsi, apertura della stagione di Teatro Contatto.
Forse vogliono far capire, con quell’”ultra” posticcio del titolo, che il loro spettacolo va “oltre” la storia dei due innamorati. In realtà chiedono allo spettatore di sforzarsi “oltre” la naturale inclinazione, per dare un senso a ciò che vede. O crede di vedere. Il buio avvolge infatti la scena di una tragedia solo annnunciata, e rastrellata continuamente da fari, pile a mano, sciabole di luce. Non solo: quelle membra d’attore, appena scorte in un bagliore, o intuite sul velo che chiude la scena, non corrispondono a personaggi, ma a “figure” nelle quali la drammaturgia riassume ruoli diversi: Romeo e Giulietta, per esempio, sono incarnati da un attore solo. Sottratto il corpo, resta la voce, che microfoni e filtri trasformano in radiodramma, dando risalto a urla, cigolii, affanni, ma complicando parecchio le cose, visto che il testo è farcito con brandelli di altri lavori, e tagliato secondo i suggerimenti di René Girard, il nuovo profeta scespiriano che ha sostituito Jan Kott, noto per aver fatto dell’autore inglese “soltanto” un nostro contemporaneo. Con Girard invece si va “oltre”. Ma si rischia anche di andare oltre al pubblico, che attende, a spettacolo finito, qualcuno che gli spieghi ciò che ha visto, o solo sentito. Romeo e Giulietta? O ultra?
Romeo, Giulietta e il loro eterno tormento, di Federico Gambini / Il Messaggero Veneto / 12 novembre 2000
Se alla fine della loro celeberrima vicenda Romeo e Giulietta si fossero ritrovati all’inferno, probabilmente la loro esperienza sarebbe stata quella raccontata o, meglio, tratteggiata, da Fanny & Alexander. Il titolo stesso dello spettacolo, che ha aperto al San Giorgio la diciannovesima edizione di Teatro Contatto, rimanda infatti all’originale shakespeariano, salvo poi specificare subito che vi è un ulteriore passo in avanti proposto dal giovane ma già affermato gruppo romagnolo.
Romeo e Giulietta – et ultra si dedica infatti quasi completamente all’ultra, trovando nell’opera ispiratrice il filo conduttore, la fonte da cui attingere per poi sviluppare il proprio particolare e liberissimo percorso. Un percorso che, com’è naturale in questo genere di operazioni, lascia aperte numerose chiavi di lettura, preoccupandosi forse più di suggerire, di evocare, che non di imporre una sola, univoca e lineare interpretazione.
Così, come accennato, le atmosfere cupe, le musiche ossessive, il riaffiorare dei versi quasi da remoti angoli della mente, può far pensare a un sogno o a un ossessivo ricordo di quello che è stato, della tragedia consumatasi, che perseguiterà per sempre i suoi stessi protagonisti. Una tragedia che non è vissuta sul palco, ma è piuttosto data per presupposta, e che ritorna nelle parole spezzate dei protagonisti, nel loro evidente e invincibile tormento.
Un leggerissimo diaframma separa la scena dalla sala del teatro, imprigionando i protagonisti nel cupo del ricordo. Voci straziate, moltiplicate, distorte da un uso esasperato dei microfoni caratterizzano personaggi che sono piuttosto figure simboliche, quasi stilizzate, degli amanti, del potere, della tracotanza. Luci scarne e fredde vagano sul palco colpendo più che illuminando la scena e talvolta il pubblico stesso, ferendolo.
Alla fine resta però la spiacevole sensazione di non saper dire quanto la messinscena sia un compiuto e riuscito tentativo di originale allestimento e quanto, invece, sia un esercizio di stile quasi fine a se setesso. I riferimenti evidenti a un certo tipo di teatro di ricerca, le altrettanto evidenti citazioni di maestri e delle loro intuizioni (il descritto uso dei microfoni non può non rimandare, per esempio, a Leo De Berardinis) non contribuiscono a chiarire la portata dell’operazione.
Non mancano, sia chiaro, alcune note capaci di stupire, come l’uso delle luci che proiettano e ingigantiscono le ombre dei protagonisti sul leggero telo che funge da diaframma, creando un suggestivo effetto di imprigionamento, o anche il raffinato uso della voce come strumento musicale, più che narrativo. La ripetizione, però, di queste riuscite trovate, toglie loro spontaneità e rafforza l’idea di assistere alla riproposizione pubblica di un lavoro tutto interno al gruppo, quasi che il telo calato sul palco impedisse ogni flusso di comunicazione.
Shakespeare secondo la nuova avanguardia, di Ugo Volli / Grazia / novembre 2000
“Fanny & Alexander”, la compagnia di Ravenna che è un po’ la guida della nuova generazione della ricerca teatrale, ripropone le sue invenzioni affrontando una delle più famose tragedie di Shakespeare, Romeo e Giulietta. Si tratta di una versione ovviamente del tutto anticonvenzionale della storia dei due giovani innamorati. Il gruppo ravennate ha cambiato il titolo in Romeo e Giulietta – et ultra, ha preso in prestito frammenti da altre opere di Shakespeare, per esempio da Troilo e Cressida e da lavori teorici come le opere dell’antropologo francese René Girard, che legge la tragedia in termini di “mimesi competitiva”. Soprattutto la storia d’amore più famosa del mondo è trasposta in un luogo misterioso, scuro e vagamente rilucente, in cui anche le voci dei personaggi si deformano elettronicamente. “Giulietta e Romeo ci affascinava in maniera particolare per essere la morte più esteticamente perfetta della tradizione teatrale, per la massa di riferimenti colti che vi si sono accumulati, anche per quel numero due che vi regna, nella coppia, nelle fazioni in lotta. Noi abbiamo sempre lavorato sul due, sui riti che nascono dal rispecchiamento. Ma ci era difficile trovare la nostra verità in questa materia, fare i conti con gli stereotipi accumulati, capire cosa poteva essere urgente per noi in questo testo”, spiegano i giovani di Fanny & Alexander. “Bisogna partire dal fatto che i due amanti sono così vicini da poter essere confusi o da sembrare una sola persona. Non vi è quasi distinzione di ruoli e di linguaggi fra loro. Poi bisogna riflettere sul fatto che sembrano metterci molto più impegno a morire che ad amarsi. L’amore è il momento della festa, tutto il resto è preparazione al sacrificio. E infine bisogna meravigliarsi di come il loro sacrificio serva a riappacificare la città, come se Montecchi e Capuleti avessero bisogno proprio della morte di due capri espiatori…”. Da non perdere, al Crt di Milano dal 14 al 17 novembre.
Romeo e Giulietta et ultra, di Titti Danese / Sipario / luglio-agosto 2000
Gruppo di punta dell’ultima generazione del teatro di ricerca italiano si nasconde “anonimo” dietro il titolo di un film di Ingmar Bergman. E proprio come in quel film a intrigarli è l’innocenza e la morbosità degli anni adolescenziali, la fiaba e l’infanzia senza fine. Tema che non poteva non condurli fino a Romeo e Giulietta, amanti bambini, simbolo dell’amore tragico e assoluto. Ma l’incontro con Shakespeare passa anche attraverso la lettura del saggio di René Girard che in Shakespeare. Il teatro dell’invidia vede nel doppio suicidio di Romeo e Giulietta la scelta di un percorso che “precipita verso la propria distruzione” e non un gesto disperato per gli ostacoli a realizzare il loro amore.
Dramma in sette movimenti, la messinscena di Fanny & Alexander è una danza di suoni, parole e luce che segnala il passaggio dei corpi (cinque attori-icone e non personaggi) e lascia intravedere a tratti il bianco, il rosso e il nero degli splendidi costumi e i leggii dai bagliori argentei e le gabbia di metallo eleganti e leggere. Una danza che è una festa d’amore, con i giovani amanti abbracciati su un piedistallo regale e poi un crescendo di voci, pianti e lamenti si annuncia la malattia, una infezione che dilaga inarrestabile e crudele, un contagio che si estende e attacca il groviglio di corpi e la morte è un respiro affannoso, una escrescenza scura con i capelli lunghi e biondi di Giulietta, che si spoglia del suo abito nuziale.
Il testo, sapientemente destrutturato è poi ricomposto in un puzzle affascinante e incompiuto. A raccontare le fiabe di una autodistruzione in cui Romeo e Giulietta sono una entità unica, abitata da un oscuro desiderio di morte. E il sipario si chiude sul sarcofago nuziale che si intravede appena in un rapido passaggio di luce mentre il fantasma di Mercuzio esclama: “Orrore, orrore, orrore!”
Romeo e Giulietta, tragedia dello sguardo, di Stefania Chinzari / L’Unità / 5 giugno 2000
E bravi Fanny & Alexander. Catturati come molti altri gruppi del “nuovissimo teatro” dal ciclico fascino del teorema Shakespeare (prima di loro era toccato al Clandestino di “Tempesta” (Melologo) e “Otello”, a libera mente con la premiata “Tempesta (dormiti gallini, dormiti)”, a Egumteatro e l’apprezzato “Gamblet” fino a Scena Verticale e la Dama Bianca, tanto per citarne solo alcuni) non si sono lasciati minimamente intimorire dalla sfida. Hanno allargato il nucleo storico della compagnia alla collaborazione di altri attori e autori e hanno scavato nel dramma universale degli amanti adolescenti e infelici per nutrirli di parole e nuclei di altre coppie shakespeariane o mitiche, nonchè dei saperi di René Girard e Levi Strauss, Manganelli e Baltrusaitis, costruendo attorno al tema portante del doppio, trasmigrato dai loro precedenti lavori, un fitto tessuto di richiami e citazioni.
Un’apertura verso l’esterno – quello degli artisti coinvolti e, naturalmente, quello dei versi e delle teorie metabolizzate nello spettacolo, ma anche quello della costruzione scenografica – che rende questo “Romeo e Giulietta – et ultra”, visto a Roma nell’ambito del Maggio cercando i teatri, una tappa importante nella storia del giovane gruppo ravennate, l’evoluzione verso modalità drammaturgiche più complesse, l’abbandono di certo estenuante autobiografismo.
In sintonia con il percorso estetico sostenuto dagli esordi ad oggi, questo dramma in sette movimenti è però anche, come molto del teatro dell’ultima generazione, un inabissamento, un metadiscorso, una messa a nudo del senso ultimo del fare teatro. Con quel tanto di sgradevolezza, di fatica, di calcolata incomprensione che produce nel pubblico, quasi una provocazione al suo stesso esistere, a dispetto della raffinatezza di scena e suoni, della meticolosità del suo farsi. Giustamente Giuliano Vasilicò, indimenticato protagonista di un’altra stagione della ricerca del nostro teatro, uscendo dal teatro ed elogiando la perfezione del lavoro parlava di teatro sterile. Una sfida allo sguardo provocato e negato, l’esaltazione di un universo sonoro impeccabile e ipnotico, lo smarrimento narrativo di attori diventate figure retoriche che assommano personaggi e cariche.
Non più un attore per ciascun personaggio, ma una distribuzione di ruoli trasversale, dettata dal senso, con Giulietta e Romeo, figura degli amanti, affidati allo stesso interprete, mentre ad esempio l’attore-figura del potere, della mediazione e dell’apprendimento si fa carico del padre, del frate e di Benvolio. Sipari di garze, filtri e buio frappongono e ostacolano la vsione di una scena a sua volta divisa in due, lo spazio retorico e feroce, e quello più arretrato del sepolcro, del palazzo reale, “della luccicanza”. Faretti manovrati a mano disturbano l’oscurità e l’azione, piccoli specchi ai piedi degli attori che fungono anched da microfoni decuplicano le presenze e amplificano il dire, lo strazio del pianto, l’oratoria di escursioni vocali di chiara matrice beniana (nel senso di Carmelo). Un’ultima negazione, la storia. Dilaniata e ricostruita, la vicenda dei due giovani e del loro angosciato desiderio stritolato dalle faide familiari, s’interrompe proprio sul più bello, all’acme del plot, un attimo prima della serie infinita e tragica delle finte morti, dei risvegli, dei suicidi. Siamo alla satira della catarsi, alla parodia cimiteriale dell’amour fou.
Ma liberateci dal solito Shakespeare, di Franco Cordelli / Il Corriere della Sera / 31 maggio 2000
Nato nel 1992, il gruppo Fanny & Alexander vanta un considerevole cursus honorum. Giunge ora a Shakespeare, al quale prima o poi tutti giungono. Caduti come birilli i feticci drammaturgici degli ultimi 30 anni, Brecht e Bernhard ridotti al rango di modernariato, il fanatismo religioso ha proclamato Shakespeare vertice del canone occidentale. È quanto basta perchè ci si approfitti della sua opera che sempre più va somigliando a una spugna: la imbevi di qualcosa, la strizzi e ne viene fuori qualcos’altro, un rimasuglio o una goccia di essenza. Nella fattispecie, per Fanny & Alexander (che sono romagnoli, come tutti i gruppi dell’avanguardia italiana e che come tutti i romagnoli sono in procinto di trasmigrare alla Biennale di Venezia) la questione è “Romeo e Giulietta”.
Il titolo del loro spettacolo è però “Romeo e Giulietta – et ultra”: dove, ciò che più conta è l’ultra. Anzi, a vedere lo spettacolo si direbbe che c’è soprattutto l’ultra. Da un punto di vista concettuale (mi riferisco alle intenzioni) per i ragazzi di Fanny & Alexander esso consiste di questa cruciale idea: Romeo e Giulietta sono l’uno il doppio dell’altra, che è plausibile come se dicessimo che Piramo è il doppio di Tisbe, Ero il doppio di Leandro, Didone il doppio di Enea e Sofia Loren il doppio di Carlo Ponti. Con ogni evidenza, per Fanny & Alexander due è uguale a doppio. Per quanto riguarda le intenzioni minori, potrebbero essere riassunti dalla seguente proposizione: “Questa tragedia è un duplice luogo di duplice putredine. Avanti è uno spiazzo retorico, aperto e feroce, su cui scandire fastosamente le orazioni e le marce. Ma dietro riposa su un niente mobile e liquido, forse palazzo, forse sepolcro, luogo della luccicanza”. Il luogo della luccicanza (e qui veniamo ai fatti) poi non luccica per niente. Al contrario, il buio domina sovrano, impossibile prendere un appunto. Di tanto in tanto si scorge un attore. Da un punto di vista visivo “Romeo e Giulietta – et ultra” è un mercato di fari e faretti che frugano nel buio, vorticosamente, smaniosamente.
Ciò che gli autori dello spettacolo chiamano riverberi ottici non è che un attestato di precarietà. Ma una volta che di ciò si sia preso atto, che resta? Restano le modulazioni di frequenza, è un altro termine degli autori, in realtà l’equivalente sonoro della parte visiva: tutto un giocare sull’eco, come Carmelo Bene ai bei tempi e almeno quanto quelle luci ficcanaso non sono che la memoria involontaria (o volontaria) di esperienze ben più radicali degli anni Settanta: da Berlini a Vasilicò a Mazzali. Del resto il teatro è questo, un’arte senza memoria. Se si sfoglia “Nuova scena italiana” di Stefania Chinzari e Paolo Ruffini, sembra che la storia del teatro italiano sia quella dei gruppi oggi invitati alla Biennale o alle rassegne dell’Eti. Prima, il nulla; o alcuni idoli, proprio come Shakespeare rispetto all’intero corpus drammaturgico. Che è la ragione per cui “Romeo e Giulietta – et ultra” è regressivo due volte: lo è intimamente (l’esibizione di nevrosi) e lo è storicamente nel senso di una perdita (fraudolenta) della memoria a tutti comune.
Romeo e Giulietta, un’ombra sulla vita, di Franco Quadri / La Repubblica / 22 marzo 2000
Shakespeare come abicì: per i nuovi degli anni ’90 i testi del grande poeta diventano sempre più spesso materiali da cui ripartire per versioni autonome, come ci danno prova due gruppi emiliani già affacciati all’orizzonte internazionale e più volte uniti nel lavoro, Fanny & Alexander di Ravenna e il Teatrino Clandestino di Bologna.
Gli adriatici esibiscono ora in teatri all’italiana, da Urbino a Ravenna, lo spettacolo già montato a Verona e coprodotto dalla Biennale di Venezia, dove sarà proposto a giugno: Romeo e Giulietta – et ultra. La tragedia, già studiata dalla compagnia in una precedente operazione, viene ora affrontata in tutta la sua traiettoria, con l’aggiunta di raffronti con altre opere del Bardo, per essere scavata nella sua struttura seguendo le linee interpretative di René Girard oggi in gran voga. Fedeli al tema guida di un confronto ossessivo con la morte che implica l’amore, i coraggiosi artisti ne fanno ora un’ombra che si proietta sulla vita: ed ecco un funereo muro che non si frappone solo tra i due amanti di Verona, ma viene visto come motore e traguardo del loro reciproco desiderio, e si dilata formando una barriera con gli spettatori stessi.
La scena per una volta tradizionale di Fanny & Alexander è infatti protetta dallo sguardo del pubblico da un sistema di filtri, che operano sulle voci deformandole o giocando sulle risonanze e sulle immagini, galleggianti nell’oscurità e rese febbrili dal pilotaggio di luci vorticose, con il rinforzo di riflessi speculari o di riprese video. Ne nasce un’ammaliante danza visionaria il cui oggetto ci attrae sfuggendoci e si rivela via via nel suo mutarsi, scoprendo però nelle cinque figure d’attori che operano nell’acquario scenico, non personaggi ma icone che li uniscono, li sdoppiano, li metaforizzano non senza ironia.
Così Mercuzio è un’immagine-commento sopravvissuto alla sua morte – come nella lettura di Carmelo Bene – che detta anche certe intonazioni vocali, mentre il mito corre verso la rappresentazione della fine, ma si dissolve prima di raggiungerla: gli attori si ripresentano, sciolti da ogni debito verso la maschera, com’erano apparsi all’inizio, seduti davanti al simbolico muro bianco di fondo, che designa la facciata di una reggia. Ai confini tra il teatro e l’ultra delle arti visive, questo saggio nel segno di Artaud è per il gruppo ravennate un’importante prova di maturità.
“Romeo e Giulietta – et ultra”, viaggio nel sogno shakespeariano, di Gianni Manzella, Il Manifesto, 9 marzo 2000
All’inizio sono solo tre punti di luce nel buio. E un suono percussivo. Poi dal buio nasce la visione, velata da un trasparente diaframma, nell’oscurità si percepiscono faticosamente dei corpi, alcune figure sedute a semicerchio che subito prendono a marciare, in gruppo compatto, al ritmo del respiro. Nel gruppo nasce una lotta ed ecco che da quel coro si staccano delle voci che risuonano alte, amplificate dai microfoni. Un principe inveisce contro i sudditi ribelli. Un amante grida l’ossimoro del suo amoroso odio. Si assiste ancora una volta a una nascita del teatro, in apertura di Romeo e Giulietta – et ultra, nuova creazione di Fanny & Alexander presentata a Interzona di Verona, nello spazio degli ex Magazzini generali.
Qui, l’autunno scorso, quattro gruppi dell’ultima generazione avevano dato via a un progetto comune, “Prototipo”, sotto l’egida della Biennale veneziana diretta da Giorgio Barberio Corsetti. Da qui ripartono insieme, la Biennale teatro che anticipa in una sede decentrata la programmazione estiva e il gruppo di Ravenna che porta a compimento un’importante fase di ricerca. È rimasto assai poco del precedente lavoro, un duplice studio sulla tragedia di Shakespeare che solo al momento finale fissava un punto d’incontro, con la caduta del muro che separava i due spazi contigui dell’azione e i due gruppi di spettatori che si erano scambiati di posto.
È rimasta l’oscurità del luogo che sembra voler gonfiare la dimensione sonora, quasi da radiodramma, sperimentata appunto nella prima tappa del lavoro. O meglio, l’oscurità è come il negativo fotografico in cui si inscrive la traccia di una visione molto selettiva. Nello spazio ritagliato all’interno del monumentale involucro metallico della “stazione frigorifera specializzata” veronese, sono soprattutto le pallide luci a creare il movimento, spostando le zone d’attenzione. Con una ossessione per il volto, illuminato da lampade portate sul capo o celato dietro maschere fatte di lastre fotografiche. Quello soprattutto di una Giulietta che non solo è Giulietta, incorniciato e moltiplicato su una serie di steli.
Ma il rinnovamento è soprattutto linguistico, quasi il consumarsi finalmente dell’addio a un’infanzia protratta al di là dei limiti anagrafici. I due giovanissimi che nel teatrino anatomico di Ponti in core celebravano morbosi riti necrofili, quegli altri che si interrogavano in segreto Sulla turchinità della fata, al fondo di un caleidoscopico pozzo dalle volute moresche, sono ora di fronte alla linea d’ombra della maturità. Ne è una misura l’allargamento del gruppo, pur celato ancora dietro la sigla collettiva d’ispirazione cinematografica che nega nomi e ruoli individuali agli interpreti. Cinque attori in scena, insieme a due alfieri in tuta rossa che fungono da muti servi di scena, spostano fari e porgono i microfoni con cui viene amplificata una vocalità distorta, contrapposta anche nella provenienza spaziale all’emissione diretta della voce.
Gli attori non impersonano i personaggi. Sono cinque figure, cinque “situazioni” avrebbe detto Carmelo Bene che è il vero nume tutelare di questo lavoro (e dal suo alcolico Romeo e Giulietta teatrale, che i giovani Fanny & Alexander non possono aver visto, aveva tratto appunto una straordinaria versione radiofonica). Sono gli amanti, il potere con le sue mediazioni, la retorica, la vaghezza e la ferocia principesca, la consapevolezza crudele del doppio servile. Figure che attraversano tutto il teatro di Shakespeare, brandelli di testi diversi si mescolano infatti nella frammentata scrittura scenica, come rivela quell’ultra aggiunto al titolo. Nel flusso sonoro che arriva dalla scena pare di cogliere le voci di Otello e Desdemona e l’invettiva di Shylock contro i mercanti veneziani, il gioco vertiginoso del bosco di notte dove sognano altre coppie d’amanti, in una notte d’estate.
Proprio l’esperienza del sogno, nel quale le immagini sembrano recitare la trama di una vicenda, più s’avvicina a questo Romeo e Giulietta – et ultra. Allontanato dal rito, per sua natura performativo, il processo creativo sfida l’incomunicabilità di una zona oscura che potremmo chiamare inconscio, se la parola non fosse svalutata. Un luogo denso di simboli che confina con la psicosi, dove è facile smarrirsi per lo spettatore o per gli artefici restare imprigionati nella propria creazione. Il muro che separa i due amanti è solo l’artificio teatrale che maschera ostacoli più interiori. A teatro, si sa, finita la sua parte, il muro se ne va.
F&A, Romeo è Giulietta, di Renato Palazzi / Il Sole 24 Ore / 5 marzo 2000
Fanny e Alexander, gruppo giovane fra i più rappresentativi della cosiddetta “terza ondata” del teatro italiano di ricerca, esce stavolta dalle consuete gabbie ottiche, dalle scatole sceniche claustrofobiche e suggestive che avevano caratterizzato i suoi precedenti spettacoli per dilatare infine lo spazio della ribalta, in un processo di espansione fisica che coincide anche con un evidente progetto di crescita interiore: e in fondo poco importa che sia una ribalta oscurata e quasi negata alla vista dello spettatore ad accogliere Romeo e Giulietta et ultra, nuova proposta realizzata – dopo un primo provvisorio “studio” – negli affascinanti ambienti di Interzona, monumentale antica cella frigorifera alla periferia di Verona, in coproduzione col settore teatro della Biennale di Venezia.
Non è un caso che i ragazzi del gruppo ravennate, per il loro primo approccio scespiriano, abbiano scelto proprio questo dramma carico di sin troppo ovvie implicazioni archetipe, la storia degli amanti fanciulli prematuramente morti che in fondo è stata più o meno indirettamente e ironicamente alla base di tanta parte del percorso svolto finora. E non è neppure un caso che, proprio in virtù di tali ingombranti implicazioni archetipe, essi abbiano optato per un lavoro di radicale smontaggio del testo, una sistematica negazione di ogni suo riconoscibile traliccio narrativo, ridotto qui a una serie di densi spezzoni allusivi a loro volta in vario modo ulteriormente distanziati e deformati in sede registica e interpretativa.
I luttuosi avvenimenti che scandiscono l’itinerario cupamente sacrificale della vicenda, collocati dietro a un grande tulle nero, sono immersi in una tenebra notturna tagliata da luci per lo più manovrate a mano che svelano ora una concitazione di corpi in movimento, ora il profilarsi di singoli volti spettrali. Piccoli specchi a piede fanno insieme da microfoni, da apparecchi fiocamente illuminati e da cornici a un’ossessiva serie di fotografie della protagonista. L’identità dei personaggi, già precaria per le incerte condizioni visive, è ulteriormente insidiata dal fatto che le loro voci – amplificate in un’astratta partitura sonora – non incarnano ruoli fissi ma pure funzioni sceniche in base alle quali un solo attore dà vita a esempio al padre e al frate, un solo attore è sia Romeo che Giulietta.
Nel tragitto di Fanny & Alexander verso equilibri in ogni caso più maturi e variegati, è interessante il parziale superamento di una certa algida estenuazione formale tipica del gruppo a favore di un’asprezza e intensità dell’impatto emotivo quasi al limite di una crudeltà cerimoniale di marca vagamente artaudiana. Più confuso, e tutto sommato a mio avviso meno significativo, risulta invece quel tessuto di argomentazioni alquanto cerebrali sulla crisi del soggetto e sulla natura del processo catartico che fa da sfondo a un’operazione drammaturgica comunque fortemente contrassegnata, anche più di quanto non lo fosse in passato, dalle esperienze fonico – fonetiche, dallo stile recitativo e persino da certi modelli concettuali tipici di Carmelo Bene.
Giulietta degli spiriti, di Simone Azzoni / L’Arena / 29 febbraio 2000
Una sessantina di persone condotte nel cuore della grande cella frigorifera di Interzona, dieci alla volta, a luce di torcia, per sedersi nel silenzio davanti ad un grande velare nero. Oggetto, un’anticipazione del settore teatro della Biennale di Venezia: Romeo e Giulietta – et ultra della compagnia Fanny & Alexander di Ravenna.
Echi catacombali, cupi rintocchi iniziano i sette movimenti, tappe invisibili della tragedia shakespeariana. Il buio cela i corpi confondendo i volti tra i bagliori di deboli luci. Scoppi convulsi di risate scompongono respiri soffocati, marionette di corpi, simulacri di carne e di celluloide. Dietro un miraggio di reggia, davanti il marciare, l’ansimare, l’urlo e la distorsione. Della tragedia rimangono lacerti di senso, periodi di poesia profetica, rivelazioni di quella finzione che la nota vicenda ironicamente cela. Satira della purificazione dei due amanti, macabra parodia di ogni ostacolo d’amore, dichiara il gruppo di Ravenna. E allora ci si perde tra le maschere delle maschere (di celluloide), tra il vedere continuamente negato dal buio, tra le rappresentazioni incessantemente derise.
Una visionarietà furente, crudele, quella di Fanny & Alexander che lacera le pacificatorie liturgie teatrali, deviando le fonti luminose tra riverberi, flash, scomponendo nel buio le figure schiave della luce stessa. Giulietta è il suo lamento, Mercuzio la sua parodia, Romeo la sua voce: spettri destinati solo ad essere visti perché l’occhio non vede se stesso. Spappolare, infrangere in un afflato o in uno stridore le arguzie mimetiche, l’identità delle maschere che ansimanti si rincorrono dietro il velare a comporre gelidi quadretti manieristici o singulti vocali, singulti dal baluginante palazzo del fondo scena. Con impeto il gruppo di Ravenna svela l’insufficienza della forma, evocando dal magmatico nero in attesa di tridimensionalità, il bercio stridore di una domanda impossibile: perché non ti degni di uscire dal buio e di respirare con noi?
“Romeo e Giulietta” negli abissi dell’amore, di Roberto Lamantea / La Nuova Venezia / 29 febbraio 2000
Nel panorama del teatro di ricerca in Italia, i Fanny & Alexander di Ravenna – attori giovanissimi, 25 anni, ne avevano 17 quando nel ’92 hanno dato via alla compagnia – sono un esempio assolutamente originale di stile e scrittura scenica. Nei loro spettacoli non “mettono in scena” un evento, una narrazione, i linguaggi (voci, corpi, luci, spazio): disegnano un’altra dimensione, un altro luogo della visione, onirico, evocativo, attraversato da sottili inquietudini. I loro spettacoli sono sogni, fiabe di giochi segreti e crudeli. Era così in Sulla turchinità della fata, in “prima” l’anno scorso ai Teatri di Vita di Bologna, uno dei lavori più belli e raffinati degli ultimi anni: un miraggio bianco di colonne arabe, di zucchero e veleno, di rosso fuoco di carta dove i bambini Diamante e Mare sono misteriosamente tenuti prigionieri in un pozzo di melassa; è così in Romeo e Giulietta et ultra. Dramma in sette movimenti, il nuovo lavoro dei giovani ravennati prodotto dalla Biennale Teatro di Giorgio Barberio Corsetti e andato in scena all’Interzona di Verona, alla Stazione frigorifera n. 10, magnifico esempio di archeologia industriale (l’edificio fu costruito nel 1930) agli ex Magazzini generali della città scaligera, ora nuovo spazio per il teatro. Romeo e Giulietta sarà a Venezia, sempre per la Biennale, in giugno.
Sulla turchinità della fata è un mondo bianco; un altro spettacolo dei Fanny & Alexander, Ponti in core racconta, in un teatrino anatomico, l’amore di Cipresso e Dorotea, fra una macabra tazzina da bambola piena di sinistro tè azzurro, guantini di pizzo nero, fino al folgorante finale dove grilli (veri) dipinti d’oro escono da una scatola e camminano sui corpi dei protagonisti. Il colore di Romeo e Giulietta è il nero. Un velo nero divide il pubblico dagli attori; nel buio di una cripta si sciolgono grappoli di risa di bambini, i flash di mobilissime torce abbagliano lo sguardo, attraversano il fantasma azzurro del viso di Giulietta, fotografie di vetro affiorano nel buio. Cinque attori e due alfieri disegnano ciascuno una somma di personaggi, di figure.
Romeo e Giulietta non racconta l’infelice amore dei due eroi shakespeariani, anzi, l’amore è una serie successiva di lontananza, di muri che si alzano, di voci che implorano il vuoto. Rispetto agli altri lavori dei Fanny & Alexander, Romeo e Giulietta è più completo: molta azione gestuale, lavoro sulla voce al microfono (respiri, mormorii, ringhi, latrati, echi), sulla strada aperta da Carmelo Bene, oggi da Leo De Bernardis, sino all’esplosione vocale. La musica è la rielaborazione elettronica dell’Enea e Didone di Purcell: suoni misteriosi come profondità lontane, come se la coscienza fosse un abisso. È teatro della visione e del sogno nero, Shakespeare letto attraverso René Girard, teatro dello specchio e dell’anamorfosi alla Baltrusaitis, questo Romeo e Giulietta notturno, enigmatico, bellissimo. L’amore delle rose ha il pallore della cenere.
Fanny, Alexander e Shakespeare, di Nevio Galeati / Il Resto del Carlino / 15 febbraio 2000
E’ sicuramente un evento che una produzione ravennate apra ufficialmente la Biennale Teatro di Venezia. Lo è ancora di più, per la città, se alla realizzazione di questo lavoro hanno contribuito non solo artisti professionisti, ma anche giovani studenti (in specifico dell’Accademia di Belle Arti). Ecco due delle ‘doti’ del nuovo spettacolo di Fanny & Alexander, Romeo e Giulietta et ultra, co-prodotto appunto con la Biennale di Venezia (Teatro), che andrà in scena dal 26 al 28 febbraio a Verona e che approderà al Teatro Alighieri il 30 marzo, per tornare a Venezia nel periodo clou della Biennale.
In questi mesi la giovane, ma lanciatissima, compagnia ravennate ha lavorato nello spazio di S. Maria delle Croci; ed è riuscita a fondere, nel proprio lavoro creativo, il laboratorio di scenografia che svolgeva appunto per i ragazzi dell’Accademia di belle arti. “Per la prima volta – commentavano ieri sera ragazze e ragazzi – ci siamo sperimentati con i problemi reali. Non dovevamo allestire una scenografia ‘teorica’ : c’erano i materiali da scegliere, tempi e costi da rispettare, modifiche che arrivavano durante il lavoro. E’ stata una prova sul campo molto importante; ed umanamente molto significativa”.
D’altra parte il riuscire a comunicare, oltre che cultura, sensazioni profonde, è dote riconosciuta a Fanny & Alexander, che in questa occasione si sono sperimentati per la prima volta con un ‘testo sacro’, di un autore ‘sacro’, appunto Romeo e Giulietta di William Shakespeare. “Un vantaggio – hanno spiegato ieri, di fronte all’allestimento della scenografia, appunto in S.Maria delle Croci – e insieme un peso. Vantaggio. La bellezza di quest’opera era addirittura insostenibile”. Ma la compagnia ravennate ha dirottato questa complessità nel flusso della propria poetica, evidente già della scelta del nome, una coppia, la dualità. Il confronto con Shakespeare li ha però ‘costretti’ (indotti? convinti?) a proporre un lavoro pensato per il palcoscenico tradizionale, senza cioè dover ricostruire lo spazio, come era ad esempio avvenuto per Ponti in core e per Sulla turchinità della fata.
L’impegno è stato notevole; Fanny & Alexander hanno seguito le indicazioni di un’organista esperta di canto gregoriano, Elena Sartori; hanno lavorato con il centro audio-fonoiatrico di Franco Fussi; hanno trovato la collaborazione di una danzatrice del calibro di Monica Francia; hanno fatto comporre le musiche (elettroniche) appositamente da Giammarco Volta; e sono riusciti ad ammaliare gli studenti dell’Accademia di Belle Arti, grazie alla ‘complicità’ del direttore, Vittorio D’Augusta e del direttore della pinacoteca, Claudio Spadoni.
Un’ultima annotazione; Santa Maria delle Croci ha già ospitato, un anno fa, la realizzazione del video sulla Turchinità della fata. I filmati, senza sonoro, saranno proposti al teatro Alighieri durante la prima ravennate di Romeo e Giulietta et ultra; due musicisti ravennati, Walter Orsingher e Filippo Mazzoli accompagneranno ‘in diretta’ le proiezioni.
Insomma, un lavoro decisamente collettivo, a dimostrare, ancora una volta, la nuova, feconda attività dei giovani artisti ravennati.
Viaggio nel classico, di Chiara Bissi / Il Corriere di Ravenna / 15 febbraio 2000
Ieri in Santa Maria delle Croci divenuta, per due mesi, spazio di elaborazione e costruzione del nuovo lavoro della compagnia ravennate Fanny & Alexander, è stato presentato Romeo e Giulietta – et ultra, spettacolo coprodotto con la Biennale di Venezia, prossimo al debutto, a Verona il 26 febbraio. Inserito nella programmazione della rassegna di teatro contemporaneo, sarà al Teatro Alighieri il 30 marzo, al termine di una giornata ideata da Fanny & Alexander, con incontri e proiezioni video accompagnati da interventi musicali. La compagnia, durante le fasi di allestimento dello spettacolo, ha dato via a un laboratorio di scenografia, conivolgendo l’Accademia di Belle Arti, rappresentata all’incontro dal direttore Vittorio D’Augusta e dall’assessore alle Istituzioni culturali Alberto Cassani. Alcuni studenti sono stati impegnati materialmente nel lavoro di costruzione della scenografia, esperienza che è entrata, come materia d’insegnamento, all’interno del loro corso di studio, in base alla convenzione triennale con il Comune di Ravenna che prevede un solido rapporto di scambio con le energie della città. A questa interessante scelta si deve la collaborazione con artisti ravennati come il Teatro delle Albe, Monica Francia, l’organista e cantante Elena Sartori, i musicisti Filippo Mazzoli e Walter Orsinger. Per la prima volta il gruppo ravennate si confronta con un classico, con il più amato dramma di Shakespeare, incontrato nel mai interrotto lavoro sul mito dei due amanti, sull’archetipo del doppio, viaggio iniziato con il Cantico delle Creature, sino agli sposi della Turchinità della fata. Racconta Chiara Lagani: ”la riscrittura di un’opera, l’incontro con la tradizione, ci ha imposto un modo nuovo di fare teatro, lontano dalle esperienze precedenti”. La lettura critica del testo ha permesso di togliere banalizzazioni, stereotipi, che sviliscono il dramma che sottende nella riscrittura di Fanny, una feroce determinazione dei due amanti verso la propria distruzione, verso la reciproca morte che gli ostacoli esterni retoricamente ingigantiti, non possono determinare. I due protagonisti si muovono come vittime predestinate per un sacrificio voluto da un potere che ha dinamiche violente, immediatamente ricomposte dopo la scomparsa dei due giovani. In scena prenderà corpo il racconto della faida, cinque attori e due alfieri, che non interpretano personaggi ma figure stilistiche. Dal 30 aprile al 6 maggio Fanny & Alexander saranno al Museo dell’Arredo con il primo studio realizzato sul dramma Romeo and juliet – storia infelice di due amanti.