REQUIEM

Premio Lo Straniero 2002
Premio Speciale 36mo Festival BITEF di Belgrado 2002
Premio Speciale della Giuria a Luigi Ceccarelli per la migliore Musica e Sound Design al Festival MESS di Sarajevo 2002
Premio Speciale Ubu 2002 a Luigi Ceccarelli

 


musiche “Requiem, per voci, trombone, ambienti e macchine del suono” Luigi Ceccarelli | ideazione  Chiara Lagani e Luigi De Angelis  |  regia, luci, macchine del suono Luigi De Angelis | drammaturgia Chiara Lagani
 | regia, scene e luci Luigi De Angelis | 
sound design Luigi Ceccarelli
 | personaggi Afrodite Regina di Cuori (Elena Sartori), Psicopompo Bianconiglio (Marco Cavalcoli), Alice Psiche (Chiara Lagani), sorelle di Psiche (Sara Masotti e Paola Baldini), Pan Incubus (Mirto Baliani) | fotografie Enrico Fedrigoli
 | immagini video Zapruder Filmmakersgroup
 | costumi Chiara Lagani, Laura Manzari
 | realizzazione scenotecnica Jacopo Pranzini, Sara Masotti, Claudio Pamelin, Sara Guberti, Antonio Barbadoro | 
consulenza e ricerca testi originali e canto dal vivo Elena Sartori
 | trombone Renzo Brocculi | 
produzione Fanny & Alexander, Ravenna Festival, Kulturfabrik Kampnagel Hamburg | in collaborazione con Ravenna Teatro e CRT – Centro di Ricerca per il Teatro di Milano


 

Nato da un progetto di collaborazione tra Fanny & Alexander e Ravenna Festival, il festival musicale diretto da Cristina Mazzavillani Muti, e incentrato sulla riflessione del rapporto tra i due codici della musica e del teatro, Requiem è un esperimento di teatro musicale.

È uno spettacolo sul lutto, la morte, l’abbandono. Il suo sguardo è umano, si interessa assai di più al duolo dei vivi che non al destino dei morti, e fissa il proprio occhio sul cammino faticoso e accidentato dell’elaborazione del dolore. Requiem è una discesa agli inferi.
La fabula presa in prestito per la narrazione intreccia i miti discenditivi di Eros e Psiche, così come ne scrive Apuleio nel suo L’asino d’oro, e di Alice di Lewis Carroll.

Requiem ha la forma di un’opera di teatro musicale. La composizione elettronica originale di Luigi Ceccarelli innerva l’intera drammaturgia dello spettacolo; più che accompagnarla, ne è un elemento costitutivo. Per l’elaborazione della musica si è partiti da una ricerca sulla forma requiem che si è focalizzata sulle strutture più antiche, quelle del canto gregoriano. Le voci amplificate sono in dialogo costante con la partitura musicale, sia nella versificazione musicale degli attori che nel canto dal vivo di Elena Sartori.

Lo spettacolo è stato inizialmente concepito per spazi all’aperto e strutture architettoniche ed urbanistiche non teatrali. In questa forma la scena è costituita da un lungo muro rosso, eretto nello spazio ospite come un monumento davanti ed intorno al quale si svolgono le scene. Nella successiva versione per i teatri lo stesso muro è piegato in tre lati in modo da risultare l’interno di una stanza. La differente contestualizzazione ha portato ad una rielaborazione drammaturgica che ha modificato alcuni elementi rispetto al primo debutto.
In particolare nell’intreccio dei due miti portanti i continui passaggi in ambienti sovra o sottodimensionati, sotterranei o variamente nascosti, avvengono nello spazio bidimensionale del video.

A partire da Requiem Fanny & Alexander e Zapruder Filmmakersgroup hanno realizzato il cortometraggio R for Redrum.

 

TOUR

 

PER TEATRI E AUDITORIUM
 

29/30/31 maggio 2003  |  Roma, Teatro Vascello, ETI, Due voci per una voce
4/5/6 novembre 2002  |  Leuven (BE), Stuk Kunstencentrum, Dubbelspel
23/24 ottobre 2002 |  Barry (UK), Memorial Hall Theatre, International Festival of Musical Theatre in Cardiff
18 ottobre 2002  |  Sarajevo, Centro Culturale Bosniaco, International Theatre Festival MESS
22/23/24 settembre 2002  |  Belgrado, Zvezdara Teater, International Festival BITEF
9-12 maggio 2002  |  Amburgo (DE), Kulturfabrik Kampnagel
17/18/19 febbraio 2002  |  Milano, Teatro dell’Arte, CRT Centro di Ricerca per il Teatro – Milano
13-16 dicembre 2001  |  Scandicci (FI), Teatro Studio, Lode dell’Indisciplina
29, 30 novembre, 1 dicembre 2001 |  Ravenna, Teatro Rasi, NOBODADDY

PER SPAZI MONUMENTALI


11-15 luglio 2001  |  Torriana (RN), La Cava di Torriana, Santarcangelo dei Teatri
1-4 luglio 2001  |  Ravenna, Cimitero Monumentale, Ravenna Festival

 

APPROFONDIMENTI

 

Il sogno e il mondo infero

È veramente duro trattare di un sogno. Soprattutto quando questo sogno è sbranato da un altro sogno, che inizialmente sembrava semplicemente contenerlo. Da un sogno così ci si ridesta con una desolazione più feroce del rapimento, e non risponde a verità la credenza che, quando ci si accorge di sognare, il filo del nostro sogno si spezza; in realtà sono quelli gli attimi in cui si decide di creare, in sogno, ciò a cui da sempre, vagamente, ma con precisione crescente, il sogno stesso alludeva.

Così, dagli occhi luminosi e bendati del sogno, non può raggiungerci che un’immagine stranamente raddoppiata: lo sguardo obliquo di un mito che ciclicamente ripete se stesso.

Tutto comincia dal sogno di una ragazzetta, addormita sotto un libro rosso. La ragazzetta sogna la storia del suo libro, una storia d’amore e di viaggio. Già il libro conteneva il suo sogno, e lei addormita, e la sua storia sognata.
La ragazzetta si desta in sogno. Ma, o incompetenza! La sua storia non riesce, appare spaventosa e risibile, e le salta sulla testa come un mostro o una fiera, lampo di attimi inafferrabili.
La fiaba mitica è un’orditura incessante di tali attimi inafferrabili, fissati ad un massimo di splendore. Questo ritmo di viaggio rapinoso e lentissimo è proprio della fiaba mitica, delle sue esatte iperboli.

Requiem è una classica fiaba mitica, una storia d’amore e di viaggio, alla ricerca di un’incomparabile Meraviglia.

Così, si dia un evento essenziale per la nostra vita, lo riconosceremo alla luce del mito che lo investe, che lo scavalca. Miracolosamente, per qualche tempo, ne siamo al centro, lo decifriamo, e lo seguiamo in fondo al suo tunnel, senza pensare minimamente a come poi faremo a tornare.
Siamo allora nel vero sottosuolo, Ade Invisibile.

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Scrivere un Requiem
liberamente tratto da Giorgio Manganelli, ascoltatore maniacale di Paolo Terni, Sellerio Editore Palermo, 2001

“Mi pare di non avere mai parlato di musica direttamente, frontalmente direi. E questo mi pare sia un indizio di un uso della musica diverso da quello del musicologo, del musicista, o dell’ascoltatore in generale. Io non sono un buon ascoltatore. Sono un ascoltatore maniacale, perché mi interesso di strutture. Quindi io non ho niente da dire sulla musica se non in quanto l’accadimento musicale fa parte della mia personale cronaca mentale.

La musica è proprio… è anche un elemento… ha anche degli elementi puberali. Quindi è bene che venga incontro questo fantasma, questo ectoplasma melodico… è giusto, è sano, è perlomeno fondamentale, che venga incontro ad un… direi ventenne, o al più tardi ad un trentenne.

Ci sono forme musicali che sono state per me di estrema importanza e lo sono ancora. Ma mi rendo conto che sono state anche vissute e adoperate come degli emblemi intellettuali, psicologici direi, molto più che intellettuali.
Non c’è nessun motivo intellettuale perché io ami in modo così fanatico la forma Requiem, ad esempio. E però ci sono molti motivi psicologici, perché il Requiem comporta quell’affettuosa alleanza di eros e morte, di sterminio e di insediamento, che mi sembra sia molto accattivante per un giovane a metà strada tra il suo imponente infantile ed una sua potenza fantastica.

E non credo si tratti qui di un semplice uso mitico. Anche se abbiamo la narrazione di una fiaba mitica. E’ una cosa… cioè qui siamo già fuori dagli schemi in qualche modo fissati collettivamente nell’iniziazione fiabesca. Qui siamo dentro un’esperienza che è ormai personale, ma direi è insopportabile.
E’ il momento in cui la catalogazione del lutto si presenta sotto forma di una spaventosa malattia. Un’impresa impossibile… che richiede una forma di esorcismo. Che richiede una forma di intervento magico. Questo intervento magico in questo caso può essere un mito (anzi senza dubbio sono stati molti miti), e la musica è senza dubbio questo.

Nel momento in cui io mi rimisuro con questa forma (la forma Requiem), sì, in silenzio, o con discontinui frammenti musicali… mi sento di fronte a quello che mentalmente m’è venuto di chiamare una minaccia pedagogica. Non è un’espressione propria, anzi, è assolutamente impropria, ma visto che m’è venuta in mente, non vedo perché dovrei censurarla!
Cioè io mi trovo di fronte a una… a un’immagine che mi sfida in qualche cosa, su un terreno in cui già io, in qualche modo, sto cercando da tempo di provarmi. E’ una forma in cui viene disegnato un labirinto straziante e allo stesso tempo così… assolutamente direi immobile, così senza… esangue, senza… senza ferite, che è forse uno dei risultati più straordinari che si possono conseguire.

Voglio dire questo: “questo è il mondo della forma. Se tu riesci a toccarlo è questo. Ma non c’è nessun altro”. Tutto il resto è il mondo della psicologia, il mondo degli affanni, il mondo delle… delle…

Se io dico che il Requiem è una forma altamente angosciosa io la riporto nello schema del discorso psicologico. Quello che invece, per l’appunto, sento di non poter fare, è questo, cioè il Requiem mi presenta un discorso che adopera un materiale che io posso definire, in altra sede, psicologico, ma lo rovescia completamente, lo smonta.
Non accade più nulla di angoscioso e io mi trovo solo di fronte ad un’angoscia della struttura, ad un’angoscia della forma che non è più assolutamente dotata di capacità di pedagogia dolorosa. Non mi trasmette sofferenza. Mi trasmette quella… quella misteriosa fascinazione che è compatibile con qualunque grado di materiale dolente.

Per me è molto importante questa verifica, questa palestra, lavorare su una forma musicale tradizionale con un compositore, con un musicista contemporaneo. La musica ha conservato nella storia e custodito gelosamente una continuità retorica che dalla letteratura, dal teatro, è venuta molto prima ad essere messa in discussione, in dubbio. Sono storie differenti. Anche la tradizione pedagogica, le scuole musicali portano questa impronta.

E tuttavia esiste una specifica invidia dello scrittore, in letteratura e in teatro, verso il musicista, che è l’invidia di una… di una condizione particolare che al primo sembra infinitamente più libera e più inventiva, più naturalmente fantastica. Lo scrittore ha il problema di scrivere adoperando qualche cosa che si può presentare e descrivere come un significato e deve contemporaneamente liberarsi del significato.

È questa la macchinazione più angosciosa per lo scrittore. Lo scrittore sa bene che la sua scrittura, che la sua drammaturgia ha ben altro da dire che non dire… E questa condizione lo scrittore la trova realizzata nella musica in maniera particolarmente felice. Ora lo scrittore si trova sempre di fronte ai problemi della… della… come potrei dire?… metabolizzazione dell’assenza. Il musicista può superarli quando riesce a toccare un livello perfetto d’espressione e di forma.

E per questo affermo che questa è una palestra importantissima per il mio lavoro, perché il Requiem ha portato con sè questa potenza della musica: la capacità di toccare un materiale popolare… direi un’iconografia tradizionale, semplice, trasformandola in un’icona, trasformandola in qualche cosa di un’intensità specifica. E quindi è questo il debito, un altro debito al fascino di questa maga musicale, questa magastra, magalda: la capacità di usare il volgare, la volgarità.

È così difficile in letteratura e in teatro adoperare il volgare ed è così necessario! Noi stiamo in questo periodo… direi che siamo in un periodo in cui è molto… c’è una grande lite intorno all’uso della volgarità. Non c’è nessun significato al momento in cui viene recepita: è questo il punto affascinante… questa forma che era nata, diciamo, nell’ambigua ambizione di avere un significato anche popolare, nel momento in cui viene appropriata dal musicista, perde di ogni significato.

Ma il dramma del compositore non è diverso da quello dello scrittore. Il musicista si trova, diciamo, di fronte ad uno strumento che è molto più… che agisce molto più prontamente coi suoi incantesimi per modificare il significato, mentre lo scrittore, purtroppo, deve… deve portarselo dietro e deve ucciderlo passo passo!…

Non parlo di una modalità astratta della forma. Ci devono essere delle macerie specifiche, personali, per costruire questa impalcatura dell’impossibile. Sarà fatta sì di macerie, ma devono essere certe. E devono essere in qualche modo identificabili. Quindi… quindi… deve restare insomma… deve restare questa specie di ferita, che viene trasformata in un… contrassegno nobiliare.

E vorrei fare un cenno, un breve cenno alla questione dell’angoscia. Vorrei dire che l’accenno all’angoscia mi trova consenziente fino ad un certo punto, perché l’importante è che l’angoscia coesista col gioco, coesista continuamente con la… non so se la liberazione o la schiavitù della forma, ma certamente con qualcosa che affronta, sfida e contemporaneamente coniuga l’angoscia…

Credo che non ci sia altro gioco in arte. C’è sempre qualcuno costretto a danzare finché muore.

Signori ascoltatori, vi buttiamo ora in faccia per finire, proprio come in un circo, e questo forse più si addice alla nostra vera natura che non a quella di teatranti, compositori, musicisti, scrittori, critici, fabulatori, teorici, fantasticatori, letterati, psicologi, antropologi… quella appunto di imbonitori… vi buttiamo in faccia…

REQUIEM, di Fanny & Alexander.
20, aprile 2001”.

 

FOTO

 








 



RASSEGNA STAMPA

 

Paolo Ruffini, Requiem per Amore e Psiche

Valeria Ottolenghi, Struggente di bellezza “Requiem” di Fanny & Alexander

Gilberto Santini, Il teatro di Fanny & Alexander, un gioco tra vita e morte

Giordano Montecchi, Tempesta sonora nell’Ade elettronico di Fanny & Alexander

Renato Palazzi, Un Requiem senza cimitero

 

Requiem per Amore e Psiche, Paolo Ruffini, Hystrio, anno XIV, n.4, ottobre – dicembre 2001      

L’immaginario cimiteriale ha da sempre accompagnato la progressione estetica di Fanny & Alexander, gruppo ravennate tra quelli di una generazione ormai sul confine della maturità, capaci di saldare in un unico soggetto una precisa strategia scenica, immediatamente riconoscibile, con un raffinato esercizio di stile attraverso il quale filtrare l’esperienza arte/vita nel teatro.

E se da una parte il costante lavoro volto a definire una particolare rappresentazione di sè ha generato spettacoli-pretesto, con al centro l’immoto gioco delle crudeli e deliziose occasioni letterarie di Fanny & Alexander, dall’altra, la compagine guidata da Luigi de Angelis e Chiara Lagani ha mostrato una debolezza e una forza proprio nella ricerca fonetica e sonora in continuità con la Raffaello Sanzio e prima ancora con Carmelo Bene.

Ora è un Requiem l’ultima e riuscita fatica, uno spettacolo-concerto come nelle loro corde e che ovviamente omaggia volontariamente o involontariamente appunto quell’eredità di senso e compositiva ma con uno scarto fondamentale in più, nel momento in cui Requiem concepito come un’Opera ha figure narranti iscritte a servire la drammaturgia e la partiture in una temperatura meno fredda e autofagocitante.

La scena ricorda un grande cimitero e con mura completamente rosse; tra le finestre si intravedono bagliori luminosi mentre al centro una sorta di solenne entrata con scale fa pensare a quelle case del popolo versione neoclassica, interpretazione delle architetture quattrocentesche.

Punto di partenza è il mito di Amore e Psiche con intersezioni classiche, laddove lo sguardo contemporaneo prende lo spunto da Rimbaud, Manganelli, Genet e ancora Carroll, traghettatore nel viaggio sulfureo e favolistico con il personaggio dello Psicopompo, ovvero il coniglietto dell’Alice in lingua barocca, meravigliosamente “indossato” da Marco Cavalcoli.

E’ un canto straziante invece la presenza di Psiche che invoca Eros sterzando persino sul dialetto romagnolo e senza che questi compaia, anzi è Pan ad affiorare durante il suo dolente lamento, nel quale il corpo sembra sottrarsi seppure si completi con gli interlocutori intermezzi di Afrodite in canto gregoriano.

Le voci microfonate imbastiscono dunque una struttura sintetica quanto efficace dello spettacolo, ma che diventa nel magma sonoro di Ceccarelli “per voci, trombone, ambienti e macchine del suono”, violenta e carnale e di estrema bellezza.

Dicevamo dei debiti nei confronti delle altre atmosfere e maestrie, ma nell’ottica questa volta di un lavoro di scrittura e di riscrittura che guarda indietro con rispettosa indifferenza, Requiem mostra una nuova potenzialità rigenerativa di Fanny & Alexander.

 

Struggente di bellezza “Requiem” di Fanny & Alexander, Valeria Ottolenghi, La Gazzetta di Parma              

“Pistola, pillola o fiume?”: Pan – l’attore Mirto Baliani, in scena per il cupo, ironico e straziante Requiem di Fanny & Alexander – sfida Psyche al suicidio, stimolandola quindi a non rinunciare ad Amore, ad andare in cerca di Eros in tutto il mondo, foss’anche si trovasse all’inferno.

E evocando Rimbaud, in versi che accolgono un dialetto filtrato, stilizzato ma ancora con il sapore della terra, Pan dialoga con la fanciulla e il suo pianto. “Le lune atroci. L’amôr d’inturmintes. A volte ti prende il desiderio d’andar zò, di’ la verità!”.

Un’estrema, coraggiosa e potente varietà di linguaggi, con Apuleio e Marino, Pascoli e Genet, fusi in stupefacenti modi dalle avvolgenti, emozionanti musiche di Luigi Ceccarelli, “Requiem per voci, trombone, ambienti e macchine del suono” che si espandono nell’aria, lo spazio aperto scelto su un piano in collina, un’alta roccia alle spalle dove a tratti appare Afrodite: questo spettacolo di Chiara Lagani e Luigi de Angelis, prodotto con Ravenna Festival, e visto nell’ambito del Festival di Santarcangelo, è opera di vasta complessità, ingenua e raffinatissima ad un tempo nell’amalgamare i materiali mitico letterari, musicali e visivi in una teatralità potente, capace di produrre insieme angoscia e sorriso.
Sicuramente in ogni spazio in cui verrà adattato acquisterà con le nuove proporzioni anche diverse sfumature di senso e di coinvolgimento – e certo si cercherà di rivederlo in diverse situazioni.

Una lunga parete rossa con finestre dove le luci paiono a momenti fiamme mobili: un inferno rituale e familiare, spazio di paura e ricatti, intimità e desiderio. Ricordando la fiaba di Bella e la Bestia, ma anche l’Alice di Carroll: Psicopompo (molto bravo Marco Cavalcoli) evoca il coniglio che ha sempre fretta (e uno vero sarà lasciato libero di correre davanti alla scena) e ricorderà a Psyche (Chiara Lagani) che, gli avesse chiesto un consiglio prima, le avrebbe detto di piantarla a ventisei anni. “Ma ormai è tardi!”, mezzo anno di troppo…
L’attrazione per il suicidio si risolve nell’esperienza, replicata, del tuffarsi, “dirupare”, saltando quindi, oltre l’istante d’abbandono, sul laghetto/tappeto elastico.

Infelicità della separazione, tormenti e pianti nella sofferenza dell’abbandono. E nel pan/ico Psyche sperimenterà più volte l’istante di morte.
Possiede il lucido, distante, suadente canto della sirena Afrodite, la sua immagine in pietra al fianco.
E, teatro nel teatro, si aprono qua e là riferimenti ai presenti, a quel pubblico cui si va raccontando una storia. Lettere sparse come di un trascurato monumento funebre al centro – che cadranno infine, nulla che si salvi al tempo che scorre.

Grottesche le due sorelle, maligne ed ambigue. Intimità sottovoce tra Psyche ed Eros al buio. E’ sempre di fretta Psicopompo, animale che teme la regina pur nel suo potere di far avanzare le vicende, il racconto.

Smarrimenti. Sentimenti di colpa. Desiderio di perdersi, di annullarsi.

“Allora, t’è capì la föla?”

Psyche dichiara di stare bene – e di voler morire, piena di contrasti interiori, anche di odio “per quella sua desta vita”.
Cadere nel quieto vortice del nulla! Vicinanza con le anime/gli animali: ossessioni e affinità.
Immagini di volti sfocati alle finestre. Acqua che scivola sulla parete: tutto si consuma nell’Ade teatrale, come un cimitero. Mutano le luci. Ombre si proiettano sulla roccia. Oltre la bellezza odiata e invidiata il mito è racconto e intimo sentire che ritorna. Psicopompo sente che va disgregandosi il discorso. Sarà possibile incontrarsi nuovamente? Ma: come riconoscersi? L’addio è per sempre?

Requiem: proprio un’opera di superbo valore creativo, bellissima in sè e che meriterà nuovi incontri e approfondimenti. Lunghissimi, commossi gli applausi al termine per tutta la compagnia.

 

Tempesta sonora nell’Ade elettronico di Fanny & Alexander, Giordano Montecchi, L’Unità, 8 luglio 2001

Sarà la geografia, i cromosomi, fatto sta che il “Ravenna Festival”, con una frequenza anomala rispetto ad altre illustri rassegne musicali, ha sempre avuto una spiccata propensione teatrale, a spingersi fuori dall’alveo operistico per attingere a quel teatro musicale di ricerca di cui proprio la Romagna è una sorta di Silicon Valley.

L’anno scorso fu l’anno del Teatro delle Albe che presentò “L’isola di Alcina” (Ermanna Montanari con le musiche di Luigi Ceccarelli).
Quest’anno tocca a Fanny & Alexander (Chiara Lagani e Luigi De Angelis) col loro Requiem per voci, trombone, ambienti e macchine del suono; una materia sonora anche qui plasmata magistralmente da Luigi Ceccarelli.

La fabula – tratta dal mito di Eros e Psyche – tritura e impasta parole e ispirazioni da Apuleio all’Antologia Palatina, da Manganelli a Rimbaud, da G.B. Marino a Lewis Carroll, da Pascoli a Jean Genet.
Ne esce un testo torrenziale e senza freni, una lingua multipla, barocca, dialettale, balbuziente. Psyche è colei cui la bellezza è condanna, che ama e non può vedere, che vuole ma non sa morire.

La rappresentazione inizia un’ora prima, attraversando Acheronte. Si sale su un battello che percorre la darsena. Chilometri di gru, serbatoi, scheletri d’acciaio. Nessuno in vista: metallo, cemento, acqua, cielo e nient’altro. In tre quarti d’ora tutto il resto è lontanissimo.

All’imbrunire la nave ci sbarca all’ingresso dell’Ade: è il Cimitero Monumentale, neogotico romantico, scuro, imponente.
Era la cornice strepitosa pensata originariamente per questo Requiem cui, per qualche malinteso divieto, si è dovuto rinunciare in extremis. Come scenario del prologo però emana una pari suggestione.

Arriviamo al luogo: un muro rosso, nudo, lapide o soglia dell’aldilà. Attorno è un’Arcadia di cespugli e boscaglia, fra i rami si staglia la statua bianca della Venere di Milo. Un ronzio sordo diventa un rombo assordante che si sposta; mosconi, calabroni sfrecciano. Ma non ci sono né aerei né insetti, solo diffusori nascosti nel buio. Il muro si accende: luci, fuochi, la scena si anima.

Nell’aria lacerata dai suoni ovunque, corrono i gesti e le voci degli interpreti in gara di bravura fra loro: Chiara Lagani (Psyche/Afrodite), Marco “Psicopompo” Cavalcoli, le “Sorelle” Francesca e Sara Masotti, Valerio “Eros” Michelucci, Mirto “Pan” Baliani.

Luigi Ceccarelli è il signore del tuono. Nella sua fucina le voci diventano polifonie metalliche, taglienti di cattiveria (le Sorelle); gli smarrimenti e i vaniloqui di Psyche generano marosi di tempesta, spalancano abissi; uno, mille tromboni riversano tonnellate di suono, come si risvegliassero le navi che dormono poco lontano.

Ma dalla statua di Afrodite, a tratti, nasce un canto: Requiem aeternam, poi Kyrie, Dies Irae, Lacrymosa, Agnus Dei. Intonata da Elena Sartori, la melopea gregoriana è un canto di sirena o di strega, seducente e terribile che si rifrange, si amplifica, combatte con le parole.

Nella dimensione sonora il dramma di coppie e di antagonismi – Eros e Psyche, Afrodite contro Psyche – si muta nel binomio psyche e techné. Qui la “meraviglia” cavalca a briglie sciolte, la tecnologia elettronica dona alla parola un’aura, uno strapotere emotivo che stordisce e ammalia.
La metamorfosi è continua: suono, rumore, canto, parola, musica si compenetrano, si generano uno dall’altro in una drammaturgia uditiva che azzera il tradizionale dualismo parola/musica.

È un teatro nuovo (e dunque benvenuto), un neo-barocco tecnologico forse fin troppo pago del suo potere seduttivo e immaginifico; un fiume in piena che già reca in sè il bisogno di un’argine che ne disciplini il corso. Chapeau!

 

Un Requiem senza cimitero, Renato Palazzi, Domenica, supplemento a Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2001

“Sfrattato” dal Cimitero Monumentale di Ravenna, relegato in un anonimo terreno a pochi passi dalle mura di quest’ultimo – anziché fra le tombe com’era inizialmente previsto dal programma del Festival – il Requiem del giovane gruppo “Fanny & Alexander” non rinuncia alla sua immagine fondamentalmente funeraria: la scenografia incongruamente montata tra sterpi ed erbacce è infatti un lungo muro rosseggiante interrotto da finestrelle cieche come loculi, un mausoleo, un’enorme lapide, un luogo di metaforica sepoltura.

E l’inizio dei versi di Marino sulla “novelletta” di Amore e Psiche, che fa da base all’azione, è impresso sulla parete dell’ingresso come un’antica epigrafe resa in parte illeggibile dal tempo.

Il pubblico, trasportato sul posto da un battello che risale il porto-canale come un’emblematica barca di Caronte, viene introdotto alla vicenda da uno Psicopompo svagato e balbuziente, una guida, un custode dell’Ade che si sovrappone paradossalmente al Bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie, e prontamente si sdoppia in un coniglio vero che accompagna l’apparire della protagonista.

Questo intreccio del mito classico con la fiaba di Lewis Carroll, che percorre come un filo rosso l’intero copione, ha l’intento di riportarne i temi a quella dimensione macabro-infantile propria dei primi spettacoli del gruppo, facendo della discesa agli inferi una sorta di viaggio interiore alla ricerca di un’identità ancora incerta e precaria.

La storia dell’incontro fra questa Alice ante litteram e il giovane Eros – visto qui come entità silenziosa e puramente pittorica, che a tratti spunta dalla sommità della costruzione con fiammeggianti torce in mano – si svolge dunque in un clima trasognato e sospeso, onirico, febbrile, dove le sorelle della ragazzina sono due figurette da incubo che cercano di spingerla alla morte, Afrodite è una strega cattiva che canta il Dies irae da un vicino boschetto, stando accanto alla propria statua, e lei, Psiche, tenta di uccidersi gettandosi in un laghetto che di fatto è un materasso elastico su cui rimbalza ossessivamente.
Nel testo si mescolano e si stratificano giochi verbali di Carroll, brani di Apuleio, Pascoli, Rimbaud, battute in dialetto romagnolo.

Lo spettacolo trae effetti suggestivi dal bell’impianto scenografico, da qualche intuizione penetrante – fra cui quella di evocare l’Aldilà come un mondo bidimensionale di labili immagini fotografiche – e dalla trascinante musica elettronica di Luigi Ceccarelli, una complessa partitura per strumenti, voci, rumori naturali, che passando da remote liquidità a sonorità potentemente raschianti sembra davvero richiamare echi d’oltretomba.

Meno risolta è invece proprio la struttura drammaturgica, che risulta stranamente più narrativa che allusiva, a momenti anche un po’ declamatoria, e persino dalla contaminazione con l’inquieto wonderland vittoriano trae in fondo più rischi di confusione che spunti di proficua ambiguità.