PONTI IN CORE
di e con Fanny&Alexander
Si parte dalla visione di un ovale da teatrino anatomico irrorato come un muscolo cardiaco, ferocemente privo di possibilità frontali.
Luogo di necroscopie e giardinaggi, luogo di autoesposizione da teca, da piccolo centrino, da pizzo sacro con al centro minuscoli bambini, bambini inghirlandati di perline.
Museo-mausoleo, casa di collezionisti: l’ossessione ha per tema il cuore, organo sovrano, concentrato simbolico di plus-vita da denso muscolo, di cardiodore, di sentimento e sentimentalismo, del patetico, il più lacrimoso e volgare stereotipo oggetto di culto, che porta in trionfo se stesso, semplificato nodo centrale di rituali egolatrici, ridicolissimi e molto lacrimosi.
Ministri del rito e abitanti del luogo sono due figure, Dorotea e Cipresso, che coltivano e allevano, compagni del gioco, guardiani di tutto.
APPROFONDIMENTI
PONTI IN CORE. UNA RECENSIONE DI MARINA CVETAEVA, Vstreci N.6 – Paris, 1934
Esistevano soltanto al plurale, arrivavano perfino con lo stesso mucchietto di lettere rosse: “e mando in dono un cuore di gigli blu…”.
Vi bruciava il medesimo occhio, verso terra si abbassava la medesima palpebra bruna.
Avevano anche lo stesso nome, e neanche un nome, ma un aspetto, e dietro le spalle – Dorotea e Cipresso.
Il loro teatrino era proprio un teatrino, non una casa, perché la casa era invisibile dietro a tutta quella boscaglia di cipressi.
Quando entravi, gli occhi, sconvolti da tutta quella bellezza e tutto quel rosso, soprattutto del ribes, non notavano neanche quella tettoia di ferro grigio, non la inquadravano, come le proprie sopracciglia. Non si parlava mai della casa di Dorotea e Cipresso, soltanto del giardino di Dorotea, delle sue rose rosse; Il giardino dalle rose rosse si mangiava la casa.
Se allora mi avessero chiesto che cosa facevano Cipresso e Dorotea in quel giardino, io senza esitare, avrei detto: “Passeggiano e mangiano le bacche”.
Ma ancora, a proposito dell’ingresso. Era un ingresso in un altro regno, l’ingresso stesso era un altro regno, che si allungava per tutta la casa, se così la si può chiamare, ma chiamarla così non si può, perché a sinistra all’infuori della loro siepe interminabile non c’era nulla, e a destra…
Non era un ingresso, ma un’uscita, di tutti gli ospiti, di tutti gli altri bambini.
Più di tutto amavo quell’uscita, il pendio che conduce al giardino dei cipressi, dietro il quale – ne sono sicura – le bacche maturano tutte in una volta, le fragole, ad esempio, insieme alle sorbe, dietro il quale è sempre l’estate dei morti, l’estate più rossa e più dolce, basterebbe entrarvi (ma io non ho mai potuto) et tra le mani hai tutto in una volta: le fragole, e le ciliegie, e il ribes, e soprattutto, il sambuco!
Dorotea e Cipresso erano una sorta di calamità familiare, di fatalità, ereditata insieme alla loro casa. Fuori da quella casa non si dicevano nulla, né mai sarebbe saltato in mente di affermare con la voce la mia presenza. Talvolta Cipresso cantava e Dorotea gli faceva eco, e non mi stupiva affatto che lei cantasse con voce piuttosto maschile e lui – più da donna, sottile, non mi stupiva perché nulla stupiva i figli degli Cvetaev e perché quella voce l’avevo sognata a volte.
“Marina, Dorotea e Cipresso hanno portato i fragoloni… Volete che li prenda?”
stavo sull’uscio di quella porta, allungando appena il collo. Staccandomi, infine, da quel giacimento di fragole, incontro lo sguardo di Dorotea, appena chino, solo di poco sollevato da terra. “Ahi, Marina-fragolina, perché sei così verde? Non ti sei ripresa?”
Avrei bevuto con loro il tè da un’enorme tazza variopinta, e con loro morsicato i confetti con i denti, con loro sarei…
Io vorrei giacere nel cimitero di Fanny & Alexander, sotto il cespuglio di sambuco, in una di quelle tombe con la colomba d’argento, dove crescono le fragole più rosse e più grosse delle nostre parti.
Ma se ciò è irrealizzabile, se solo a me non è dato di giacere là, e addirittura non esiste più quel cimitero, allora vorrei che nel giardino delle rose rosse, che attraversavo per andare da loro, ponessero una lapide:
QUI AVREBBE VOLUTO GIACERE
MARINA CVETAEVA +
TOUR
3/4 aprile 2000 | Bari, Teatro Kismet OperA
16-20 novembre 1999 | Monaco di Baviera (DE), Geschwister school
Spielart
10-12 giugno 1999 | Castrovillari (CS), Circolo Cittadino Primavera dei Teatri
20 marzo 1999 | Massa Castello (RA), Villa Masini
1-6 dicembre 1998 | Milano, CRT – Centro di Ricerca per il Teatro
5-7 agosto 1997 | Udine, Teatro San Giorgio, CSS – Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia
16 giugno 1997 | Verona, Interzona
aprile 1997 | Palermo, Stabilimento Zisa Teatri ’90, Cantieri Culturali alla Zisa
marzo 1997 | Milano, Teatro Franco Parenti, Teatri ’90 – La scena ardita dei nuovi gruppi 2-4 aprile 1997 | Ravenna, C.F. P. Benedetti, Commissione Europea – programma Caleidoscopio
30 settembre 1996 | Ravenna, C.F. P. Benedetti (prima assoluta)
FOTO
RASSEGNA STAMPA
Si. T., Corpo e parola di scena, da ieri, a “Teatri 90”
Giuseppe Drago, Arte di corpi ed emozioni
Ugo Volli, Teatro e musica in scena
Henrike Thomsen, Ponti in core
Giorgio Cantoni, Imponderabile “Ponti in core” di Fanny & Alexander
Gian Paolo Polesini, “Core” sofferente e claustrofobico
Paolo Patui, Un delicato epitaffio funerario
Monica Berzacola, Una complessa “liturgia” che suscita stupore ma blocca le emozioni
Franco Quadri, Ponti in core
Lucy Boom, Fanny & Alexander 1997, Ponti in Core
Paolo Ruffini, “Ponti in core”. Quando i fanciulli si addentrano nel gioco della morte
Renato Palazzi, Macabri riti infantili
Corpo e parola di scena, da ieri, a “Teatri 90” di Si. T. / Il Giornale di Sicilia / 27 marzo 1999
Diciamolo subito, non c’è possibilità di fuga. Ristretti in 24 icone che ricordano da vicino le bare, gli spettatori di “Ponti in core” – che ieri sera ai Cantieri della Zisa ha aperto il festival di Teatri’90, per il quale resterà in scena fino a lunedì – vengono introdotti in in un teatrino nel teatro e inondati di rumori. Si fa pian piano strada la certezza di trovarsi dinanzi a qualcosa di assolutamente nuovo: lo spettacolo di Fanny & Alexander affronta in un corpo a corpo il pubblico mostrandosi senza falsi pudori. Un lavoro raffinato all’eccesso, teatralmente perfetto: un sogno nitido dai colori violenti che prende forma attorno a Dorotea e Cipresso, alla donna di carta con il cuore da fanciulla e al ragazzo di tomba con le mani piene di lettere d’amore. Perchè “Ponti in core” è uno spettacolo d’amore: una favola da cui il sangue gronda, il gioco anche. Un lavoro geniale che guarda a Carroll e Collodi, ma che sorride ironico per passare ad altro. E riesce a meravigliare anche alla fine, quando i due attori si mescolano a mille e mille scarafaggi, in una sorta di rituale liturgico che mette i brividi. Di genere assolutamente diverso, seppur complementare, il secondo spettacolo della rassegna. “In exitu” di scena anche stasera allo Spazio ’97. Se per Fanny & Alexander il corpo è tutto, poi Andrea Facciocchi di Extramondo, la parola è un tributo alla confessione. L’attore, guidato da Michele Blasi Cortelazzi, affronta il testo di Giovanni Testori a morsi, sputandolo fuori come se fosse una boccata di veleno. La confessione del giovane drogato, sull’orlo – poi tragicamente superato – dell’overdose, offre a Facciocchi la possibilità di provocare una violenta, ma perfetta, prova d’attore. In quella lingua rancida e frantumata in francesismi, neologismi, dialettismi, Testori ha versato la sua periferia milanese, i suoi emarginati che affrontano la vita prima con lo stomaco e poi con la mente. E, come ogni volta che viene buttato in scena, regala un’emozione che a tratti meraviglia per la sua forza.
Arte di corpi ed emozioni, di Giuseppe Drago / Oggi-Sicilia / 27 marzo 1999
L’ensemble ravennate Fanny & Alexander ha allestito ieri sera ai Cantieri Culturali la casa delle meraviglie di Dorotea e Cipresso. Si accede in fila indiana nel piccolo teatrino barocco di metallo, un ovale contornato da alti scranni che separano e isolano. La voce fuori campo, metallica, d’automa, dello speaker di “Ponti in core”, accompagnala veloce ispezione dell’ambiente, nel quale la pausa di buio rende palpabili i due attori in carne ed ossa, l’aria di bambini maliziosi in un gioco di allusioni che subito si palesa per ampie metafore. E sono vecchie lettere d’amore che si spandono inutili, il gioco panico dell’azione svela subito i segni di un mondo sotterraneo, intramato di tensione corporea e psichica. Indicibili colpe e sussurrati turbamenti accendono la scena. L’azione teatrale, leggera e rallentata, si nutre di vaghi gesti allusivi, incrociando per ampi traslati di vaghezza espressiva la narrazione pulp della voce fuori campo. L’azione innocente del gioco si fa contraltare di angosce remote e palpitante. Un’atmosfera metafisica invade il teatrino. Il pianto prolungato e ossessivo accompagna una segnica minimale di eros e morte, sangue e confetti. E sono segni a fitta tessitura di un mosaico, in un moltiplicarsi di gesti cerimoniali che arrivano a suscitare emozioni. Dorotea è crudele e infantile, dolce e sadica, deambula come in stato di trance, mentre l’accumularsi degli oggetti satura la scena. A tratti ricordano Fando e Lis, la giostra panica di Arraval, ma presto la cifra della pièce del duo ravennate si rivela nella matrice dell’arte del corpo, della moderna figuratività, sicchè è in un tenero scoppio emozionale che si esterna sulla scena un’inquietante angoscia di vivere. E prendono corpo rempti tarli della psiche, ansie e desideri, con un’eco palpabile rivisitazione del mondo di Alice.
Un gioco di carte in un teatrino di piccole meraviglie e nonsense, un prolungato gioco di estranazione oggettuale, con un crescendo che trova nel finale un allucinato e impressionante climax. L’iperrealismo conclusivo – che da solo merita il prezzo dell’ingresso – di chiusura versa in teatro le ultime tendenze dell’arte moderna, e suggella il tutto con lirico senso di morte, metaforicamente abbracciata sciogliendosi in natura, incredibilmente oltre il disgusto degli insetti vivi. I testi di Lewis Carroll sono immediatamente più riconoscibili dei brani della poetessa russa Marina Cvetaeva, ma si svelano a tratti con i segni della loro inimitabile “semplicità primordiale e barbarica”, di “ribelle fatalismo”, in sintonia con lo stile emotivo ed espressionistico della pièce. Poco più tardi, contro la parete dell’intonaco scrostato dello spazio ’97, Andrea Facciocchi in camicia bianca e scarpe da tennis, versa fin dalle prime battute con dolorosa veemenza l’acido sentimento del calvario del tossico nella notte marcia. È l’aspro monologo di Giovanni Testori, “In exitu” – in unica replica ancora questa sera – che fin dalle prime battute si annuncia forte, di grida e lamenti, di parola martoriata come il corpo, nel quale come i lai femminili (Cleopatràs, Erodiàs e Mater Strangosciàs) che ne compongono il testamente teatrale, Giovanni Testori fonde latino, lombardo e francese, la sconcertante e provocatoria espressione di una profonda religiosità. E Andrea Facciocchi – diretto da Michela Blasi Cortelazzi – non risparmia le corde vocali, mescolando alla recitazione una sofferenza intensamente corporea, tagliate da lampi di ironica e beffarda denuncia sociale.
Teatro e musica in scena, di Ugo Volli / La Repubblica / 4 dicembre 1998
Fra i gruppi dell’ultimissima generazione teatrale, i ravennati Fanny & Alexander sono uno dei più importanti, forse il più capace di fascino. Anche quest’ultimo lavoro, limitato a soli ventiquattro spettatori per volta, colpisce innanzitutto per la sua costruzione visiva: tutto si svolge in un teatrino barocco, che sotto il lusso di un tessuto rosso rivela un’aggressiva anima di metallo. Qui è in esposizione il cuore, oggetto di culto, di sentimento e di anatomia, dove vivono due fanciulli, dai poetici nomi di Cipresso e Dorotea, che per raccontare l’Amore, o anche solo un grande amore, scelgono la strada avventurosa di un passaggio per la propria morte. Ampolle di sangue, cuori estratti dal petto, lettere d’amore, carte da gioco col seme dei cuori, suoni e circolazione sanguigna cospirano a comporre un’immagine di grande raffinatezza formale.
Ponti in core, di Henrike Thomsen / Berliner Zeitung / ottobre 1998
All’inizio di una rassegna di giovane teatro italiano al Podewil Fanny & Alexander questo fine settimana ha sorpreso il pubblico berlinese con charme. Siamo stati cortesemente introdotti alla prima tedesca di Ponti in core in un piccolo teatro di lamiera zincata rivestito di rosso scuro, che era collocato nel foyer si può dire come cuore cavo dell’allestimento. (…)
Un sonoro di rumori d’ambiente e della suite Peer Gynt di Grieg crea qui per magia l’atmosfera incantata del cimitero protestante a Roma – senza gatti, ma in compenso con grilli dorati. La storia di Dorotea e Cipresso, che la giovane coppia di attori sviluppa come in trance, disseziona beffardamente l’ideale romantico dell’amore. Causa della morte: mancanza di cuore. In un gioco sferico e denso di fisicità, che si comprende anche senza capire il testo, i due si inebriano di un qualche odore di malinconia facile e si perdono in rituali narcisistici.
“Ponti del cuore [Herzbrùcken]”, come suona il titolo tradotto alla lettera, quindi legami reciproci e portanti, rimangono impossibili. Piuttosto Dorotea e Cipresso nella loro posa addolcita fino al limite del disgusto da grilli e violini, si portano l’un con l’altra alla tomba.
E gli spettatori hanno appena osato disturbare la poesia ironica di questo quadro finale con gli applausi.
Imponderabile “Ponti in core” di Fanny & Alexander, di Giorgio Cantoni / Il Piccolo / 8 agosto 1997
(…) Suggestioni e citazioni, da Bergman, Gozzano, la Cvetaeva a Georg Trakl, e infine la famiglia Addams. Gli spettatori aspettano fra i cipressi, nella penombra nebbiosa lunare, un maestro di cerimonia che, ad uno ad uno, li introduce nei loculi verticali di un teatrino ovale molto raccolto. Lentamente, si materializzano due voci, e poi i due bambini – fantasmi – attori – visioni oniriche iniziano i loro riti propiziatori, in una dimensione irreale e astratta di giochi e di voci intrecciate, come gli intricati meandri dei ricordi di un sogno dal significato oscuro. Si parla di amore, di cuore, di lacrime e di morte, di rosso e di nero, di insetti dorati sensibili alla fascinazione del posto e del dilatato momento del trapasso.
C’è la possibilità che questi tableau vivant siano ricreati a posteriori negli anfratti della coscienza degli spettatori, durante dei sogni agitati in piena peristalsi gastrica, in un andirivieni di attrazioni e di repulse fra eros e thanatos, fra epidermide virginale, scaglie chetinose e nonsense. Alla fine, ci si stacca dai loculi, e in silenzio ci si avvia fra i nebbiosi cipressi, a rivedere le stelle. Imponderabile.
“Core” sofferente e claustrofobico, di Gian Paolo Polesini / Il Messaggero Veneto / 7 agosto 1997
Prove generali per quel maledetto giorno. Dentro nel loculo. Oh, povero spettatore, inserito tuo malgrado nel macabro gioco di morte di due fanciulli che dovrebbero gioire ancora con Lego e invece s’addentrano là dove il buio è silenzioso. Il percorso prosegue. In quel teatro dai mille tentacoli, pronti a risucchiarti, stabilendo – forse – un allarmante contatto, avvolgendoti di tutto il bene e, soprattutto, di tutto il male del mondo. Un teatro che ama le lacrime. La sofferenza, perverso, pure, introspettivo, fin troppo, che vorrebbe raccontarti tante belle cose, fartele sfiorare, accarezzare, assaporare. Poi, chissà perchè, si chiude in sé stesso, quasi geloso dei suoi segreti.
Oh, povero spettatore. Che pensavi di attraversare i “Ponti in core”, magari sospeso tra due granitici sostegni di emozioni, che credevi di sentire tutta la vitalità del tuo e del loro cuore, ti ritrovi in un cimiterino avvolto dalle nebbie in un San Giorgio dai lugubri contorni. Cipressi conficcati in platea, grilli, angoscia. Te ne stai lì a comprimere la tua voglia di fuga. Poi ti chiamano. Venite, venite. Salite la scala che separa la vita dalla morte, entrate nella tomba di Cipresso e Dorotea. A uno a uno i 24 vivi, come surgelati caldi, vengono spinti dentro loculetti di ferro, l’uno appresso all’altro. Buio.
Vorresti che un ventilatore ti spiaccicasse in faccia tutta la sua potenza. Mentre lo pensi è ancora buio. Angoscia multipla. Se Fanny & Alexander volevano creare l’atmosfera, ci sono riusciti. Col rischio di farti soffocare, ma ci sono riusciti. Finalmente un fioco riflettore ti corre in aiuto, dandoti una ragione di respiro. Se la luce proviene da fuori, ci sarà un buco, in questa sorta di arena formato scatoletta di Simmenthal. Resisti. È tale il disagio da perdere il contatto con quello che avviene al centro di questa scena. Sai solo che una voce asfissiante ripete frasi illogiche, sempre quelle, in italiano e in inglese. La gestualità di Cipresso e Dorotea è ai confini della sopportazione. Tutto è insopportabile. Anche quella sedia posta esattamente davanti all’unica uscita. Un monito a startene nel tuo loculetto. Violenza. Sì, violenza. Vogliamo fare gli spettatori, non le cavie. O se cavie dobbiamo essere, stupiteci, fateci vibrare, coinvolgeteci. Macchè. Nessuno palpito, solo quello di un cuore elettronico. E di suggestioni inutili. E di nevrotiche apnee della mente. Ne usciamo spossati, spaventati. E non certo per una cassettina di schifosi insetti che schizzano fuori e trotterellano in giro per la tomba. Ma per un teatro epilettico, dannoso. Che non ha veramente nulla da raccontare. Se non un’angoscia da scatola di montaggio.
Un delicato epitaffio funerario, di Paolo Patui / Il Gazzettino / 7 agosto 1997
All’inizio c’è nebbia e silenzio, cipressi “alti e snelli”, scricchiolii sommessi e sussurrati di grilli nascosti, invisibili. Si respira così questa bruma soffusa, nella morbida attesa di essere introdotti in un inusuale spazio per il teatro, per il rito, per la liturgia. Disposti a ellisse, 24 scranni ospitano altrettanti spettatori, serrati in alte pareti, ficcati, volenti o nolenti, in questi anfratti metallici così simili a casse da obitorio: poi il buio. Fino alla comparsa silenziosa, in postura, di Cipresso e della Dorotea “del cuore Blu”, descritta in una macabra seicentina, quasi statue di altri secoli, sguardi vitrei ma sorridenti, poggiati nel nulla.
Dorotea e Cipresso giocano nella loro casa, questa sorte di muscolo pulsante dentro cui siamo chiusi, questo cuore irrorato di sangue e suoni, di allusioni necrofile e di gesti sacrificali. Giocano a vivisezionarsi, ad aprire tagli, fessure invisibili nel nostro muscolo cardiaco, in un collage di testi che supera la citazione e approda nella poesia. Qui c’è spazio per frammenti di reliquie, per una sorta di feticismo nei confronti dei piccoli oggetti della necrofilia: la spazzola per pettinare un cadavere, i bianchissimi confetti avvolti in un tulle nero, lo scrigno che si apre su un brulicare di insetti di ogni tipo. Ma non c’è nessuna ricerca di effetto macabro: le movenze ieratiche, il salmodiare del testo, che si rifà a Carmelo Bene, smorzano ogni velleità pulp. In realtà questo muscolo di cui siamo ospiti, è uno sciorinare di carte di cuori, uno sgocciolare di infusi colorati e di lettere d’amore, sfiorati con la leggerezza di un adolescente alle prese con il gioco della vita e della morte, perchè tanto poi, finita l’adolescenza, il nostro cuore diviene arido e secco muscolo, privo di palpiti e di vita. E questo gioco di chirurgie, di autopsie cardiache è perfettamente condensato in una ricorrente frase strappata alla Marina Cvetaeva di Album Serale: “Niente è più grosso e più dolce di due fragole di cimitero. Pon(ni)ti in core, che prende spunto per titolarsi da Leonardo da Vinci, è proposto al Teatro S. Giorgio di Udine all’nterno del Festival “Gli spazi del teatro”, da Fanny e Alexander, uno dei gruppi più stimolanti e discussi della ricerca teatrale degli anni ’90. Di certo ci offre suggestioni e stimoli, ci avvolge in una struggente atmosfera di decadenza e di macerazione, ma fatica a scavalcare l’ostacolo del coinvolgimento emotivo: un delicato epitaffio funerario che ci stupisce per la sua misteriosa inquietudine, ma che non sempre il nostro cuore sa toccare.
Una complessa “liturgia” che suscita stupore ma blocca le emozioni, di Monica Berzacola / L’Arena / 16 giugno 1997
Un microcosmo perfetto, lontano da ogni tentazione, da ogni allusione alla realtà. Lo spettacolo Ponti in core, presentato agli ex Magazzini Generali all’interno della rassegna di teatro contemporaneo organizzata da Interzona creato da Francesco Borghesi, Stefano Cortesi, Luigi De Angelis e Chiara Lagani, in arte Fanny & Alexander, si manifesta in un ambiente chiuso e asettico, una camera ovale in cui 24 spettatori assistono ai rituali di due inquietanti bambini, Cipresso e Dorotea.
Il cuore, tema che si sviluppa attraverso le loro pose, le loro voci modulate, l’insieme degli oggetti blanditi e offerti al pubblico, è quasi una chimera, un sogno, un desiderio.
Spettatori silenziosi, assistiamo immobili al susseguirsi di simboli avvicinati più per assonanza che per il loro significato, carte da gioco, lettere d’amore, un infuso colorato, piccoli centrini, un giardinetto in miniatura, e infine, una scatola magica da cui scaturiscono brulicanti insetti dorati. Incasellati perfettamente, parole e oggetti, negati i loro significati primari, sono come un ricordo lontano di cui difficilmente distinguiamo i dettagli.
La complessa liturgia, scandita da rumori e voci fuori campo, ci porta lontano dagli affetti, lontano anche dal sentimento di morte continuamente associato al muscolo della vita. E’ un teatro che con la vita ha poco da spartire, in fondo, una splendida ed evanescente immagine, decorata (solo decorata) dai versi di Marina Cvetaeva. Rimane deluso chi cerca oltre allo stupore, all’inquietudine di un rito misterioso, emozioni o sentimenti che trascendano il decadentismo dell’opera.
Un gelido nulla rimane al posto del cuore, tante volte evocato.
Ponti in core, di Franco Quadri / La Repubblica / 17 marzo 1997
(…) Il falso si perpetua nel delizioso Ponti in core di Fanny & Alexander dove una coppia bambina, in un teatrino anatomico per ventiquattro guardoni, celebra favolistici riti funerari con l’incubo voglioso di un cuore da strappare, tra oggetti biedermeier, coretti registrati e invasioni di grilli dorati (…).
Fanny e Alexander 1997, Ponti in core, di Lucy Boom / Scanner / 1997
Gli spettatori sono timorosi, e quasi in punta di piedi entrano ad uno ad uno, accompagnati da un impeccabile maestro di cerimomia, nella casa delle meraviglie, cuore pulsante ed inquietante. Una scatola metallica, con tanti cassetti e ventiquattro scranni ben separati uno dall’altro. Ponti in Core è un evento teatrale per ventiquattro spettatori all’interno di un’ingegnosa costruzione, arena ovale o teatrino anatomico, in cui i due protagonisti danno vita a piccole e morbose liturgie, a macabri e ironici rituali, scanditi da rumori e voci fuori campo.
E’ proprio vero, alla morte si va incontro da soli. In Ponti in Core di Fanny e Alexander siamo però al cospetto di una morte particolare, un annullamento che passa attraverso il gioco, il non sense, il rito, e che per un paradossale ribaltamento diviene arte, diviene vita. Cipresso e Dorotea, con gestualità e vocalità raffinatissime, estetizzanti, sciolgono nastri rossi, si cibano di bianchi confetti, si ricoporono di insetti dorati. Ogni sera espongono la loro macabra passione, il loro voluttuoso e insanabile desiderio.
Lo spettacolo di Fanny e Alexander è una continua mise en abym, parole evocano altre parole, suoni rimandano ad altri suoni, colori sfumano in altri colori, per un incessante incastonarsi di ludus e poesia. Gli spettatori, immobili, assistono al rincorrersi dei simboli e dei suoni, significato e significante si allontanano, prevalgono l’affinità cromatica e sonora, l’incanto e la meraviglia. Qualcuno, smarrito, uscendo si chiede: “Dov’è il teatro?” Forse abbiamo dimenticato che il teatro può essere anche voci sommesse e non solo parole gridate, dilaniarsi infinito ma silenzioso, gioco accattivante e crudele, che arriva alla mente e al cuore.
Macabri riti infantili, di Renato Palazzi / Il Sole 24 ore / 6 ottobre 1996
Stiamo vivendo, più o meno consapevolmente, una fase di attrazione per il nuovo, una aspettativa di inevitabili avvicendamenti generazionali già anticipati e celebrati e posti in luce da un’interminabile serie di rassegne e festival dedicati ai gruppi giovani e giovanissimi. Fra questi, qualcosa in più di molti altri dal punto di vista della maturità stilistica, dell’estro poetico e di un assai promettente spessore culturale sembra avere “Fanny & Alexander” di Ravenna, col suo universo dalle evidenti radici figurative e plastiche sorrette tuttavia da penetranti suggestioni letterarie.
“Fanny & Alexander” viene non a caso da una zona ricca di fermenti, la zona di “Ravenna Teatro”, del “Teatro della Valdoca”, della “Raffaello Sanzio”. Un paio di mesi fa ha presentato a Santarcangelo Con mano devota, singolare performance-installazione, affascinante itinerario fra raffinatissimi totem lignei e reperti elegantemente ossessivi, bacheche con insetti vivi, enormi cuori pulsanti. Il tema dei cuori torna anche nel nuovo spettacolo che i ragazzi romagnoli, poco più che ventenni, hanno allestito in un capannone industriale alla periferia di Ravenna, Ponti in core, titolo che rimanda a Leonardo.
Il clima di notevole invenzione dello spettacolo inizia dall’ingegnosa costruzione dello spazio, arena ovale o teatrino anatomico in cui gli spettatori si siedono su alti scranni tutt’attorno, con una strana sensazione di rito non condiviso, mentre in mezzo, in una sorta di bacheca-sepolcro, i due interpreti danno vita a piccole e morbose liturgie tra ironiche e funeree, scandite da un testo per lo più registrato che attinge a Lewis Carroll, a Marina Cvetaeva, a Collodi, a fiabe e leggende dell’immaginario popolare.
Anche qui, come nel precedente lavoro, al centro dell’azione sono due inquietanti bambini, anche qui c’è una specie di casa-sacrario dove è esibita ai visitatori la vicenda di Dorotea e Cipresso: vicenda di cuori estratti dal petto, di ampolle di sangue, di improbabili prodigi intelligentemente evocati per segni allusivi, una macabra tazzina da bambola piena di sinistro tè azzurro, uno specchietto e una spazzola da morticina, e i guantini di pizzo nero, le coltivazioni di fiorellini cimiteriali, fino al folgorante finale in cui grilli dipinti d’oro escono da una scatola e camminano sui cadaverini addormentati dei protagonisti.
“Ponti in core”. Quando i fanciulli si addentrano nel gioco della morte, di Paolo Ruffini / Liberazione / 1 ottobre 1996
Lontano dai clamori dei festival, in una stagione teatrale ancora da iniziare, debutta Ponti in core il nuovo lavoro del giovane gruppo Fanny & Alexander, al Centro di formazione professionale Benedetti, nella zona industriale della città denominata Bassette. Se il precedente spettacolo Con mano devota manteneva nella sua forma di installazione vivente un tempo dilatato che ripeteva la struttura dell’intervento artistico all’infinito, con Ponti in core si recupera uno spazio e un tempo più vicino alla forma spettacolo che si intensifica in una struttura di lamiere e legno. E’ un teatrino anatomico che si trasforma in teca da esposizione di reliquie e che sceglie la tragedia, orfana del mito, di due fanciulli che si avventurano nel gioco della propria morte per raccontare un grande amore. Giovane compagine, si diceva, ma dal curriculum nutrito. Si entra dunque in una struttura pensata come una piccola arena da laboratorio di autopsie, con gli spettatori – ventiquattro a rappresentazione – posizionati lungo gli incavi delle pareti dell’ovale, così da figurare, nel gioco della semioscurità, rudimentali e antichi bassorilievi. In questo modo anche lo spettatore sembra diventare una delle forme dello spettacolo. D’altronde la sua composizione formale, in questo teatrino da camera, è influenzata dalle arti visive; anche quando l’azione e la recitazione prendono il sopravvento sulle soluzioni evidentemente riconducibili alla body art. Nel frattempo una voce fuoricampo, con la scansione di un’informazione pubblicitaria, si mescola alle parole di due fanciulli. Sono parole sempre filtrate e amplificate, nella cifra stilistica che Fanny & Alexander persegue da anni. Quella voce ci avverte di un evento che sta per accadere, esprime un dolore di una storia che ha la caratteristica di un sentimentalismo amoroso strisciante e celebra solo se stesso per far muovere i due personaggi, Cipresso e Dorotea, in quel sacrario di organi come miniature da collezione. Deambulanti e senza pudore. In questo teatrino si assiste alla vivisezione di un corpo umano per strappargli il cuore. Lo spettacolo dichiara una freddezza di maniera ma in grado di suscitare una forte emozione; una freddezza che tiene conto comunque di una lucidità di tempi teatrali nella sua combinazione dei silenzi. Interlocutori ieratici di una comunicazione che passa attraverso l’agire in pose plastiche del corpo e una perfetta modulazione della voce (che tanto omaggia Carmelo Bene). De Angelis e Lagani danno vita a due dolcissimi personaggi che proprio nell’innocenza trovano conforto per i reciproci sadismi. Scoprono le carte da gioco di Carroll, si ispirano al verso poetico di Marina Cvetaeva quando recita: “niente di più grosso e di più dolce di due fragole di cimitero…”. E’ il riportato come refrain privo di significati in quella voce fuori campo che continua la propria ossessione del cuore.