NINA


performer Claron McFadden | ideazione, regia e luci Luigi De Angelis | drammaturgia e costumi Chiara Lagani | creazione musicale Claron McFadden e Damiano Meacci (Tempo Reale)| musica elettronica e sound design Damiano Meacci| fotografia Enrico Fedrigoli | coaching Andrea Argentieri percussions Adama Gueye | promozione e management Marco Molduzzi | organizzazione Martina Barison, Maria Donnoli, Marco Molduzzi| comunicazione Maria Donnoli| produzione E Production/Fanny & Alexander, Muziektheater Transparant | co-produzione IRCAM / Centre Pompidou (Paris), Festival d’Automne à Paris, Romaeuropa Festival


NINA è un omaggio alla vita di Eunice Kathleen Waymon, cantante, pianista, scrittrice e attivista per i diritti civili, conosciuta dalla maggior parte delle persone con lo pseudonimo di Nina Simone. La pluripremiata soprano americana e interprete Claron McFadden, partendo dai documenti audio di interviste radiofoniche e televisive e discorsi pubblici, compone un ritratto mimetico completo dell’artista Nina Simone. Grazie alla tecnica dell’eterodirezione, elemento chiave della poetica di Fanny & Alexander, Claron McFadden ne abita la voce, testimoniando le svariate manifestazioni della forza del suo carattere e spirito creativo, attraversando i momenti più salienti della sua parabola, dalla tensione poetica alla lotta per i diritti delle donne e degli afroamericani, svelando le sue fragilità e ferite più intime.

TOUR

4-5 novembre 2023 – Romaeuropa Festival, Mattatoio, Roma DEBUTTO
1-2 dicembre 2023 – De Singel, Antwerp (BE)
13-16 dicembre 2023 – Festival d’Automne à Paris, IRCAM, Parigi (FR)
18-19 maggio 2024 – Festival Presente Indicativo | Milano Porta Europa, Piccolo Teatro, Milano (IT)
20-21 maggio 2024 – O. Festival, TR25 Schouwburg, Rotterdam (NL)
11 giugno 2024 – Ravenna Festival, Teatro Alighieri, Ravenna (IT)
21 giugno 2024 – Festival D’Aix-en-Provence, Pavillon Noir, Aix-en-Provence (FR)

[ph. Enrico Fedrigoli]

RASSEGNA STAMPA

LAURA ZANGARINI, LA LETTURA – CORRIERE DELLA SERA
EMILIANO METALLI, BANQUO MAGAZINE
SERGIO LO GATTO, TEATRO E CRITICA
PETER VANTYGHEM, DE STANDAARD
GIULIA STORCHI, ITINERARI NEL PRESENTE INDICATIVO
CRISTINA TIRINZONI, LUCEWEB
ANNA PASSATORE, FERMATA SPETTACOLO
PHILIPPE MANGEOT


Una voce per dare voce ai neri, di Laura Zangarini | La Lettura – Corriere della Sera, 22 ottobre 2023

Germaine Greer, scrittrice e giornalista australiana, voce tra le più importanti del movimento femminista, sosteneva che “ogni generazione deve scoprire Nina Simone. Lei è la prova che il genio femminile esiste davvero”. La cantante di Mississippi Goddam, uno spartiacque nella storia della musica di protesa nera, è al centro di Nina, nuova produzione di Fanny & Alexander, compagnia teatrale fondata nel 1992 da Chiara Lagani e Luigi De Angelis, in prima nazionale a Romaeuropa Festival (4-5 novembre, Mattatoio).

Interpretato dalla performer e soprano americana Claron McFadden, Nina è un omaggio a Eunice Kathleen Waymon (21 febbraio 1933 – 21 aprile 2003), cantante, pianista, scrittrice e attivista americana per i diritti civili, uno dei talenti più indomabili della musica del XX secolo. Sin da piccola, Nina ad essere “la prima pianista classica nera”. Canta con la sorella nel coro della chiesa in cui la madre è predicatrice, ed è così dotata che la comunità mette insieme una borsa di studio per mandarla a New York e farla studiare alla Juilliard, tra le più prestigiose scuole di arti, musica e spettacolo del mondo, in attesa dell’ammissione al Curtis Institute of Music di Filadelfia, dove è sicura che la prenderanno visto che è così brava. Nina fa un’ottima audizione ma sarà respinta, racconterà in seguito la cantante, perché “nera” (due giorni prima della sua morte, il Curtis le conferirà una laurea honoris causa).

“Parliamo di una figura che convoca, oltre alla questione musicale, l’utilizzo della parola, tramite il canto e le interviste per sostenere anche un discorso anche politico – spiega De Angelis, ideatore e regista del progetto – . A undici anni, nel sud America di Jim Crow degli anni Quaranta, Nina incontra il pregiudizio razziale. Fino ad allora ha vissuto “protetta”. Ma durante il primo recital di pianoforte nella sala del municipio di Tyron, Carolina del Nord, i suoi genitori, vestiti a festa per la serata, dalla prima fila vengono spostati in fondo alla sala per accogliere una coppia bianca. Nina si rifiuta di suonare fino a che non saranno fati ornare al loro posto. Quest’episodio condizionerà la sua vita. Negli anni Sessanta, quando il movimento per i diritti civili per i neri la coinvolge, ne farà emergere l’indignazione e l’energia, l’incrollabile posizione a favore della libertà e della giustizia per tutti. Attributi che la consacreranno come una pioniera e leader ispiratrice del movimento “.

Nina decide di portare avanti un discorso politico attraverso le canzoni: Mississippi Goddam diventa un inno per i diritti civili, ne è l’esempio più cristallino. Scritta in meno di un’ora, è la risposta rabbiosa e lucida all’omicidio nel 1963 dell’attivista e politico statunitense afroamericano Medgar Evers in Mississippi, e all’attentato a sfondo razzista in cui rimasero uccise quattro bambine nero, avvenuto nello stesso anno alla 16th Street Baptist Church di Birmingham, in Alabama. “È soprattutto questo periodo quello che lo spettacolo intercetta – spiega De Angelis – . Ho pensato a Claron McFadden come interprete perché per trovare la sua voce, in quanto donna, cantante, nera ha dovuto spostarsi dagli Stati Uniti all’Europa, in Olanda. È un’interprete eccezionale, può passare da Monteverdi a Rameau, allo sperimentalismo più audace. Trovo che Nina e Claron condividano alcune similarità, su tutte quella di aprire il canale del cuore durante il canto. Claron, come Nina, non ha paura di veicolare le emozioni attraverso il canto: pur possedendo una tecnica incredibile, riesce a commuovere, a toccare interiormente”.

Grazie alla tecnica dell’eterodirezione, e a partire da documenti audio, interviste radiotelevisive e discorsi pubblici, McFadden compone un ritratto a tutto tondo di Nina Simone, che consente una connessione profonda e intima con il mondo interiore dell’artista, abitandone la voce e testimoniando le complesse manifestazioni della forza del suo carattere e spirito creativo. “Ancora oggi, ascoltandola a occhi chiusi, puoi capire dalla sua voce quanto questa donna sia stata ferita – riflette De Angelis -. Una ferita che riesce a far parlare, a esprimere, tramite quel meraviglioso mezzo espressivo che è il canto” .

“Nina Simone – interviene McFadden – ha trasmessa la sua visione del mondo in cui viveva attraverso la musica, prima come pianista classica e poi come interprete. La sua eredità multiforme è aperta a molte interpretazioni. Per me, che abbia incanalato il suo genio in una forma che non era la sua intenzione originaria, è qualcosa che non andrebbe mai dimenticato”. Per il soprano USA, è difficile avere un’opinione sulla cantante e militante per i diritti civili dei neri “che non sia intrisa di mito e leggenda metropolitana. Non sono cresciuta con la sua musica – precisa -, ne avevo sentito parlare. Ma a quel punto era già una “combattette per la libertà” musicale, e forse non le veniva concesso spazio in radio a causa della sua visione “militante” degli Stati Uniti. Ho scoperto davvero Nina Simone quando mi sono trasferita in Europa, dove ha avuto una rinascita con My Baby Just Cares For Me, che in realtà era l’unica sua canzone che conoscevo dalla mia giovinezza. Ora la riscopro attraverso questo progetto, una drammaturgia che interseca brani dall’autobiografia di Nina Simone, I Put My Spell On You. Ma non è un biopic, e non “reciterò” Nina Simone. Sarò presente, la voce che parla e canta sarà la mia. Mi vedo però più come un “contenitore” attraverso cui Nina condividerà le sue parole e la sua arte, oggi ancora urgenti e attuali”. Una condivisione in cui convergono anche le ferite della discriminazione razziale. “Vedo gli Stati Uniti come un arazzo intessuto con il filo della disuguaglianza, dell’iniquità – considera McFadden -. Solo disfarlo completamente risolverebbe il razzismo. Ma è purtroppo impossibile. Allora devo ricordare a me stessa che gli Usa sono un Paese costruito da persone provenienti da molti altrove”.

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Strepitosa Nina!, di Emiliano Metalli | Banquo Magazine, 7 novembre 2023

Non è scontato riuscire a condensare con chiarezza e magnetismo l’esperienza artistica e biografica di un’icona. Il confronto, poi, con un colosso come Nina Simone è, forse, un rischio ancora più grande. Per questo è stata una fortuna riuscire ad assistere alle repliche durante il REF 2023 di questa strordinaria performance che rende omaggio a una delle più complete musiciste del Novecento. Non a caso il pubblico che animava la sala, pubblico festivaliero per estetica e plurilinguismo, ha seguito ogni istante senza distrazioni: nessuno squillo inopportuno, nessuna luce azzurrina a bagnare volti di annoiati abbonati, nessuna sveglia di tarda sera che ricordasse l’impegno da dimenticare. Disparati e anche un po’ eccentrici, questi sono i pubblici festivalieri, ma certamente attenti e dediti: merce rara, al giorno d’oggi.

Essenziale per apprezzare uno spettacolo emotivo, ma complesso al tempo stesso. Perché complessa ed emotiva al tempo stesso era Nina Simone. La sua ricchezza espressiva e la sua complessità brillano nella sovrapposizione di piani (intesi come superfici giustapposte e compenetranti) che la rendono appunto preziosa e sfaccettata come un diamante: musica e politica, pensiero e azione, identità e libertà, genere e razza. Sono solo alcuni dei piani che si intersecano nella sua vita e nella sua arte, come brillantemente ci suggerisce questo spettacolo.

Artista concreta e spesso scomoda: la ricerca di giustizia ha pesato sulla sua carriera e sulle sue canzoni, a volte ignorate da alcune stazioni radio, soprattutto nel periodo più infuocato dell’attivismo razziale e femminile. Basterebbe ricordare soltanto Mississippi Goddam, scritta in reazione all’omicidio di quattro ragazze in un attentato a sfondo razziale ed eseguita per la prima volta nel 1964 e l’indimenticabile ‘interpretazione di Pirate Jenny, brano tratto da L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht in cui è evidente l’invito alla rappresaglia come mezzo di lotta contro il razzismo.

Ma non si può cancellare dalla memoria la sua forza di volontà esemplare, il senso di giustizia che, appena dodicenne, le permette di costringere gli organizzatori (bianchi) di un concerto in cui era l’artista principale a fare sedere i propri genitori in prima fila, osteggiando le leggi razziali che impedivano ai neri una posizione privilegiata in una sala destinata ai bianchi. Sfuma il sogno di divenire concertista classica, ma nasce, dalle ceneri di questa fenice, una cometa della musica mondiale.

Claron McFadden, Luigi De Angelis, Chiara Lagani e Damiano Meacci prendono questo materiale incandescente e lo plasmano, ognuno secondo il proprio ruolo, liberamente, senza preconcetti e senza sponde, per raccontare attraverso le suggestioni una porzione della vita di questa donna inarrivabile. Così parole (catturate da discorsi e interviste e mescolate insieme), canzoni (selezionate nel vasto repertorio e riproposte in una veste inedita e originale, distorte, asciugate, sintetizzate o espanse), suoni (reali e irreali, presenti e remoti), luci (calde, gelide, distaccate o avvolgenti) e movimenti (spezzati, violenti, idealizzati) concorrono a dare corpo all’anima agguerrita di Nina, a tratti spaventosa per il baratro che sembra spalancarsi dai suoi occhi, dai suoi gesti, dalle sue pause. Una performance che trasferisce lo spettatore altrove, lo sconvolge, gli regala un sorriso e una lacrima, e poi lo abbandona, esausto, in una realtà che ha ancora tanti limiti e tante barriere per cui combattere, come ci insegna lei, Nina. Un incantesimo che si manifesta grazie soprattutto al talento e al controllo tecnico a servizio dell’espressività della protagonista: Claron McFadden, strepitosa.

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NINA (Fanny & Alexander), di Sergio Lo Gatto | Teatro e Critica, 18 novembre 2023

Quello dei ritratti mimetici di Fanny & Alexander è un progetto che ha tratto visibilità grazie al grande successo di Se questo è Levi, vincitore di due Premi Ubu e ancora in vasta distribuzione dal 2018. Ma si può individuare il battesimo nel bizzarro To Be or Not To Be Roger Bernat, quando una conferenza su Amleto era il pretesto per l’inquietante sprofondare nella biografia e nella fisionomia dell’avatar di una persona realmente esistente, distante ma presente. C’è stato Manson, dove il pubblico interroga, post-mortem, il supercriminale, il quale risponde seguendo la traccia delle molte interviste rilasciate in vita. E però, ancora più indietro, c’è tutto il sopraffino lavoro sull’eterodirezione, ormai metodologia immancabile nel lavoro di Luigi De Angelis e Chiara Lagani, che manda nelle orecchie degli/delle interpreti tracce vocali delle voci originali, sperimentando una radicale via altra a metà tra mimesi, possessione e un teatro di figura esistenziale à la Kantor. Non si può prescindere da questa piccola storia (ancora in divenire) se si vuol comprendere che cosa accade in Nina, in prima assoluta a REf 23, in cui la splendida Claron McFadden(agiva anche in The Garden) veste i panni, le movenze e la voce di Miss Nina Simone, profeta della protest song statunitense e sacerdotessa della lotta di classe degli afroamericani. In un “concerto impossibile” tra inglese e italiano, parlato e cantato, Nina apostrofa il pubblico da una sorta di Aldilà. La «creazione musicale» è firmata da Damiano Meacci che realizza, con una sorprendente spazializzazione, un paesaggio sonoro ellittico: la sezione ritmica è quasi esclusa e la voce insegue un grumo di frequenze che va su e giù di volume, eseguendo, diretta in cuffia, un vero e proprio esperimento negromantico. È possibile rivedere in scena personaggi che non ci sono più? Sì, se quei personaggi hanno lasciato sufficienti documenti del proprio passaggio sulla Terra. E se Fanny & Alexander vede in loro un possibile lascito della storia di tutte e tutti noi.

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Nina Simone rinasce al deSingel, di Peter Vantyghem | De Standaard, 30 novembre 2023

‘Cosa ci direbbe Nina Simone oggi?’. Per rispondere a questa domanda, Luigi De Angelis avrebbe potuto realizzare un film o creare un ologramma, ma il regista ha optato invece per la mimesi. Come talvolta vengono ricostruite le grandi battaglie, desiderava che qualcuno reincarnasse Nina Simone sul palco. Al deSingel di Anversa il prossimo venerdì e sabato, Claron McFadden, soprano molto nota in ambito operistico, si calerà nell’anima e nello spirito di Nina. Nei suoi auricolari riceverà la voce originale di Nina Simone, cantando insieme a lei sulle note di ‘you slavers will know / what it’s like to be a slave’. ‘È come se stessi interpretando le sue stesse parole’, afferma McFadden. Inoltre, nel corso della performance, McFadden presenterà dei frammenti di interviste, che mettono a nudo la visione della vita di Nina Simone mentre sullo sfondo veniamo immersi nei suoni e nello spirito dei suoi brani. Allo stesso modo, la preghiera ‘West wind’, scritta da Miriam Makeba, viene accompagnata da percussioni africane. ‘Vogliamo che le persone non vedano Claron, ma Nina Simone’, afferma De Angelis.

Una seconda pelle
La tecnica dell’eterodirezione ha un chiaro vantaggio, sottolinea De Angelis: ‘Il performer non deve più preoccuparsi della memoria. Claron può concentrare tutta la sua energia nell’immedesimazione, è come indossare una seconda pelle. Ma non avviene così facilmente: è necessario che ci sia una forte connessione con la persona che si sta per incarnare’. McFadden interpreterà brani come ‘Four women’, ‘Mississippi Goddam’ e ‘Dam-bala’, nei quali Nina Simone all’epoca denunciava il razzismo di cui era vittima. La cantante avrebbe desiderato studiare musica classica, ma non fu ammessa al conservatorio di Philadelphia. Un trauma che McFadden, studiando a New York, riuscì a evitare. ‘Provengo da quella stessa tradizione’, afferma McFadden, ‘i miei antenati erano schiavi, sono nata nell’apartheid. Ma sono riuscita a fuggire in Europa, dove ho potuto vivere e lavorare libera dal razzismo. Questo progetto mi mette di fronte alle mie radici: riconosco come avrebbe potuto essere la mia vita e vedo in Nina la tragedia degli Stati Uniti. Avrebbe voluto cantare più canzoni d’amore, ma divenne il volto della lotta per i diritti civili. Il fatto che mi colpisca così profondamente significa che non sono completamente sfuggita al mio passato’.

Séance (Seduta spiritica)
Come interpretare artisticamente questo approccio? Conosciamo le cover, l’improvvisazione, ma questo è diverso. ‘Claron permette a Nina Simone di entrare veramente, non a livello cognitivo, ma nella parte più remota del suo cervello’, dice De Angelis. Lo definisce un ‘canale di comunicazione’. McFadden parla con cautela di una ‘seduta spiritica’: un incontro riservato in cui si comunica con gli spiriti. ‘Il teatro è un ottimo luogo per entrare in trance’, sostiene De Angelis, che ritrova somiglianze con i riti dionisiaci nel teatro greco e i rituali voodoo nella cultura haitiana. ‘Nel linguaggio odierno: Claron McFadden apre, ancora prima che il pubblico si sieda, un canale nel suo cuore per sentire la tragedia nella vita e nelle canzoni di Nina Simone’. McFadden aggiunge: ‘utilizzo le sue parole, il suo timing e la sua intonazione. Ho studiato bene la sua interpretazione di quei brani, e con gli auricolari lei è con me. Non la imito, ho il mio colore vocale, ma la sua energia passa attraverso di me. Mi sento come una “nave, e desidero che questa sia priva di tutto ciò che potrebbe contaminare ciò che porta con sé, come un ego troppo grande, il giudizio e la bravura tecnica. Voglio soprattutto essere umile per poter diventare un tutt’uno con lei’.

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NINA, di Giulia Storchi | Itinerari nel Presente Indicativo, 19 maggio 2024

Può il teatro riportare in vita un personaggio pubblico o un evento storico?
Dopo “Se questo è Levi”, e dopo il più recente “Manson”, la compagnia Fanny&Alexander prosegue a interrogarsi sulle potenzialità e sui paradossi della ricerca attoriale. Questa volta il punto di partenza è il concerto di Nina Simone a Montreux del 1976. Lo spettatore assiste così a una studiata concertazione di brani musicali e fotogrammi autobiografici di Eunice Kathleen Waymon, costretta poi ad adottare il nome d’arte di Nina Simone.
In scena la soprano Claron McFadden dà corpo e voce alla cantante afroamericana attraverso il dispositivo dell’eterodirezione, vero e proprio marchio di fabbrica di Fanny&Alexander: ascoltando in cuffia la voce di Nina, McFadden restituisce così le incertezze e i balbettii del parlato, situandosi a metà tra la restituzione mimetica e l’abbandono a una trance percettiva.
I fasci di luce rossi e blu che attraversano lo spazio scenico – il light design, come la regia, è firmato da Luigi De Angelis – seguono i movimenti dell’artista, illuminano non solo l’atto performativo in sé, ma soprattutto scandiscono le tappe di un percorso di progressiva consapevolezza politica. Nella condivisione della propria autobiografia, Nina ripercorre le tappe che la porteranno a diventare artista militante: dall’impossibilità di percorrere la sognata carriera da pianista di musica classica, ai concerti dedicati all’intera comunità afro-americana, la sua adorata «lost race». Mentre i tasti del pianoforte sembrano avere vita autonoma, Nina dedica con tenerezza al suo pubblico di elezione le strofe di “Black Is the Color of My True Love’s Hair”.
Ecco che la musica si configura dunque come spazio entro cui esercitare una militanza attiva per i diritti civili dei neri e per la lotta femminista, rivendicata dalle amicizie intessute con la drammaturga statunitense Lorraine Hansberry e la cantante sudafricana Miriam Makeba. Sul palco del Grassi, l’arrangiamento musicale di Damiano Meacci ricostruisce la sinfonia ritmica delle percussioni che accompagnano le parole di “Westwind”: la soprano si abbandona a una danza liberatoria sul ritmo concitato dei tamburi, che si accavallano vertiginosamente tra le parole del grido di speranza «unify us, don’t divide us».
La drammaturgia, firmata da Chiara Lagani, propone qui uno scarto: Claron sovrappone il proprio vissuto all’esperienza biografica di Eunice, mettendo in luce quanto il ripercorrere i passi dell’icona black costituisca oggi una potente sfida. «I have to live with Nina, and this is very difficult», confida. Spinta per necessità a emigrare in Europa per avviare la sua carriera di cantante d’opera, McFadden denuncia il tramonto di un’epoca di proteste che non è stata tuttavia in grado di estinguere il paradigma razziale, ancora vibrante in un’America reduce dall’apartheid. Un grido incapace di spegnersi nel silenzio, una battaglia che non conosce riposo: “Nina” offre agli spettatori l’eco di parole di lotta, nel tentativo di indicare la strada verso una libertà pura, scevra dalla paura.

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Straordinaria “Nina”. Lo spettacolo di teatro musicale dedicato a Nina Simone, di Cristina Tirinzoni | Luceweb, 28 maggio 2024

Una figura vestita di nero. Un pianoforte nero profilato di neon rossi. L’atmosfera fumosa disegnata dalle luci soffuse, magicamente catapulta lo spettatore in uno di quei locali newyorkesi degli anni ’60 in cui si esibiva quando lascia le chiese battiste della Carolina del Nord, dove sin da bambina cantava e suonava il pianoforte in maniera eccelsa. “Cos’è per me la libertà? Libertà è non avere paura. Solo questo. Non avere paura”. Magia del teatro. Ancora oggi vibra sul palcoscenico la voce, unica e irripetibile, di Nina Simone. Artista insuperabile. Ribelle. Donna. Nera. Simbolo e voce delle rivendicazioni dei diritti del popolo afroamericano negli anni più oscuri della segregazione razziale. Si, è accaduto. La leggenda del jazze del soul è apparsa al Piccolo Teatro Grassi di Milano (nell’ambito del Festival Presente indicativo), protagonista del nuovo spettacolo di teatro musicale Ninafirmato dalla compagnia ravennate Fanny & Alexander, per la regia di Luigi De Angelis che cura anche il suggestivo disegno luci, drammaturgia e costumi di Chiara Lagani, musica elettronica e sound design di Damiano Meacci e che andrà in scena l’11 giugno al Ravenna festival.
Non era scontato riuscire a condensare l’esperienza artistica e biografica di una leggenda come Nina Simone, nome d’arte in omaggio all’attrice francese Simone Signoret, scelto da Eunice Kathleen Waymon (1933-2003). La regia di De Angelis la racconta attraverso parole (catturate da discorsi pubblici e interviste e mescolate insieme), canzoni (selezionate nel vasto repertorio e riproposte in una veste inedita e originale, distorte, asciugate, sintetizzate o espanse), suoni (reali e irreali, presenti e remoti), luci (calde, gelide, distaccate o avvolgenti) e movimenti (spezzati, violenti,sinuosi) che concorrono a dare corpo all’anima agguerrita di Nina e a mostrarne anche le sue fragilità. A interpretarla, attraversando i momenti più salienti della sua parabola biografica e artistica, il pluripremiato soprano americano e performer Claron McFadden. In un modo che va oltre la rappresentazione mimetica, perché quella di McFadden è una sorta di possessione. Al crocevia tra tecnologia e magia. Grazie alla tecnica dell’eterodirezione, Claron McFadden utilizza gli auricolari per connettersi in tempo reale alla voce dell’artista. Creando un effetto di “sovrapposizione fantastica”. Per un “concerto impossibile” tra inglese e italiano, parlato e cantato, alternando canzoni leggendarie, evocazione di posizioni politiche.

Nina si racconta dal profondo. Era nata nel 1933 a Tryon, nella Carolina del Nord dove i binari della ferrovia dividevano la città in due, da una parte i bianchi dall’altra i neri. Sesta di otto fratelli con la pelle di un ebano lucente, i genitori entrambi predicatori metodisti. Che esistessero le discriminazioni razziali, la piccola Eunice lo scopre relativamente presto. Un episodio la segna profondamente: quando ai suoi genitori, che erano andati ad assistere alla sua prima esibizione al pianoforte nella sala del municipio di Tyron, viene chiesto di lasciare la prima fila riservata ai bianchi e di spostarsi in fondo alla sala. Lei scosta lo sgabello, si alza e si rifiuta di suonare. Silenzio in sala. I genitori, imbarazzati, riguadagnano i loro posti. Eunice si risiede al pianoforte e, prima di mettersi a suonare il Bach previsto a programma, si accorge che alcuni spettatori bianchi stanno ridendo di lei. Paragonò in seguito la rabbia di quel giorno all’essere “scorticata viva”, ma disse di esserne riemersa con la pelle “ricresciuta un po’ più forte. Un po’ più nera”.

Claron McFadden è una Nina strepitosa. Arrabbiata con il mondo intero. Lenta e sensuale nelle movenze feline quando intona West Wind, scritta da Miriam Makeba, accompagnata da percussioni africane. Mettono i brividi come spazzole taglienti e fruscianti anche le pause, i suoi silenzi. Da Color Is A Beautiful Thing alla celeberrima Mississipi Goddam è una scaletta in crescendo quanto a provocare emozioni in chi ascolta. Chi conosce appena un po’ la storia di Nina Simone sa bene che nella sua voce ci sono tutte le storie, i conflitti e le tenerezze, la sua rabbia, la tristezza, la malinconia e la disperazione, il suo male di vivere, quella sua suprema incazzatura nei confronti del mondo, le discriminazioni razziali, il rapporto burrascoso con il manesco marito manager e quello altrettanto drammatico con la figlia Lisa Celeste, i successi eclatanti e fino agli anni minati da forti crisi maniaco-depressive.

Nina non è “solo” uno spettacolo, non è una performance, è un po’ memoir, un po’ flusso di coscienza, ma soprattutto un omaggio a una voce irripetibile. Profonda, intensa, arrabbiata. Voce piena di tristezza e gioia. Di luce e di spigoli. Capace di spezzare la musica facendo una miriade di incisioni, ferite, lacerazioni (“Certe volte la mia voce ha il suono della ghiaia, altre è come un caffè con la panna”, diceva). Come può una voce umana contenere qualcosa di così straordinario?

Muore il 21 aprile del 2003 nella sua casa A Carry-le-Rouet, vicino a Marsiglia all’età di 70 anni, due giorni dopo aver ricevuto il titolo di dottore honoris causa in musica e discipline umanistiche al Curtis Institute, la stessa scuola che le aveva rifiutato la borsa di studio perché nera. Un gesto che non cancella l’indelebile macchia del 1950. Chi non la conosce, la ascolti. Una lunga serie di dischi e filmati di concerti dal vivo testimonia la profonda, ineluttabile bellezza della sua arte. Basterebbe ascoltare solo Sinnerman per comprendere la fiamma del genio della sacerdotessa del soul, in tutta la sua potenza.

Abbiamo avuto modo di incontrare il regista Luigi De Angelis che cura anche le luci e di discorrere con lui di drammaturgia delle luci.

Il pianoforte nero si staglia come un totem tra le ombre del palco, profilato di una catena luminosa di LED rossi.
Nina suonava il pianoforte in modo eccellente. Il suo massimo desiderio era fin da bambina quello di diventare la prima grande pianista nera di musica classica d’America, con il rispetto e l’ammirazione di tutti, bianchi e neri. Lo suona a partire dai tre anni, Muriel Massinovitch, la raffinata signora inglese sposata a un pittore russo presso cui la madre fa le pulizie, le impartisce le prime lezioni. Quell’ora il sabato a casa della signora Massinovitch è gioia allo stato puro. La piccola Eunice studia Bach, Debussy e Beethoven, Chopin, Rachmaninov, Liszt. Il pianoforte spesso sarà l’unico strumento ad accompagnare la sua voce. Era lo strumento che sin da bambina aveva protetto la piccola e spaventata Eunice da un’aspra realtà di discriminazione e razzismo. Una gabbia protettiva. Un compagno di giochi. “Vivo tra un mondo di neri e un mondo di bianchi, tra i tasti neri e i tasti bianchi del mio pianoforte, ma se mi sedevo davanti a un piano, era sempre un trionfo”.

Come ha costruito la drammaturgia della luce?
Su un doppio binario. La luce è materiale e immateriale, fisica e metafisica. C’è un primo livello di illuminazione capace di evocare l’atmosfera da club degli anni ‘60/’70, poi un secondo in cui ho cercato una luce che evocasse la figura di Nina Simone come un’apparizione epifanica, presenza fantasmatica con puntamenti in leggera direzione obliqua in modo da produrre un’ombra leggera. Una presenza che si fa visione onirica. Ho voluto cosi luci di taglio che non toccassero il pavimento, come avessero il potere di far lievitare il corpo di Nina in una dimensione psichica. Quasi un processo di levitazione. Il mito torna a splendere, e viene strappato all’oblio. E ci parla ancora.

Quando Nina/McFalden canta Mississippi Goddam c’è un cambio dell’illuminazione.
Il discorso si fa politico, esplode il colore rosso. Il rosso esprime tutta la rabbia che Nina vuole urlare per tutte le ingiustizie subite dagli afroamericani in un mondo violento e ingiusto. Lei che si era impegnata a fondo nella lotta per i diritti civili. “Cantare per la mia gente è diventato il mio scopo. Non suonavo più jazz o blues o classica: suonavo i diritti civili”. E quando tutta la rabbia che covava dentro di sé si trasformava in musica, il risultato lasciava sempre senza parole.

Missisipi Goddam (1963) “è un punto un punto di non ritorno”: possiamo spiegare perché, un po’ più nel dettaglio?
“You don’t have to live next to me, just give me my equality” dice nel brano: “non chiedo che tu viva accanto a me, dammi soltanto la mia uguaglianza”. Mississipi Goddam nasce di getto nel 1963, dopo aver saputo dell’attentato dinamitardo a sfondo razziale ad opera del Ku Klux Klan in una chiesa battista di Birmingham, in Alabama, in cui quattro bambine restano uccise. Simone l’ha definita la sua prima “canzone sui diritti civili”: la morte di quelle quattro ragazzine quel 15 settembre 1963, ha scosso profondamente Nina che ha capito che la musica che ha interpretato fino a quel momento non bastava più. Si schiera in prima linea nella lotta per i diritti civili. Più dalla parte di Malcom X che non da quella del pacifista Martin Luther King. Da quel momento in poi, Nina assunse piena consapevolezza della sua identità di donna, nera, musicista e attivista. Non è un caso che nel 1966, Nina Simone si presenti al pubblico con i capelli afro: anche il suo aspetto si fa portavoce dell’orgoglio nero.

Durante lo spettacolo la luce irrompe anche sulla platea. Qual è la ragione di questa scelta?
La luce chiama con sé in causa lo sguardo dello spettatore, in uno spazio innervato di scambi e relazioni. È lì presente un pubblico che guarda, che respira, che partecipa e ascolta in silenzio. Durante i suoi concerti, Nina sentiva le reazioni del pubblico, le assorbiva, ne faceva il carburante, la forza.

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La voce umana di Nina Simone secondo Fanny & Alexander, di Anna Passatore | Fermata Spettacolo, 31 maggio 2024

Un pianoforte a mezza coda, i cui tasti si animano di luce al tocco segreto di un’interprete, da tempo assente dalla scena musicale, ma catapultata a Milano da chissà dove. È una presenza inaspettata quella di Eunice Kathleen Waymon, al secolo Nina Simone. Un corpo color ebano riempie con la sua carnalità un décolleté scuro, che si illumina via via delle colorazioni del blu, del viola, del rosso, come il palcoscenico e a tratti la platea. Una platea chiamata, nella sua responsabilità politica, ad uscire dalla comoda posizione di spettatrice. Nina la scruta. Nina la interroga. Sono colori dai valori simbolici, evocativi di situazioni e stati d’animo che ritornano nei testi delle canzoni: l’afflizione del sentimento blues, il sangue della lotta per i diritti civili, il viola del romanzo di Alice Walker e dei movimenti di liberazione della donna. È una narrazione introspettiva, ma diretta, quella con cui il soprano Claron McFadden ricrea davanti a noi, con sensibilità, la figura dell’artista scomparsa nel 2003, nello spettacolo “Nina” di Fanny & Alexander, visto al Teatro Grassi di Milano, nell’ambito del Festival Presente Indicativo del Piccolo Teatro.

Esposta al canto e alla musica da quando viene al mondo, sogna fin da piccola di diventare la prima pianista classica afroamericana. Ma la sorte le è avversa: dopo avere frequentato la Julliard School di New York, la ragazza non supera il provino d’ammissione al conservatorio di Philadelphia: il prestigioso Curtis Institute of Music. Mancanza di merito? No, è solo di pelle nera. Però il dubbio persiste e la discriminazione di cui è vittima sarà un motore forte della sua biografia artistica. Lo studio rigoroso di Bach, Chopin, Rachmaninov, Beethoven, Liszt le ha dato comunque una solida base esecutiva e compositiva su cui confidare.

La voce, dal timbro ora caldo ora aspro, non le manca, le parole neppure. Parole poetiche con una piena aderenza alla realtà intima e sociale, che nascono dal bisogno di “comunicare qualcosa a qualcuno”. In questo modo spiega le origini della sua poetica. È così semplice, eppure così lontana da una scena mainstream non necessaria. Le canzoni rivelano una presa di coscienza: della rabbia, della paura che stringe gli afroamericani, della bellezza del suo popolo da celebrare. Il colore nero è quello dei capelli del suo uomo (“Black is the color of my true love’s hair”). Ma nero è anche il colore di donne private della loro identità, perché asservite al potere maschile, come Aunt Sarah, Saffronia, Sweet Thing e Peaches (“Four women”). Nina può scrivere esili ballate (“Little girl blue”), a volte espressione dei soprusi che soffocano le donne che amano troppo. O può dare voce alla condanna degli schiavisti che non saranno presi da Dio, ma neppure da Satana, per giacere per sempre nel fetore della loro tomba. Così in “Dambala”, la cover del brano del poeta haitiano Exuma, uno spiritual che evoca uno Ioa wodu, spirito della saggezza e della fertilità.

È il momento anche di “Mr.Backlash Blues” sulle parole di Langston Hughes, figura della Harlem Renaissance. Dopo l’assassinio dell’attivista afroamericano Medgar Evers nel 1963 e l’attentato in una chiesa battista di Birmingham in Alabama, ad opera del Ku Klux Klan, l’artista lancia un’invettiva contro la persecuzione degli afroamericani in “Mississippi Goddam” e si impegna nelle battaglie civili, al fianco di Martin Luther King. Nina Simone rivendica adesso anche la necessità della sua gente di riconnettersi con quella identità di cui è stata privata, per divenirne consapevole: lascia gli States e parte per la Liberia. Quanta strada ha fatto dal suo sogno originario di bambina nera del Nord Carolina.

Nella sua musica si esprime potente il ritmo, che si genera con il respiro ed il battito del cuore. È un ritmo che ci accompagna dai primi istanti di vita e in un brano dedicato a Myriam Makeba, lo celebra. “La voce umana è lo strumento più puro”, così aveva esordito la performer all’inizio. È uno strumento che Claron McFadden dosa con equilibrio, fra tenerezza, pietà, indignazione. È lo strumento quasi esclusivo a cui affida il suo racconto sul disegno musicale, che firma insieme a Damiano Meacci, e le percussioni di Adama Gueye.

La drammaturgia è di Chiara Lagani. Soggetto, regia e luci sono di Luigi De Angelis, che ascoltando le interviste di Nina Simone ad occhi chiusi, ha tratto ispirazione dalla cifra della sua “impronta sonora” ferita, riproposta in scena all’interprete, con la tecnica del remote acting.

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Philippe Mangeot 

Grand trouble hier dans la grande salle souterraine de l’Ircam : on a cru voir passer Nina Simone, on l’a même entendue chanter. C’était elle et ce n’était pas elle ; c’était son rythme et ses intonations mais pas exactement sa tessiture ; c’étaient son phrasé et ses mots, qui passaient par le corps-médium de l’admirable Claron McFadden. Après la pièce, le metteur en scène Luigi De Angelis (du collectif Fanny & Alexander) a expliqué ce que ce « portrait mimétique » doit à la technique bizarre du remote acting (en français : hétéro direction). McFadden entendait dans une oreillette la voix chantée et parlée de Nina – et particulièrement des extraits du concert historique de Montreux en 1976 – puis la transmettait à son tour, comme contaminée par elle et sans jamais la singer. Pour ajouter à l’aspect spectral du spectacle, un piano mécanique jouait seul sur scène, comme activé par une présence invisible.
Le résultat n’aurait pas été si beau si l’on n’avait eu le sentiment que quelque chose d’autre se jouait dans la performance : l’évidence d’une communauté (d’une sororité) entre deux chanteuses afro-américaines qui auront choisi de vivre à Paris, le partage de mots et d’une musique qui disent que les vies noires comptent et que ce n’est toujours pas une évidence pour tout le monde. C’était, je crois, l’une des pièces les plus touchantes qu’il m’ait été donné de voir dans la cuvée 2023 du festival d’automne : à sa manière, elle résonnait avec les mots d’Angela Davis, invitée par le même festival quelques semaines plus tôt.