MY NAME IS FLORIA


OPERA IN UN ATTO
MUSICHE DI VIRGINIA GUASTELLA

 

libretto di Virginia Guastella | con parti liberamente ispirate a Victorien Sardou, Giuseppe Giacosa, Luigi Illica, Percy B. Shelley, John Keats | musica di Virginia Guastella | con Maria Eleonora Caminada, Laura Zecchini, Anastasia Egorova, Danilo Pastore, Giacomo Pieracci | esecuzione Icarus Ensemble | regia del suono e live electronics Tempo Reale (Giovanni Magaglio, Damiano Meacci) | direttore Marco Angius| team creativo Fanny & Alexander | regia, scene, luci, video Luigi Noah De Angelis | costumi Chiara Lagani | allestimento multimediale Michele Mescalchin | nuova commissione Fondazione I Teatri / Festival Aperto | produzione Fondazione I Teatri di Reggio Emilia


 

L’azione di My name is Floria si svolge ai giorni nostri, liberamente ispirandosi al personaggio di Floria Tosca – sia al dramma di Sardou, sia alla versione di Illica e Giacosa per l’opera di Puccini. È ben noto che la storia si chiude con il suicidio di Tosca. Ma si finge che ella sopravviva, sicché quel finale si rovescia nell’inizio di una nuova storia. Floria è dunque una donna a noi contemporanea, vittima di un trauma fisico e psicologico, portatrice di un mondo emotivo complesso e alterato, lontana dai canoni rappresentativi della donna nel melodramma tradizionale. Il passato di Floria è fatto di ricordi dolorosi (non esclusa un’incarnazione di Scarpia), il presente di manifestazioni depressive, angosce e proiezioni mentali della sua personalità multipla. È fatto tuttavia anche di un processo di condivisione terapeutica con persone di simile condizione, che le restituirà equilibrio e fiducia. Le varie emergenze incarnate da quattro interpreti vocali in funzione di ruoli multipli e coro.

‘Mi sono chiesta cosa succedesse nella mente di Floria appena caduta, ancora distesa a terra, schiacciata contro l’asfalto. (…). L’altezza, misurabile in metri da cui si può cadere non è mai stata al centro della mia riflessione. Doveva esserci una condizione di sofferenza e una caduta, il farsi male e basta. Un male psicologico, emotivo, fisico. Una condizione di trauma con una storia alle spalle da raccontare. Una storia, però – qui una differenza sostanziale per diventare un’opera di teatro musicale, la mia – di cui grossa parte di noi è stata spettatrice e partecipe.Ho iniziato ad immaginare quali fossero di Tosca, già la mia Floria, i pensieri, le parole, i contenuti della memoria anche quella sonora. Ho ascoltato, dunque, l’opera di Puccini con questa premessa’.
Virginia Guastella

Questa morte, evocata fin dall’inizio tramite l’eco del suicidio di Tosca con cui si apre l’opera, mi ha indotto a disegnare uno spazio preciso, quello di una morgue o sala delle autopsie.Questo luogo è sia spazio preciso, severo, freddo, rigoroso, ortogonale, come quello di un laboratorio ospedaliero, ma allo stesso tempo rappresenta la mente della protagonista, il luogo proiettivo delle sue angosce e reminescenze traumatiche, che tornano a visitarla, compulsivamente, sotto forma di immagini ossessive, per lampi, stroboscopie, visioni annebbiate, anamorfiche.Spesso nella sala settoria c’è una finestra, un vetro, che affaccia su un’altra stanzetta, un luogo dove il magistrato dell’inchiesta, in caso di morte violenta, si può affacciare, per osservare l’andamento dell’esame in corso’.
Luigi Noah De Angelis

 

Debutto: Teatro Ariosto, Reggio Emilia, venerdì 16 maggio 2025, ore 20; domenica 18 maggio 2025, ore 15.30

 

[foto Luca del Pia]

RASSEGNA STAMPA

DANIELA IOTTI, AVANTI! Online

STEFANO NARDELLI, Il giornale della musica

REDAZIONE, “My name is Floria”: stupenda prima assoluta al Teatro Ariosto di Reggio Emilia

ANTONIO BRENA, Socialbg

LUIGI ABBATE, exibart

EDWIN W. ROSASCO, Classic Voice

ENRICO GIRARDI, Corriere della Sera

GIULIA BASSI, Gazzetta di Reggio


 

My Name is Floria, prima assoluta al Teatro Ariosto, di Daniela Iotti | AVANTI! online, 19 maggio 2025

Prima assoluta venerdì scorso al Teatro Ariosto di Reggio Emilia di My Name is Floria della giovane compositrice Virginia Guastella, opera che ha chiuso, nel segno della contemporaneità, la Stagione lirica, in una città da sempre attenta al nuovo e alla sua coniugazione con la tradizione.

Nuova commissione e produzione congiunta del Festival Aperto e della Fondazione I Teatri, il titolo richiama esplicitamente la Floria Tosca pucciniana, ma di Puccini resta solo un’eco lontana, un’ombra sullo sfondo. Guastella immagina infatti una continuazione ideale della vicenda di Floria a partire dal momento del suo suicidio: in Puccini la donna si getta dal bastione di Castel Sant’Angelo dopo aver scoperto che la finta fucilazione del suo amato, il pittore e patriota Mario Cavaradossi, è stata invece reale. Il dramma è aggravato dal fatto che tale finta fucilazione le era stata proditoriamente promessa dal capo della polizia, il brutale Scarpia da lei poco prima ucciso in risposta al suo tentativo di stupro.

Floria è morta realmente o è sopravvissuta? il suicidio si carica di altri significati, lontani dall’assunto pucciniano, per adombrare situazioni di oppressione e violenza subite dalla protagonista eponima. Il libretto, scritto dalla stessa compositrice, rielabora testi frammentati di Victorien Sardou, Giuseppe Giacosa, Luigi Illica, Percy B. Shelley, John Keats e ha pertanto ben poco a che fare con l’originale pucciniano, concentrandosi sull’identità di Floria, sulla sua psiche lacerata, sul suo corpo femminile oppresso, tormentato ed esibito nella sua nuda scabrosità su un lettino da ospedale. È un ritratto profondo e disturbante di una donna schiacciata fin dall’infanzia da dinamiche di potere, di violenza, di sopraffazione fisica e psicologica. Temi scottanti, di una attualità anche troppo invischiata nella cronaca e nell’abuso mediatico che ne viene fatto e che qui, nella rappresentazione artistica, cercano una loro voce, un’espressione autentica ed efficace.

Composta in un unico atto della durata di poco più di un’ora, My Name is Floria affida la narrazione principalmente all’orchestra che wagnerianamente, ancora più della voce, ha il compito di raccontare ciò che la scena poi esplicita. Guastella, che firma anche il libretto, controlla pienamente il rapporto tra testo e suono, per cui i frammenti letterari non costruiscono una narrazione lineare, ma si presentano come continui affioramenti di coscienza: spezzoni di ricordi, reminiscenze d’infanzia, riflessioni, ossessioni.

Il flusso musicale segue questa struttura frammentaria, destrutturata, quasi disarticolata. I pensieri non si organizzano in modo logico o consequenziale: è una mente ferita quella che emerge, incapace di ricomporsi, e la musica ne segue fedelmente l’andamento disomogeneo, come a restituirne il battito interiore.

Quella che a tratti può sembrare una mancanza di continuità è in realtà una precisa scelta drammaturgica, coerente con la sostanza del libretto, o meglio dei vari frammenti letterari ricomposti in un “non ordine”, a rappresentare il disagio mentale, la sensibilità di una donna sull’orlo del dissolvimento, nell’istante sospeso che precede il salto nel vuoto, ma che sorprendentemente si scuote e pian piano si rianima.

Un’opera circolare, tra morte, rinascita e canto

My Name is Floria si apre e si chiude con un suono di campane, un dettaglio che suggerisce una costruzione circolare consostanziale all’idea drammatica: la Tosca immaginata da Guastella non si lancia nel vuoto verso la fine definitiva, ma a fatica, su quello squallido lettino da autopsia (ma il richiamo va anche alla psicanalisi), con spasmodica sofferenza si rianima si risveglia, il corpo riprende a muoversi in una sorta di risurrezione. Si delinea così un ciclo di morte e rinascita che, nel suo ripetersi, evoca l’idea dell’eterno ritorno. Ma non è un ritorno salvifico o consolatorio: è il ritorno di una vicenda tragica, una spirale di dolore e consapevolezza, che rimette in scena incessantemente la condizione di una donna schiacciata dal suo tempo e dalla sua memoria.

La regia si concentra su questo corpo femminile nudo, esposto, vulnerabile, incarnato dalla cantante protagonista, una straordinaria Maria Eleonora Caminada, ma la sua dissociata coscienza si rifrange ulteriormente in un quartetto vocale, cui spetta il compito di esplicitarne le voci interiori – pensieri, ossessioni, frammenti di coscienza – che prendono forma sonora e scenica. Il canto non è qui soltanto espressione musicale, ma veicolo drammaturgico delle tensioni più intime e irrappresentabili.

Il finale dell’opera pare aprire uno spiraglio di speranza. Non si tratta di una redenzione sociale o politica, né di un’emancipazione reale: il riscatto di Floria non viene dalla società, né dall’uomo, né da un cambiamento delle condizioni materiali. È l’arte stessa, e in particolare il canto – non a caso Floria è una cantante anche nell’opera di Puccini – a offrire l’unica possibilità di salvezza, di riscatto e di vita. Una vita nuova, fragile ma possibile, che nasce dalla voce e si affida alla musica come unica forma autentica di espressione e resistenza.

La regia totale, comprendente anche scene, luci e video, di Luigi Noah De Angelis ha concertato con la compositrice ogni dettaglio, creando un ambiente essenziale in cui su un fondale nero campeggia il lettino polisenso, prima vuoto poi con la protagonista totalmente nuda. Dal fondale nero emerge un rettangolo come di obiettivo fotografico (o di spioncino) da cui le quattro voci della coscienza di Floria ne esprimono il flusso intermittente. Eccellenti gli interpreti: Laura Zecchini, Anastasia Egorova, Danilo Pastore, Giacomo Pieracci.

Marco Angius ha diretto con la consueta perizia l’Icarus Ensemble che si attesta come uno dei migliori ensemble di musica contemporanea del panorama presente. La parte elettronica e live electronics, componente essenziale dell’insieme, è stata realizzata da Tempo reale, con la regia di Giovanni Magaglio e Damiano Meacci. Per la parte multimediale Michele Mescalchin e Luca Perin.

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Floria a pezzi, di Stefano Nardelli | Il giornale della musica, 20 maggio 2025

Fra la base dell’angelo in bronzo di Peter Anton van Verschaffelt e il livello stradale ci sono circa 48 metri. Difficilmente un corpo che si lanciasse da quell’altezza sopravviverebbe all’impatto con il suolo e manterrebbe la sua integrità. Eppure nell’opera tutto è possibile, anche che una delle più celebri suicide da Castel Sant’Angelo torni a vivere. Nonostante il salto, sdraiata su una lettiga ritroviamo tale Floria, completamente nuda e in ottima forma fisica, riprendere lentamente vita nella nuova opera in un atto di Virginia Guastella My name is Floria, commissionata dalla Fondazione I Teatri e Festival Aperto di Reggio Emilia nell’ambito del Reggio Parma Festival “Arcipelaghi 2025” e andata in scena per sole due recite al Teatro Ariosto. Che si tratti proprio di “quella” Floria lo suggeriscono alcune linee del testo, decisamente frammentario, assemblato dalla stessa Guastella con parti proprie e altre liberamente ispirate a quelle dei librettisti pucciniani Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, ma anche di Victorien Sardou, Percy Bysshe Shelley e John Keats. Infallibili per l’identificazione della salma i versi “Avanti a Dio! Finire così, finire così” ma anche da un precedente esercizio compositivo della stessa Guastella, il “duodramma” (o, più banalmente, melologo) Floria, sì, sono io dichiaratamente ispirato alla Tosca, con la voce di Stefania Sandrelli e l’accompagnamento pianistico di Orazio Sciortino visto a Torre del Lago qualche anno fa. Poi però il dubbio viene che non si tratti piuttosto di una Floria nostra contemporanea che, nella bizzarra seduta di psicoterapia collettiva, il quartetto vocale, presente in tutto il lavoro, la descrive come preda di “un esaurimento nervoso e un salto” e lei chiosa: “All’improvviso tutto è cambiato”. La ascoltano Damien, che soffre di depressione, e John e Maggie, che la mettono in guardia perché qualcuno le vorrebbe far (ri)perdere l’equilibrio. 

Un finale sospeso lascia lo spettatore con parecchie domande ma soprattutto quella, fondamentale, sul senso di questo oggetto musicale che si autodefinisce “opera” ma che rinuncia completamente a una drammaturgia in qualche modo leggibile al di fuori dell’esercizio solipsistico. Lo stesso discorso vale per una musica che, senza meta precisa e mancante di una chiara architettura, procede per blocchi sonori slegati prodotti da strumenti tradizionali e dall’elettronica impiegata anche per ormai datati esercizi di spazializzazione. 

Più di una carenza strutturale viene fortunatamente ben mascherata dalla brillante realizzazione scenica curata da Luigi Noah De Angelis di Fanny & Alexander per regia, scene e luci (i costumi invece sono di Chiara Lagani) completata dall’allestimento multimediale firmato da Michele Mescalchin. Sono soprattutto le sofisticate immagini rimandate dal LED-Wall del fondale nella prima parte a definire uno spazio psichico o onirico e a compensare la fumosa indeterminatezza del frammentario testo. Nella seconda parte, sono invece la psichedelia luminosa ad animare le sedie in circolo dei soggetti coinvolti nella terapia di gruppo che accarezza l’assurdo. 

Meticolosa e precisa anche l’esecuzione musicale dei bravi strumentisti dell’Icarus Ensemble diretti per l’occasione dal braccio esperto di cose contemporanee di Marco Angius, che anche in questa occasione sfoggia l’acribia di chi ai progetti crede fino in fondo. All’elettronica invece pensa Tempo Reale, ossia Giovanni Magaglio e Damiano Meacci. 

Sala piena a metà nella seconda e ultima recita. Applausi. 

E alla fine un ultimo dubbio ci assale: ma se a volar giù da Castel Sant’Angelo sia stata proprio l’opera?

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“My name is Floria”: stupenda prima assoluta al Teatro Ariosto di Reggio Emilia, di Redazione | La voce del Trentino, 22 maggio 2025

Una sola parola per uno spettacolo che mostra magistralmente, come già “Alfred, Alfred” di Donatoni esattamente un anno fa, nello stesso bellissimo teatro Ariosto di Reggio Emilia, quali sono gli orizzonti del panorama contemporaneo del teatro musicale d’arte, cioè dell’opera lirica.

Là la citazione della Traviata di Verdi, qui l’icona artistica “Tosca” di Puccini, avviano uno spettacolo che riposiziona musica e immagini, incorporando l’evoluzione sensoriale del XX secolo a favore degli aspetti visivi rispetto a quelli uditivi. 

Poi, ecco l’altro elemento moderno, l’adozione di temi drammaturgici provenienti dalla cronaca nera corrente: malgrado le sottolineature citazioniste di compositore/librettista e regia, l’opera risemantizza il dramma della violenza di genere, purtroppo aggravatosi, o, forse meglio, uscito dall’ombra di pudori e intere (in)civiltà.

Violenza, forse non esclusiva ma di gran lunga prevalente, del maschio sulla femmina della attuale (poi spiego perché scrivo “attuale”…) umanità: ci sono culture miliardarie in termini di demografie di riferimento che la giustificano, millenni di altre che la sottovalutano e una rivoluzione sociologica in corso, “attuale”, appunto, la Ginecoforia, che ne stigmatizza l’assurdità belluina e il ribrezzo, oltre a designare per la prima volta nella storia della specie umana, un deterrente estremo, la sostituzione del maschio nella filogenesi attraverso tecniche e prassi originali dell’ultimo quarto di secolo.

Floria ha un incidente, che suona come il suicidio della pucciniana Floria Tosca, che ha finto di cedere (ma fino a un certo punto ha dovuto farlo…) a quel porco di Scarpia che la ricatta per la vita del suo Cavaradossi, il bel pittore rivoluzionario che lei ama. Tosca non cederà del tutto, ma il malvagio capo della Polizia metterà in luce il desiderio satanico del violentatore.

Mi sono sempre domandato, fin quando da ragazzo mi sono passate per le mani le opere del marchese D.A.F. De Sade, allora ancora proibite alla pubblicazione in Italia, quale può essere il senso del violentatore. Scarpia non arriva (nemmeno De Sade, ed è tutto dire…) a ipotizzare nella natura della femmina della specie umana un piacere masochistico nel subire la violenza del maschio.

La lettura dell’etologia animale suggerisce alcuni casi del genere in altre specie, e solo una certa retorica recente, col gusto dell’orrido, ispeziona e documenta letterariamente questa possibilità nell’Uomo, che, diventando pensiero morale (cioè, immorale…), apre degli spazi ad antropologie neanderthaliane o sataniste, fatte di forza fisica e non di cervello oppure, anche peggio, di cervello asservito alla forza fisica e al male.

Non solo distopia pucciniana, anzi: vero e proprio tema antropologico, con pretesto nella violenza di “Tosca” del grande lucchese.

In fondo, a noi che ne parliamo e ne facciamo tema sociatrico, basta saperlo… Ma invece a quante donne e a quanti poveri uomini pre-sapiens, privi di capacità critica, tali ideologie sessuocannibaliche nuocciono? Per quanti maschi divengono un nascosto desiderio di soddisfazione e per quante femmine un semplice, intrigante fattore accessorio, che richiede materna (autolesionistica) tolleranza? E quante vere colture di insulto alla nobiltà dell’essere umano, perversioni criminali, germogliano in quest’orrore?

È ovviamente ora di finirla, e anche l’arte se ne occupa, il teatro di tragedia, l’opera lirica o teatro musicale d’arte in questo caso.

Allora, questo spettacolo, in prima assoluta a Reggio Emilia il 18 maggio 2025, descrive con suoni e educati vocalizzi il dramma diabolico della violenza sulla donna. Senza provocazione, una bella donna nuda occupa il palcoscenico per quasi tutto il tempo, giustamente calibrato per gli usi contemporanei in circa 70 minuti.

Essa segnala con il suo lento risveglio fisico, i danni della violenza subita, che ha distrutto i ponti con l’esterno e anche i delicati ponti interni tra psiche e soma, tra mente e corpo.

I vagiti della rinascita, del dolore di un nuovo auto-parto salvatore del sé, ben interpretati da Maria Eleonora Caminada, sono sottolineati da una miscellanea ben riuscita di tonale e atonale, in alcuni momenti corali dell’ottimo quartetto vocale, con gli sfondi cinematografici a donare l’immersione catartica della vera emozione.

Insieme a quel corpo di donna in rigestazione, l’opera prende in mano l’attualità del mix parnasiano proprio, ripondera la presenza dei fattori audio-video e sposta sul video il baricentro dell’insieme operistico, con grandi risultati di modernità: la musica di Virginia Guastella e il libretto sempre suo hanno un complemento organico in tutto ciò che è visivo, a cura di Luigi Noah De Angelis.

Già così fu esattamente in “Alfred, Alfred”: uno stesso mix artistico che potrebbe divenire filone impresariale per I Teatri di Reggio Emilia, che figurano un poco minori rispetto alla vicina Parma, tornata a una cifra di tradizione dopo la esaltante era Meo, e alla prorompente vitalità di Bologna.

Chissà che questa constatazione non incuriosisca la fresca visione della Direzione teatrale reggiana, occupata da un simpatico Paolo Cantù, dotato di un’ascendenza di tutto rispetto nella scuola torinese e con le mani in un bacino aperto ad esperimenti e innovazioni, come quello di una città da poco in una condizione neo-cosmopolita, libera da pesanti retaggi tradizionalisti e travolta da mille culture diverse…

Sarebbe molto importante, perché il rischio del nulla, del banale e del volgare è dietro l’angolo, e solo qualche fatto culturale identitario può contrastare il baratro civile che la cronaca reggiana purtroppo minaccia quotidianamente…

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Convince l’opera “My name is Floria” al Teatro Ariosto di Reggio Emilia, di Antonio Brena | Socialbg, 22 maggio 2025

La parola cultura, al netto dei grandi eventi, che senso ha oggi? Social e media l’hanno diluita e dilatata, fruibile (solo?) da chi non si limita all’immediato e non si accontenta di titoli e pillole “audio-visive”. Parlare di opera lirica contemporanea, pur in un territorio come Bergamo che ha saputo generare (uno su tutti) Donizetti, può apparire quasi provocatorio e comunque di raro interesse. Basta varcare il Po, tuttavia, e rimanere sorpresi per non dire increduli. Siamo stato a  Reggio Emilia per scoprire che da 22 anni (!) il Teatro Ariosto mette in scena più opere liriche nuove a stagione, appositamente commissionate. Una vera eccellenza nazionale giacché non risultano analoghe manifestazioni lungo la penisola.

E il pubblico partecipa. Giovani compresi. Una operazione culturale che funziona  e che per  otre 2 decenni ha saputo, voluto, creare un polo d’attrazione ed una mentalità a investire in ciò che ha a che fare con l”esigenza di sapere e di capire. Liberando spazi e risorse ( anche modeste ma efficaci se ben spese e programmate) per chi ha il talento dell’arte e della creatività. In questi giorni abbiamo assistito all’ultima messa in scena: My name is Floria (Opera in un atto in prima assoluta) della compositrice Virginia Guastella. Una performance indubbiamente interessante, valorizzata da una messa in scena snella, incalzante, attraente. Con una regia molto aderente alla musicalità e alla drammaturgia della Guastella (che firma musica e libretto).

Lo spunto è Floria Tosca (eroina pucciniana cui Guastella si rifà anche con brevi spunti testuali e musicali). Ma sembra che il titolo My name is Floria alluda non solo alla protagonista di Tosca ma alla donna in quanto tale. Vittima di un patriarcato culturale dove il possesso maschile non pare accettare rifiuti e separazioni unilaterali, ricorrendo alla violenza istintiva. Come attestano femminicidi quotidianamente comunicati dalle cronache.

L’originalità dell’allestimento della compositrice consiste nel narrare la vicenda di Floria partendo dalla fine. Cioè da quando, nell’opera, Tosca si butta dalle mura di Castel Sant’Angelo dopo aver ucciso lo stalker Scarpia e constatato la morte ( che doveva essere finta) dell’amante Cavaradossi. Ma è morta o si è salvata? Guastella risponde con entrambe le soluzioni. Dapprima Floria giace cadavere, nuda sulla barella di una camera mortuaria, attraversando la scena (unica protagonista) fin quasi al termine dell’opera. Intanto un coro (quartetto vocale che si vede a mezzobusto da un oblò intagliato sul fondale scuro) interagisce col corpo morto assumendo ruolo prevalente: coro alla maniera antica della tragedia greca,  che commenta, osserva, partecipa direttamente e empaticamente alla vicenda in atto.

Man mano il cadavere si rianima in virtù di tracce mnestiche musicali che si fanno sempre più esplicite e catartiche. Fino all’ode finale che coincide con la metamorfosi di Floria (della donna?) in una nuova vita: le tracce sonore prima solo mentali, a poco a poco sono evaporate e rivitalizzate in tutti i protagonisti, compagni tutti di cura e di terapia. I quattro coristi non sono più voci estranee ,dal di fuori ma quattro persone con propria individualità e identità così come Floria reintegrata negli umani, torna vestita e viva. Insieme celebrano l’inno alla vita e alla musica. Musica vero motore di rianimazione. Quasi un’apoteosi (anche sonora) che mette felicemente in connessione tutte le dimensioni: quella della luce e dei colori,  dei costumi, della partitura strumentale e vocale che esplicitano la possibilità della guarigione e di una vita nuova.

Guastella impiega un materiale sonoro multimediale: suono-rumore simboli della narrazione iniziale, elaborazione elettronica mediante software deformata ex novo al punto da trasformarla in materiale personale. La performance sonora si snoda in vari episodi dove i rapporti tra musica ‘ acustica’, ‘unplugged’ ed elettronica mutano con l’azione drammatica,  cui anche le scelte di spazializzazione del suono coinvolgono il pubblico in una esperienza sensoriale multiforme.  Valida, intelligente ed efficace la regia, ma anche scene, luci, video di Luigi Noah De Angelis. Molto ben scelti: regia del suono, live elettronics, allestimento multimediale e costumi. Eccellente tutta la parte musicale a partire dal direttore Marco Angius, con Icarus Ensemble e Quartetto Vocale insieme al soprano coraggioso e ineccepibile Maria Eleonora Caminada.

Il numeroso pubblico di giovani e non, ha tributato convinti e calorosi applausi in entrambe le repliche per un successo meritato.

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Teatro musicale oggi: il Nome della Rosa alla Scala e il sequel di Tosca a Reggio, di Luigi Abbate | exibart, 11 giugno 2025

Da Milano al Teatro Ariosto di Reggio Emilia, ovvero dal Nome della Rosa di un pucciniano Filidei a una Tosca non di Puccini ma di Virginia Guastella. E neppure una Tosca, ma una Floria. La quarantaseienne compositrice palermitana, che firma le parole per la sua musica frullando Sardou (il librettista del capolavoro pucciniano) con Giacosa/Illica, Shelley e Keats, in My name is Floria parte da una brillante idea: immaginare cosa potrebbe succedere alla celebre eroina, amante del pittore Cavaradossi subito dopo l’ancor più celebre tuffo da Castel Sant’Angelo. Guastella ci orienta verso un taglio decisamente introspettivo: il lavoro vuol rappresentare o evocare «Una condizione di trauma con una storia da raccontare, una storia…di cui grossa parte di noi è stata spettatrice partecipe».

Ancora una volta alla base del comporre un dramma musicale sta il racconto della memoria, stavolta non epopea ma frammenti di rimemorazione immaginati nello stato del rigor mortis. In effetti colpisce l’avvio, sia all’ascolto che alla visione. A partire dalla ricerca del suono: «Tutto quello che intercettavo come materiale sonoro altro rispetto al linguaggio strettamente musicale è stato al centro della mia indagine», scrive sempre l’autrice, che fa dialogare questo materiale “altro” con echi neomodali, sapori di un’antichità qui non documentale, ricostruita, come in Filidei, ma fratta, si direbbe, dato il contesto, in decomposizione.

L’immersione nell’asepsi di un ambiente cromatico che va dal celeste scuro al blu, il nudo cadavere di Floria steso su una barella mortuaria, uno schermo che proietta dettagli ingigantiti di quella nudità, vaghi accenni a un esame autoptico, il corpo osservato e in dialogo cantato con un quartetto vocale. Ben pensato, ben scritto, e ottimamente interpretato dal soprano Maria Eleonora Caminada, il lento, faticoso “sgranchirsi” le membra e la voce in una lallazione enfatizzata dal trattamento elettronico del suono, a sua volta impastato il giusto con i timbri acustici degli strumenti. Tutto prometteva bene per il prosieguo, ma dopo aver prodotto un’attesa cattivante si sarebbe desiderata una conclusione all’altezza.

Invece il finale “a voce piena”, letto come un retour à la vie, se non consolatorio, suona scontato, ma soprattutto formalmente e drammaturgicamente irrisolto. Scelta legittima dell’autrice. Restava però la voglia di andare avanti a vedere, ascoltare diversamente.

Nel complesso è parso ottimo il lavoro del team creativo Fanny & Alexander, con regia scene luci e video di Luigi Noah De Angelis, che ci propone di pensare il lavoro come un “sequel” di Tosca, e costumi di Chiara Lagani, multimedia di Mescalin e Perin, Tempo Reale per regia del suono e live electronics, anche nel rapporto con l’Icarus Ensemble a pieno organico e qui diretto da Marco Angius

Teatro musicale, oggi: il Nome della Rosa alla Scala e il sequel di Tosca a Reggio

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Tosca rivive. Composita ricercatezza della partitura sulla sua seconda vita, di Ewdin W. Rosasco | Classic Voice, 13 giugno 2025

È andata in scena in prima assoluta, al Teatro Ariosto di Reggio Emilia, My Name is Floria, opera in un atto di Virginia Guastella, autrice anche del libretto, con parti liberamente ispirate a Sardou, Illica e Giacosa, Shelley e Keats, evocante nel titolo la pucciniana Tosca, suicida dalle mura di Castel Sant’Angelo. O forse no, se ne vediamo il corpo esanime, pronto per l’autopsia, rianimarsi nella psichica rappresentazione di una traumatizzata interiorità femminile. Più che opera, una quasi cameristica cantata per soprano, 15 strumentisti – eccellenti l’Icarus Ensemble e il direttore Marco Angius – e un quartetto vocale – Laura Zecchini, Anastasia Egorova, Danilo Pastore, Giacomo Pieracci, encomiabili. Maria Eleonora Caminada, intensa protagonista, regge a lungo la scena distesa, nuda, sul lettino su cui lentamente, ipnoticamente, si risveglia; si spande poi, rivestita e circondata dal coro del quartetto, in una più diffusa vocalità, un finale che si vorrebbe propiziatorio, benché ancora intriso di problematicità. La composita ricercatezza della partitura, riesce, nei momenti migliori, a saldare le sparse articolazioni del testo con la frammentata realtà mentale di questa Floria contemporanea. Team creativo Fanny & Alexander, regia, scene, luci e video di Luigi Noah De Angelis, costumi di Chiara Lagani, regia del suono e live electronics di Tempo Reale (Giovanni Magaglio e Damiano Meacci) e allestimento multimediale di Michele Mescalchin e Luca Perin, credits obbligati per la concentrata resa scenica di questa riflessione musicale su un tormentato destino di donna.

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Tosca rinasce grazie ai misteri della psiche, di Enrico Girardi| Corriere della Sera, 5 giugno 2025

La Fondazione I Teatri di Reggio Emilia è una certezza per la musica contemporanea. Ogni anno un’opera nuova. Nella stagione in corso si tratta di My name is Floria , atto unico di Virginia Guastella che racconta il ritorno alla vita di Tosca: sì, proprio lei, l’eroina di Puccini. Che è creduta morta – appare a lungo nuda sulla fredda tavola dell’autopsia – ma che appunto torna alla vita in virtù di un articolato processo psichico, dalla rimozione della violenza subita alla rinascita in un gruppo terapeutico. Nel suo caso è un processo anche musicale, dal suono inarticolato al canto. Nella lucida, corretta messinscena di Luigi Noah De Angelis è in scena con la protagonista un quartetto di voci, una sorta di coro greco che è voce della memoria, della coscienza di lei, della realtà al di fuori di lei. Nessuna citazione pucciniana. Il materiale elettronico (anche troppo?) trae linfa dal grido di Tosca che si butta da Castel Sant’Angelo, tutto qui. La parte strumentale, con l’Icarus Ensemble diretto con la consueta intelligenza da Marco Angius, è vivace nei timbri ma leggerina, mentre la parte vocale – ineccepibili i cantanti, a partire dalla protagonista Maria Eleonora Caminada – è interessante per come sa essere strumento e contenuto stesso di questo racconto, certamente ben congegnato nella sua dimensione drammatica, la coincidenza dei tratti psichici e fisici della quale si manifesta come frutto di uno sguardo femminile al cento per cento. Un po’ inferiore la percentuale di pubblico ma il successo è franco. 

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Catturati dall’inquietante My name is Floria tra opera, installazione e musica elettronica. La prima assoluta firmata da Virginia Guastella con la regia di Luigi Noah De Angelis, di Giulia Bassi| Gazzetta di Reggio, 19 maggio 2025

All’inizio si è rapiti dall’immagine: un enorme volto di una donna morta che, capovolto, prende tutta l’apertura del boccascena. Impressionante l’incipit di “My name is Floria” di Virginia Guastella, opera vista in prima assoluta al Teatro Ariosto. Un lavoro che fin da subito rivela il suo punto forza: la felice collaborazione tra la compositrice e il regista Luigi Noah De Angelis. Per cui, la prima parte dell’opera, ci appare come un’installazione e non solo per questo si rimane spiazzati: siamo di fronte alla visione inquietante perché nitida, perfetta nella bellezza sinistra di quell’immagine cadaverica, espressione di una tragedia assoluta tanto da richiamare il Cristo del Mantegna. E noi guardiamo con avidità, catturati irrimediabilmente da quegli occhi nerissimi che a un certo punto si muovono… Come può essere? E intanto ha inizio la storia. Ma c’è la musica? Certo che c’è…intanto di quella donna si scoprono altre parti del corpo senza vita, sempre di dimensioni abnormi, il tutto avvolto da suoni da caos primordiale o da caos interiore (l’intimo sofferente di Floria) frutto di un uso sopraffino dell’elettronica che per altro contrappunta, duetta, ingloba la musica dell’Icarus Ensemble diretto da Marco Angius. Punto fermo sono le campane: le campane di Tosca che richiamano l’opera che fa nascere Floria. Questo appare come la conseguenza di un’implosione che segna l’inizio della nuova vita della protagonista. Tutto è fermo, tranne una barella con quel corpo nudo, il corpo di Floria – il soprano Maria Eleonora Caminada perfetta nel suo ruolo – che lentamente raggiunge il centro del palcoscenico. Nel mentre, dentro all’immagine proiettata, si crea una fessura dove compaiono le voci chiamate a raccontare la storia della donna che “si concede”, a esternare i pensieri diabolici dell’approfittatore ma quelle stesse voci ne annunciano la nuova vita. Poi il suono si apre, sprigiona la musica, mentre Floria /il soprano Caminada rinasce: è l’arte dei suoni che la fa rivivere e così la musica di Virginia Guastella esce ricca, sofisticata, importante sempre dominata da un canto sempre più articolato e debordante interpretato con passione dalla Caminada e da un agguerrito quartetto vocale formato da Laura Zecchini, Anastasia Egorova, Danilo Pastore, Giacomo Pieracci. L’impressione è quella di un impeccabile lavoro d’équipe a cura del team creativo di Fanny & Alexander per le immagini, con la regia del suono di Tempo Reale e dove la bacchetta di Angius mette in connessione la musica – le tracce preparate con i live di Icarus Ensemble – con il pubblico che si trova immerso dentro l’opera.