MANSON
ideazione, regia, luci, progetto sonoro Luigi De Angelis| drammaturgia, costumi Chiara Lagani| con Andrea Argentieri| consulenza linguistica e fonetica Gabriella Gruder-Poni, David Salvage| promozione e comunicazione Maria Donnoli| organizzazione Maria Donnoli, Marco Molduzzi| amministrazione Stefano Toma, Marco Molduzzi | produzione E Production/Fanny & Alexander | in collaborazione con Olinda / Teatro La Cucina
Andrea Argentieri indossa nello spettacolo di Fanny & Alexander i panni dell’accusato e, a partire dalle testimonianze video e audio, le numerose interviste che Manson in vita rilasciò, incarna una sorta di ritratto mimetico del suo personaggio facendoci ripercorrere, tramite l’iperbole variegata delle risposte, i meandri della mente labirintica, istrionica, scivolosa e manipolatoria di Charles Manson. È così che si imprimono nella voce e nel suo corpo dell’attore i ritmi, la gestualità spezzata e gli sguardi mutevoli del personaggio che gli è ora matrice, come se ci trovassimo per un attimo di fronte a un fantasma, che ci visita proprio nel momento in cui ci accingiamo a formulare un giudizio.
Lo spettacolo mette il pubblico nello scomodo ruolo di una sorta di giuria postuma: in un buio compatto e sonoro, immersivo e incubotico, si dipingono all’improvviso frasi secche e ritmate, che portano a una riesumazione narrativa e sensoriale degli eventi, come se per un attimo ci trovassimo nella famosa villa dell’omicidio, circondati dai passi ghiaiosi degli assassini, oppure prigionieri nella loro auto in fuga tra urla e stridore di freni, o ancora circondati dai canti hippy nel famoso Ranch, dove la Famiglia praticava i suoi riti, e infine nel tribunale vociante di arringhe, dove Manson è stato processato. È solo al termine di questa fantasmatica ricostruzione per suoni e scrittura concreta, che ci si accorge di una presenza reale in sala, una specie di testimone silente che dà le spalle fin dal principio alla platea. L’uomo si gira, si avvicina, invita ripetutamente il pubblico a rivolgergli delle domande. È proprio Manson, è qui, di fronte a noi. Il pubblico pesca adesso da un elenco di trentadue domande che gli sono state consegnate al suo ingresso a teatro e poi, singolarmente e volontariamente, rivolge il quesito scelto all’attore, che adesso risponde in inglese, sopratitolato.
A poco a poco e quasi inavvertitamente l’incalzare delle domande produce una strana enigmatica trasformazione nella percezione di chi assiste: in ballo c’è davvero solo il giudizio, la condanna alle azioni di questo strano, ambiguo personaggio? Oppure ci siamo anche noi, la nostra stessa repulsione oppure l’indecifrabile attrazione per questo caso macabro, per le parole depistanti e oblique che stiamo ascoltando? Avremo dunque la capacità, la possibilità di far luce nell’oscuro paesaggio dei significanti, di leggere nel libro nero e illeggibile del significato, delle molte rifrazioni manipolatorie del discorso? Potremo alla fine aprire un varco attraverso il muro specchiante della nostra stessa voglia di sapere, del nostro bisogno di vedere, di ottenere un dettaglio, e poi ancora un altro, sempre di più? Cos’è che cerchiamo esattamente? Cos’è, alla fine, che stiamo davvero guardando?
Un magnetofono incarnato: appunti su Manson
di Luigi Noah De Angelis
In Manson di Fanny & Alexander, Andrea Argentieri interpreta in modo mimetico Charles Manson, un processo di incorporazione che riflette le caratteristiche del personaggio: labirintico, istrionico, manipolatore. Utilizzando materiale d’archivio, in particolare interviste audio e video, l’attore incorpora i ritmi, la gestualità spezzata e gli sguardi mutevoli di Manson, trasformandolo in una presenza che torna dal passato per sfidare apertamente il giudizio del pubblico convocato in un tribunale postumo.
Non ho niente contro nessuno di voi. Non posso giudicare nessuno di voi. Ma penso che sia il momento buono perché voi tutti cominciate a guardarvi, e giudichiate le bugie nelle quali vivete.
Voi non siete voi, siete solo dei riflessi, siete riflessi di tutto ciò che credete di sapere, di tutto quello che vi è stato insegnato.—Charles Manson, dichiarazione processuale
- Stare fuori dalla logica del giudizio.
- Allontanarsi dalle polarità binarie: bene/male, colpevole/innocente.
- Non farsi manipolare dalla narrazione colpevolista, né da quella santificatoria.
- Stare il più possibile concentrati sul perimetro ristretto di Manson, sul suo cerchio prossemico: la sua voce e il suo corpo, che sono anche la sua cella, la sua “think chamber”.
- Fare un bagno nella sua voce tramite ascolti ripetuti: cosa succede se un performer se ne fa attraversare senza filtri?
- Lasciarsi permeare dalle ferite che emergono dall’ascolto di questa voce.
- Osservare il corpo di questa voce, la sua espressione gestuale.
- Osservare l’epifania di Manson come rigurgito, sintomo di un riflesso che riguarda chi è dall’altra parte e lo sta giudicando.
- Ascoltare quello che ha da dirci, oggi. Come mai risuona così tanto col presente?
- Dividere lo spettacolo in due parti: la prima, che sia l’essenza proiettiva di una tesi accusatoria, la seconda che sia la sua autodifesa, senza filtri, senza alcuna cornice mitica o narrativa, ma un nastro di magnetofono incarnato.
- Portare la voce e il corpo di Manson fuori da cornici teatrali consolatorie: farli uscire di scena, portandoli nel presente.
- Allontanare ogni forma di pudore della recita.
- Cercare il bassorilievo invece che la copia o il calco esatto. Farne un’antenna significa passare per una sofferta e difficile incarnazione, perché richiede empatia con quella voce, ma allo stesso tempo risonanza interiore e rilancio. Se il performer empatizza con la sua matrice, con la grana della voce che lo attraversa nel tempo presente della performance, c’è un costo che permette a chi sta dall’altra parte di empatizzare a sua volta. E di riflettere.
- Sostiamo nei sintomi, invece che nell’affermazione o nella morale.
- Che lo spettatore possa testimoniare, porsi una domanda, prendere la sua posizione.
ANTEPRIMA Mercurio Festival, Palermo, 23 settembre 2023
DEBUTTO Olinda / Teatro La Cucina, Milano, 29-30 settembre 2023
Festival Approdi, Teatro Rossetti, Trieste, 21 giugno 2024
Festival Inequilibrio, Teatro Ordigno, Vada (LI), 6 luglio 2024
Short Theatre, Teatro Basilica, Roma, 7 e 8 settembre 2024
Festival Le Città Visibili, CastOro Teatro, Rimini, 10 settembre 2024
Galleria Toledo, Napoli, 7 e 8 dicembre 2024
Teatro delle Moline, Bologna, dal 15 al 19 gennaio 2025
La Stagione dei Teatri, Teatro Rasi, Ravenna, 30 e 31 gennaio, 1 febbraio 2025
RASSEGNA STAMPA
LAURA ZANGARINI, CORRIERE DELLA SERA
SARA CHIAPPORI, LA REPUBBLICA
DIEGO VINCENTI, IL GIORNO
LUCREZIA ERCOLANI, IL MANIFESTO
VINCENZO SARDELLI, KLP
MAGDA POLI, CORRIERE DELLA SERA
MATTEO MARELLI, FILMTV
OLINDO RAMPIN, PANEACQUACULTURE
Processo a Charles Manson, il pubblico lo interroga a teatro, di Laura Zangarini | Corriere della Sera, 27 settembre 2023
«Manson» sarà in scena il 29 e 30 settembre al Teatro LaCucina di Milano e poi in tour. Il regista Luigi De Angelis: «Un’indagine sulla perversa fascinazione del male»
Manipolatore, istrionico, labirintico. Ispiratore di alcuni tra i crimini più efferati della storia americana, come il massacro di Cielo Drive, in cui l’attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, incinta di otto mesi e mezzo, venne colpita con 16 coltellate, o gli omicidi LaBianca. Charles Manson è al centro della nuova creazione di Fanny & Alexander, compagnia guidata da Chiara Lagani e Luigi De Angelis, da vent’anni protagonista della scena di ricerca più audace. «Manson fa parte di una galleria di “ritratti mimetici” cominciata con “Se questo è Levi”, dedicata all’opera dello scrittore torinese — spiega De Angelis —. L’idea è di “convocare” la figura di Manson e mettere il pubblico nello scomodo ruolo di “giuria postuma”».
Aggiunge il regista: «Abbiamo lavorato su due testi, “Manson in his own words” del giornalista Nuel Emmons e “Helter Skelter. Storia del caso Charles Manson”, di Vincent Bugliosi, il procuratore che sostenne l’accusa e lo fece condannare a morte (condanna commutata in ergastolo. Morì il 19 novembre 2017). Di lui rimangono numerose interviste, in cui costruì di sé l’immagine di un outsider che osserva il sistema dal carcere, l’“underworld”, gli inferi, una prospettiva per il teatro piena di possibilità interessanti da scandagliare». Lo spettacolo, interpretato dal premio Ubu Andrea Argentieri, il 29 e 30 settembre al Teatro LaCucina di Milanopoi in tour, inizia come un radiodramma horror in cui vengono rievocati gli omicidi della «famiglia Manson», la setta di cui l’icona del male era il leader.
«Al termine di questa ricostruzione per suoni e scrittura — sottolinea il regista — viene “convocato” Manson, che risponderà alle domande del pubblico». Al processo, pur avendo un avvocato d’ufficio Manson scelse di difendersi da sé. Esordì dicendo: «Io sono solo quello che avete fatto di me, sono il vostro riflesso». «Una dichiarazione interessante — riflette De Angelis — perché ha a che fare col meccanismo del teatro, che è sempre specchio della realtà». Manson è anche un interrogativo sul male e sulla sua perversa fascinazione. «C’è un grande narcisismo nelle sue risposte al processo: esiste un aspetto creativo anche nella manipolazione». Quanto si rimane turbati a maneggiare il male? «Abbiamo tenuto l’inglese per il corpo a corpo con questa figura, e il contatto con la voce di Manson certo non è innocente».
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Il pubblico porta a processo Charles Manson, di Sara Chiappori | La Repubblica, 29 settembre 2023
La notte del 9 agosto 1969 quattro adepti della setta di Charles Manson fanno irruzione nella villa di Roman Polanski, a Cielo Drive, Los Angeles. È un massacro che si lascia dietro sei morti, tra cui la giovane Sharon Tate, compagna di Polanski incinta di otto mesi. E se Quentin Tarantino in Once upon a time in Hollywood ha riscritto la storia capovolgendola con un happy end, la figura di Charles Manson continua ad allungare la sua ombra nerissima alimentando un immaginario subdolo e vischioso. È da questa prospettiva che Fanny & Alexander hanno pensato e costruito lo spettacolo Manson, firmato da Chiara Lagani e diretto da Luigi De Angelis (oggi e domani, Teatro La Cucina, ex Paolo Pini, via Ippocrate 75, ore 20,30, biglietti 15/10 euro, tel. 0266200646).
Un dispositivo multiplo che chiama in causa il pubblico, messo nello scomodo ruolo di una sorta di giuria postuma. Immersi in un buio compatto, gli spettatori assistono a una riesumazione narrativa e sensoriale dei fatti, quasi fossero trasportati nella villa di Cielo Drive: scricchiolii di passi sulla ghiaia, grida, colpi, stridore di freni, canzoni hippy si mescolano a frasi secche nel rumore di fondo di un caso andato ben oltre la cronaca e lo scandalo. Al termine di questa ricostruzione, è Manson (interpretato da Andrea Argentieri) a rivolgersi direttamente al pubblico, incalzandolo perché gli faccia delle domande scegliendole da un elenco di trentadue quesiti consegnato all’ingresso. La partitura è dunque variabile, articolata per smascherare il gioco incrociato delle ambiguità. Sotto processo non ci sono solo Charles Manson e la sua diabolica mente criminale, potremmo esserci anche noi. Posti di fronte ai rischi manipolatori delle parole e soprattutto alla pericolosa oscillazione tra repulsione e macabra attrazione.
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Charles Manson a Milano: quando il Male sfida la giuria degli spettatori, di Diego Vincenti | Il Giorno, 30 settembre 2023
Un’inedita giuria teatrale sfida Charles Manson: al pubblico viene dato un elenco di trentadue interrogativi da porre all’imputato. Un monologo febbricitante firmato da Fanny & Alexander al TeatroLaCucina di Olinda.
Buio fondo. Compatto. Si distingue poco di quello che ci potrebbe essere di fronte a noi. In compenso, è come ritrovarsi in un assedio immersivo di suoni e di rumori. Habitat acustico che accoglie dentro vicende molto prossime all’incubo: un omicidio, la fuga, strani orizzonti hippy. E poi piano piano ecco che qualcosa prende forma. Si inizia a intuire che quell’uomo seduto in fondo fra le ombre non è altri che “Manson”, stasera e domani protagonista di un monologo febbricitante firmato da Fanny & Alexander. Prima nazionale. Prestigiosa. Ospite del TeatroLaCucina di Olinda. Appuntamento dunque alle 20.30 all’ex-Paolo Pini. Per due date inserite nel palinsesto di Milano è Viva. Titolo forte. In compagnia di uno dei gruppi che più hanno segnato la ricerca negli ultimi vent’anni (e oltre). Drammaturgia di Chiara Lagani, ovviamente. Mentre di Luigi De Angelis sono regia, luci e il fondamentale progetto sonoro. Il resto è nelle mani di Andrea Argentieri, interprete unico e misterioso.
Un Charles Manson che sfida questa inedita giuria teatrale, chiedendo a ciascun spettatore di fargli una domanda. Di sapere. E infatti al pubblico viene dato all’entrata un elenco di trentadue interrogativi fra cui scegliere. A propria discrezione. Con l’”imputato” a rispondere in inglese (coi sovratitoli), cercando di pescare a piene mani fra solide dinamiche di manipolazione. Perché alla fine c’è da arrivare a un giudizio. A una condanna. Ma non è detto che a furia di parlare con il demonio, le idee non se ne escano un filo confuse.
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Chi è il mostro? Il riflesso del male secondo Manson, di Lucrezia Ercolani | Il Manifesto, 1 ottobre 2023
Un tribunale del pubblico nell’ultimo spettacolo di Fanny&Alexander, lo racconta l’attore Andrea Argentieri. Il meccanismo partecipativo, il fascino e il rifiuto, l’adesione emotiva e la sospensione del giudizio.
Ci sono figure di fronte alle quali prendere posizione sembra non solo inevitabile, ma anche doveroso, come se emettere un giudizio servisse a salvaguardare i nostri valori, la nostra umanità. È il caso di Charles Manson, personaggio che necessita di poche presentazioni. Ma non è stato questo l’approccio di Andrea Argentieri, attore della compagnia Fanny&Alexander, che ha vestito i panni del celebre criminale-guru in Manson, spettacolo appena andato in scena al Teatro LaCucina all’interno dell’ex ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano.
«Ho capito che l’unico modo per avvicinarmi a lui e per andare oltre al “mito Manson” era sospendere il giudizio, essere veramente un tramite. In fondo è la missione dell’attore: trasmettere l’esigenza che c’è in una voce, qualsiasi essa sia. Tutti possono dare un giudizio nei suoi confronti tranne me» spiega Argentieri. E in effetti lo spettacolo, con la regia di Luigi De Angelis e la drammaturgia di Chiara Lagani, mira a far «emettere un verdetto»: è il pubblico stesso a interrogare Manson, prendendo in autonomia la parola e leggendo le domande predisposte su un foglio, come se facesse parte di una giuria. Un meccanismo partecipativo che consegna agli spettatori parte dell’andamento scenico. Le risposte sono estrapolate da parole realmente pronunciate durante più interviste.
A colpire è soprattutto il miscuglio di lucidità e follia, di riflessioni acute sui meccanismi che regolano la società accompagnate da bestialità e deliri di onnipotenza, stati che si alternano senza poterli pienamente discernere. «Il punto è: perché così tante persone sono state affascinate da questa figura, nonostante quello che ha compiuto? Manson parlava spesso di “riflesso”: in me vedete il male che c’è in voi, io sono il modo con cui voi conoscete la vostra oscurità, però ritenete me il mostro, diceva. È un tema interessante per il teatro, che deve farsi carico di riflettere l’umano nel suo complesso».
Ed è proprio il rispecchiarsi nel male ad essere il punto nevralgico dello spettacolo, consegnandoci ad un’auto-analisi che ci lascia inquieti dove si superi il possibile istintivo rifiuto. In fondo anche Manson era un prodotto del suo contesto: genitori tossicodipendenti, un’infanzia tra strada e riformatori, furti, spaccio e galera fino alla formazione della «Famiglia» con la sua devozione smisurata.
Le storture della vita in società hanno plasmato questo personaggio, che non può certo essere giustificato per i suoi atti, ma che continua a interrogarci: in che modo la violenza strutturale del mondo agisce su di noi? «Diventa un’indagine reciproca» spiega Argentieri, che racconta di aver svolto un lavoro «alla Actors Studio» per entrare nei panni e nella mente di Manson, ricorrendo a un coach per studiare l’inflessione della sua parlata dell’Ohio – lo spettacolo è interamente in inglese. Nelle cuffie dell’attore c’è la voce dello stesso Manson a indicare le risposte: è l’eterodirezione, tecnica usata da tempo dalla compagnia, una «possessione controllata» la definisce Argentieri.
Un simile processo mimetico l’attore lo aveva intrapreso per Se questo è Levi, progetto – con cui aveva vinto il Premio Ubu come miglior performer under 35 – dedicato allo scrittore torinese. Anche in quegli spettacoli era il pubblico a porre le domande a Primo Levi, ma la temperatura emotiva, spiega Argentieri, è molto diversa: «Quando interpreto Levi c’è accoglienza: come si può non convergere sulle sue testimonianze della Shoah? Con Manson è molto diverso, giocano insieme paura e fascinazione».
Non è insignificante, infine, il luogo in cui questo spettacolo è nato. All’Ex Paolo Pini le risonanze del passato vibrano ancora forti nell’aria, nello spazio tra i padiglioni, nelle maioliche celesti sui muri. Il teatro – gestito dal 1998 dall’associazione Olinda, che si occupa anche di creare opportunità di lavoro e socialità per persone con disturbi mentali – si trova in quella che era la cucina dell’ex ospedale psichiatrico. Ed è indubbio che Manson abbia a che fare con la complessità della mente umana, quasi fosse una piena personificazione dell’Ombra junghiana. «Sono tutte camere di pensiero, noi non viviamo la stessa realtà, dico a un certo punto, e dirlo qui è forte. La psiche è anche al centro di ciò che accade all’attore sul palco, una questione che mi interessa molto». Manson è comunque pronto per uscire dalle mura del Paolo Pini, a gennaio sarà all’Angelo Mai di Roma e poi in tournée.
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Charles Manson: Fanny & Alexander nei labirinti del delitto, di Vincenzo Sardelli | KLP – Krapp’s Last Post, 3 ottobre 2023
Uno dei criminali più efferati della storia: questo è stato Charles Manson (Cincinnati 1934 -Bakersfield 2017). Poco più che trentenne, alla fine degli anni Sessanta, fondò una setta in una comune hippy, con adepti disposti a tutto pur di compiacerlo. Erano ragazzi poco più che ventenni che commisero diversi omicidi. Tra i più feroci, quello nell’agosto 1969 a Los Angeles dell’attrice Sharon Tate, 25enne moglie di Roman Polanski, massacrata nella sua villa insieme ad altri tre ospiti e a un ragazzo di 18 anni. Sharon era all’ottavo mese di gravidanza.
Sebbene Manson non avesse commesso direttamente gli omicidi, gli assassini, simili ad automi, sembravano rispondere a ogni suo capriccio. Il processo sentenziò la condanna a morte di Manson. La pena fu commutata in ergastolo dopo che la California abolì la pena capitale.
Manson divenne un caso mediatico per quel mix di genio e follia, bellezza e maledizione, che ne caratterizzava il personaggio. Era una mente criminale magnetica, capace di condizionare persino i membri della giuria.
La sua biografia ha colpito il mondo dell’arte. Si sono occupati di lui editoria, cinema e TV. Occuparsene a teatro, è un altro conto. La compagnia romagnola Fanny & Alexander si accosta a questa figura eccentrica con un mix di introspezione e curiosità, senza semplificazioni o banalizzazioni.
Dopo l’anteprima al Mercurio Festival di Palermo, il debutto ufficiale di “Manson” avviene al Teatro LaCucina di Milano, ospite di Olinda, all’ex Paolo Pini. Gli spazi asettici di questo ex ospedale psichiatrico sono lo scenario più pertinente per accogliere una biografia alienata tra dolore e acidi, crimini e sangue.
Ebbe un’infanzia dura. Non conobbe il padre. La madre, una prostituta, lo partorì a sedici anni. Sesso, allucinogeni e musica, fughe e aggressioni, furono i fondamenti della sua educazione. Il carcere e i riformatori. E poi il culto di Satana, ma anche la devozione per i Beatles. Si definiva Cristo e Anticristo. Era un guru, un filosofo, un musicista, un pazzo. Era affascinato da Hitler, eppure preconizzava una bizzarra lotta purificatrice dei neri contro i bianchi.
A narrarci la biografia di Manson non è un attore, ma algide scritte bianche su fondo nero. Nelle tenebre fitte e palpabili davanti ai nostri occhi, si staglia la parola nuda, enucleata in forma drammaturgica da Chiara Lagani. Fredde le luci; glaciale e stridulo il progetto sonoro di Luigi De Angelis, curatore anche della regia. Sono cigolii distopici di urla e vetri rotti, di spari e frenate. Fremiti e affanni, rumori di passi nella ghiaia. Tra esplosioni e rumori metallici, fa capolino una musica onirica, suoni di campane e carillon.
La drammaturgia è un mix psichedelico di furia assassina e purezza. Tutto il lavoro è oscillazione vorticosa fra estremi.
Le luci si riattivano e sono glaciali. Il pubblico è chiamato a partecipare. Compare davanti a noi un uomo in tuta, sguardo scheletrito, capelli e barba scarmigliati.
Andrea Argentieri dà vita a un personaggio che è un’associazione schizoide di deturpazioni facciali e sussulti violenti. Il suo linguaggio è concitato. Le parole (in inglese sovratitolato) sono profluvi travolgenti e turbini, ma anche monosillabi centellinati e silenzi riflessivi.
Noi spettatori siamo giudici, psichiatri, cronisti e sociologi. Forse siamo solo una congerie di curiosi. Diventiamo giuria, e abbiamo in mano uno stock di una trentina di domande da rivolgergli.
Manson è mente istrionica, né pentimenti né sentimenti. Ma la sua abilità sta nel ribaltare le nostre accuse riversandole sul nostro perbenismo. Manson è macchina superba nella logica, carente nelle emozioni. Diverte e ferisce. Scaglia fendenti sulla nostra cattiva coscienza. Non è un “mostro” di malvagità perché manca di senso morale.
Non abbiamo davanti uno spauracchio con le mani artigliate o la maschera di gomma. Al contrario, Manson fa da specchio alle aberrazioni nascoste dentro di noi. Chi cerca in lui un colpevole, si limita a misurare la propria distanza dall’integrità. Manson è un angelo caduto nel labirinto delle nostre perversioni.
Uno dei dettagli più affascinanti nella carismatica prova attoriale di Argentieri è l’uso degli occhi. Le palpebre non battono quasi mai. È uno sguardo sinistro. Manson fissa di sbieco la nostra coscienza, legge le nostre menti, ci incatena a una serratura mentale. Potremmo sfuggire alla sua presa, ma siamo paralizzati. Quegli occhi allucinati ci inchiodano, captando ogni nostra parola.
Manson eviscera frasi scandite ritmicamente: una vertigine di suoni e significati che richiama poeti come Ginsberg e Ferlinghetti, ma anche Baudelaire o Verlaine. Con vigore, egli denuncia la logica del profitto, la cultura massificata, la vita degradata, un senso di disgusto e malessere. Di qui la ribellione contro Dio, la follia, il rifiuto del mondo attraverso la morte.
Proprio nel solco di Ginsberg e del suo celeberrimo “Urlo” («Ribellati contro i governi contro Dio, il cambiamento è assoluto, cogliti a pensare, ricorda il futuro, consiglia soltanto te stesso, l’universo è soggettivo, l’interno del cranio è vasto come l’esterno, la mente è spazio esterno, primo pensiero miglior pensiero, la schiettezza pone fine alla paranoia»), attraversiamo il labirinto.
Cerchiamo il mostro da distruggere. Sciaguratamente, scopriamo che quel mostro ristagna dentro ciascuno di noi.
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Domande da rivolgere a uno psicopatico, di Magda Poli | Corriere della Sera, 5 ottobre 2023
Il buio della scena è sinistramente percorso da rumori, balbetti, urla, gemiti, note, passi, poi rischiarato da didascalie bianche che narrano la vita di Charles Manson, ispiratore ai suoi giovani seguaci di orribili delitti, uno fra tutti nel 1969, il massacro di Cielo Drive, in cui muore l’attrice Sharon Tate, moglie di Polanski, e i quattro suoi amici presenti.
Poi la sagoma di un uomo seduto: è lui l’ergastolano, interpretato, con bravura e tanto impegno da Andrea Argentieri, in inglese con sopratitoli, in Manson di Chiara Lagani e Luigi De Angelis, i Fanny & Alexander.
È uno dei loro “ritratti mimetici” che partendo dall’oralità, video, interviste, riescono a far aderire in profondità l’interprete al personaggio. Il pubblico riceve all’ingresso 35 domande da rivolgere a Manson e così avviene. Ma quanto può interessare entrare nelle dinamiche mentali ed emotive di uno psicopatico, narcisista maligno, manipolatore perverso che sa soggiogare per piegare ai suoi voleri efferati? Ti ritrovi a pensare che tutte le menti individualmente possano essere un po’ Manson; dall’altro ti fa intravedere scorci di una deriva sociale possibile. Spettacolo che racconta il saputo ma lo fa con forza e inventiva recitativa.
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La sera della prima, di Matteo Marelli | FilmTV, 11 ottobre 2023
[…] L’attore. Il ruolo. L’atto. La scena del delitto. Sono soltanto alcuni dei termini che possiamo adoperare per descrivere quello che accade sia in ambito teatrale sia giudiziario. Un’ambiguità semantica che risale all’antica grecia, quando teatro e foro erano luoghi dell’agorà, il centro della vita quotidiana della polis e la sede del choròs, luogo fi incontro e confronto in cui l’uomo veniva messo al cospetto della sua dimensione pubblica, parte di un tribunale chiamato a decretare assunzione o condanna, successo o insuccesso. Di fronte a Manson, nuova creazione dei Fanny & Alexander che ha debuttato in prima nazionale il 29 e il 30 settembre presso il teatro La cucina di Milano, allo spettatore è chiesto di riappropriarsi di questo duplice mandato riscoprendosi membro di una comunità che è al contempo pubblico e giuria popolare. L’imputato è Charles Manson. Emerge dal buio come uno spettro; il suo ingresso è preceduto da frasi secche e taglienti che si compongono di getto su un monitor, abbagliano l’oscurità e ricostruiscono gli eventi. Un attore, Andrea Argentieri, eterodiretto, si fa tramite rivelatore della sua vita occulta con la quale ci mette direttamente in relazione; noi, pescando a casa e volontariamente tra 32 domande di un elenco consegnatoci all’ingresso, lo interroghiamo. Una drammaturgia combinatoria costruita sulle esatte parole pronunciate dal processo, restituiteci da Argentieri nello stesso momento in cui la cabina di regia gliele manda in cuffia. Una seduta spiritica che spalanca il gorgo dell’abisso e ci fa dubitare, parafrasando Manson, che forse non siamo altro che riflessi di tutto ciò che crediamo di sapere. […]
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La strana cartarsi di Nikita e Manson, di Olindo Rampin | PaneAcquaCulture, 10 luglio 2024
Siamo al Festival Inequilibrio di Fondazione Armunia, diretto da Angela Fumarola, e mentre ci trasferiamo in automobile da un teatro all’altro nei dintorni di Castiglioncello, l’occhio è catturato dall’insegna di un locale: Ristorante Catarsi. In auto i passeggeri ridono. Ma no, non è la cara vecchia catarsi aristotelica, la purificazione dell’anima attraverso la tragedia, abiurata da tempo, è solo il cognome dei proprietari, che non hanno pensato alla possibilità del malinteso. Se la catarsi greca antica è oggi irriproducibile, una qualche forma ambigua di purificazione la viviamo però in entrambi gli spettacoli a cui assistiamo: sia in Nikita, il nuovo lavoro di Francesca Sarteanesi e Tommaso Cheli presentato in prima nazionale, sia in Manson di Fanny & Alexander, nei quali in modi diversi siamo coinvolti nell’osservazione del male e dei vizi umani, se è ancora consentito oggi usare termini così netti appartenenti alla sfera morale.
Manson di Fanny & Alexander si presenta invece come la singolare unione di un reportage in forma di drammaturgia sonora e di un processo di resurrezione esoterico. A risorgere è Charles Manson, leader carismatico della setta che nel 1969 trucidò orribilmente la moglie e gli amici del regista Roman Polanski. La prima parte di questo viaggio all’inferno è la lunga sequenza di una scrittura rumoristica, commento sonoro di un testo proiettato su uno schermo che ripercorre cronisticamente l’atroce fatto di cronaca, con perturbante carica emotiva. La scena illumina fiocamente una misera sedia impiegatizia con un sordido neon quadrato, che amplifica il disagio interiore ed estetico di chi guarda. Lo spettacolo sembra destinato a svilupparsi con questa raggelante benché suggestiva struttura narrativa, invece la scena e la sedia che sembrava vuota partoriscono a un certo punto con potente teatralità il “mostro”, risorto grazie alla possibilità generatrice della finzione scenica. Davanti a noi l’uomo, interpretato con abile e controllato istrionismo di sguardi, di accessi d’ira e di filosoferie psicopatologiche da Andrea Argentieri, si presenta in pigiama blu da detenuto, la chioma riccia, gli occhi e le sopracciglia scure, più simile a come immaginiamo gli assassini nichilisti dei romanzi di Dostoevskij, che all’istrionico figlio di una prostituta che si credeva Gesù Cristo, vissuto nell’America degli hippie e dei capelloni degli anni 60, gli anni e il mondo che dispiacevano a Pasolini. In effetti Manson è contemporaneo delle Lettere luterane e degli Scritti corsari, che denunciavano l’esistenza di masse di giovani infelici e criminaloidi, incapaci di distinguere il bene dal male, bruttati per sempre dal nuovo Potere neo-capitalistico, e Manson potrebbe sembrane un campione e un modello, una variante estrema che ha saputo per così dire distinguersi per statura criminale, sottomettendo con deliranti pseudo-concetti subculturali un gruppo di deboli e di disadattati, da lui incredibilmente chiamato Family.
Risorgendo per virtù taumaturgica-teatrale, questo livido manipolatore, questo affabulatore capace di infilare qualche frammento di idea che ha parvenza di senso per poi annegarla in un mare di deliri di onnipotenza e di megalomanie misantrope, riproduce in modo letteralmente mimetico il suo modo di rapportarsi agli altri, rispondendo alle domande del pubblico, preordinate dagli autori e consegnate al pubblico all’ingresso in sala. Più che ritrovarsi davanti a una giuria postuma, Manson può ricreare così la postura farlocca ma pericolosa del leader, del santone, del capo setta che ammannisce le sue scombinate teorie criminali a un’audience disposta per convezione teatrale a conversare con lui su un piano di civiltà, di buona educazione, di par condicio, quasi fosse l’uditorio di giornalisti di una aberrante conferenza stampa – show del Mostro. Con ciò lo spettacolo, più che irretirci nella posizione scomoda di chi problematizza e non giudica, come invitò a fare il vero Gesù Cristo, allestisce con la abbagliante chiarezza verificatrice della finzione teatrale, una perfetta ricostruzione della natura mistificatoria, manipolatoria, sfuggente, ambigua, crudele della personalità di Manson. Quel che inquieta maggiormente è che, pur differenziandosi per l’aspetto specificamente delittuoso e criminale, quel che accade sotto i nostri occhi rimanda, amplificandolo ed estremizzandolo come in un campione di laboratorio isolato a scopo scientifico, al nudo schema-base di molti rapporti umani, del rapporto impari che si instaura tra il leader e i follower, tra la personalità dominante e le personalità dominate. Se ben guardiamo, sembra suggerire Manson, certi aspetti di questo e di altri fatti di cronaca non ricordano, nella cruda e aspra verità, quel che capita, in una versione non illegale e anzi gratificata dal successo e dal plauso sociale, certi meccanismi, nei rapporti di oggi e forse di sempre, tra leader e gregari, tra il capo e i subalterni?