L’isola disabitata


AZIONE TEATRALE IN DUE PARTI
LIBRETTO DI PIETRO METASTASIO
MUSICA DI FRANZ JOSEPH HAYDN

 

Opéra de Dijon
Regia, scene, luci e video Luigi De Angelis | drammaturgia e costumi Chiara Lagani | direzione musicale Fayçal Karoui | progetto di Fanny & Alexander | orchestra composta dai musicisti de l’Académie de l’Opéra national de Paris, des formations supérieures de l’École Supérieure de Musique Bourgogne-Franche-Comté, du CNSMD Paris, du CNSMD Lyon e de la Haute école de Musique de Genève | solisti de l’Académie de l’Opéra national de Paris | Costanza Ilanah Lobel-Torres| Gernando Tobias Westman | Silvia Andrea Cueva Molnar | Enrico Yiorgo Ioannou | drammaturgia e costumi Chiara Lagani | aiuto regia Andrea Argentieri | responsabile allestimento Giuliana Rienzi | creazione elementi di costumistica Emanuela Dall’Agliofoto Mirco Magliocca | Produzione Opéra De Dijon in collaborazione con Académie de l’Opéra national de Paris e con Teatro Alighieri Ravenna | Editions Bärenreiter – Verlag Verlag Kassel – Basel – London – New York – Praha

 

Teatro Alighieri, Ravenna
regia, scene, luci, video  
Luigi De Angelis | direzione musicale Nicola Valentini Dolce concento Ensamble | fortepiano Jacopo Raffaele | interpreti Krystian Adam, Giuseppina Bridelli, Anna Maria Sarra, Christian Senn | drammaturgia e costumi Chiara Lagani | aiuto regia e video Andrea Argentieri | responsabile allestimento Giuliana Rienzi | riprese con drone Klaudio Sota| tecnico luci Gianni Gamberini | calzature Emanuela Dall’Aglio 
produzione
 Teatro Alighieri di Ravenna | co-produzione Opéra de Dijon | in collaborazione con Fanny & Alexander / E Production | Editore proprietario Bärenreiter-Verlag, Kassel, rappresentante per l’Italia Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano


“Per i Romani l’insula era la casa, il complesso di spazi interni ed esterni di un’abitazione. In neurologia, nell’anatomia cerebrale l’insula è la nostra parte più connessa con l’empatia e le emozioni dolorose: gioca un ruolo fondamentale nelle esperienze interpersonali, nell’auto-consapevolezza e funzioni cognitive, oltre che nei traumi e nelle loro fissazioni. Da subito mi è sembrato che nell’opera di J. Haydn l’isola fosse una metafora di una condizione interiore, di uno stato d’animo che forse, in questo preciso momento storico, ci riguarda da vicino.
La protagonista, Costanza, ha il cuore indurito come la pietra che incide ogni giorno, per lasciare a futuri viaggiatori il suo messaggio di rabbia per la violenza subita: l’essere stata abbandonata dal marito assieme a una sorella molto piccola in un’isola selvaggia, lontana dalle “bellezze Europee”.
Ma il vero punto è forse proprio la sua insula che non le permette di sviluppare una nuova strategia di elaborazione della perdita, il suo è uno stato di fissazione del dolore e del trauma da cui, priva com’è di un vero contatto con il mondo, con la realtà, non riesce più a sollevarsi. Non può accorgersi della bellezza naturale dell’isola, a differenza della sorella Silvia, perché il suo sguardo può rivolgersi solamente alla propria ferita. La pietra che incide ossessivamente, con “costanza”, è immagine esteriore del suo inceppo emotivo, è una pietra piena di scanalature, di ferite, come se non ci fosse prospettiva diversa per lei se non quella dello sguardo della pietra. Lo sguardo della pietra è il suo modo di giustificarsi un presente di lutto e di privazione, nell’impossibilità di trovare altre spiegazioni.

Quando si vive un tempo lungo su un’isola o, come è successo a noi, chiusi tra le mura di una casa, si è sempre connessi con un’orizzonte lontano. Dal mare, da fuori, potrebbe arrivare la sorpresa di una visita, una minaccia oppure la salvezza, l’avvento di una forza straniera. La presenza del mare, la sua profondità, i suoi movimenti e umori di superficie, indotti dai venti, influiscono sul nostro stato d’animo, sono per noi specchio emotivo. Il mistero di un fuori attraente e repulsivo, che ci è precluso muta il rapporto che abbiamo coi nostri desideri, perfino col nostro stesso corpo. Il rapporto col fantastico e con la dimensione del sogno cambia, perché la costrizione perimetrale attiva la tensione potenziale dell’attesa, impregnata di fantasmi, e chiama l’avvento di immagini inconsce.
Ogni isola è un carcere naturale, non a caso il confino veniva fatto in piccole isole, pensiamo a Ventotene. L’isola di Marettimo, nelle Egadi, che fa da sfondo immaginale nei filmati proiettati nella messa in scena della nostra Isola Disabitata, era essa stessa un carcere. Marettimo è un’isola molto selvaggia, battuta dai venti, senza strade, percorsa da sentieri impervi, le cui rocce sono aguzze, dure, striate, dolomitiche e rimandano a antiche ferite.
Forse tutti ci porteremo a lungo la sensazione del confinamento, dell’isolamento, del dover fare i conti con un perimetro vitale limitato, in cui la nostra abitazione, la nostra insula, il suo “bordo” hanno dovuto per necessità corrispondere all’immagine interiore del nostro “mondo”. Ogni esplorazione più ampia, in questo tempo di sospensione del confinamento, è stata necessariamente demandata all’immaginazione, alla creatività, allo scarto di fantasia, alle pareti permeabili e pulsanti del sogno.

Per questo assieme a Chiara Lagani abbiamo immaginato che Costanza, anzi che la cantante che interpreta Costanza, scivoli in un sonno profondo, nel proprio camerino, appena prima della messa in scena dell’opera stessa: è appena arrivata a teatro e preparandosi si addormenta, sogna. Nel suo sogno continuamente i piani della realtà e quelli metaforici dell’Isola Disabitata si confondono. C’è una sottile corrispondenza tra l’insula interiore, la propria abitazione e i contorni sfuocati e cangianti dell’isola della narrazione. La sua mente è l’isola stessa, noi spettatori siamo testimoni delle sue proiezioni interiori più segrete e delle metamorfosi in essa in atto. È un’isola disabitata, che non contempla più la potenzialità relazionale. L’altra cantante, che nel sogno e nella storia è sua sorella Silvia, rappresenta il suo tramite con il fuori, con lo sguardo che si apre all’aperto e che può contemplare un’orizzonte lontano, sconosciuto, da cui farsi sedurre, vale a dire rapire, condurre in un territorio nuovo, straniero. Silvia rappresenta il suo doppio più animalesco e naturale, fanciullesco, ancora genuino e fluido, non irrigidito, non intaccato dall’esperienza del dolore dell’abbandono e dall’incapacità di accettare la separazione. È il suo ultimo e unico tramite con la vita, con un futuro altro da quello dell’isolamento. E sarà tramite la prospettiva di Silvia e del sogno1, che riuscirà a sciogliere la sua corazza di pietra, e a ribaltare il proprio sguardo sul genere umano, ritrovando la perduta armonia e fiducia nell’altro.
Grazie alle circonvoluzioni labirintiche del sogno e alla prospettiva immaginale onirica, è possibile il ritorno alla potenza specchiante del teatro, dove tutte le linee e i piani apparentemente distanti possono convergere e convivere grazie alla loro natura polimorfa e ambigua, indicandoci la ricchezza intrinseca di un sentire dialogico, empatico, relazionale, collettivo. Nella storia Costanza e Silvia, chiarito l’equivoco dell’abbandono, possono tornare alla loro vita e all’amore. Ma anche per noi, adesso, il tema del ritorno si accende di un nuovo, emozionante senso di responsabilità. L’Isola rappresenta allora la città tutta, una città disabitata, sospesa, svuotata, percorsa dalle molteplici traiettorie degli sguardi interiori, proiettivi, individuali, desideranti, uniti nel tentativo di superare il senso comune di perdita. Haydn ci regala in questo un finale conciliante, dove tutto, rapidamente, miracolosamente, si armonizza e ci strappa un sorriso.” (Luigi De Angelis)

1 “Ho sognato pocanzi o sogno adesso?”. Così Costanza nel libretto di Metastasio dopo essersi ripresa dallo schock per aver rivisto il marito dopo tredici anni di lontananza e abbandono.

 

Debutto: Teatro Alighieri, Ravenna, sabato 23 ottobre 2021 ore 20.30, domenica 24 ottobre 2021 ore 15.30
Ripresa dell’allestimento: AuditOrium de l’Opéra de Dijon, sabato 27 ore 20 e domenica 28 novembre 2021 ore 15

 

RASSEGNA STAMPA

PATRIZIA LUPPI, L’ISOLA DISABITATA: TRA ISOLAMENTO E NATURA
DANIELA GOLDONI, L’ISOLA DISABITATA
ALESSANDRO RIGOLLI, UN’ISOLA POPOLATA DI SENTIMENTI

 

L’isola disabitata: tra isolamento e natura | Patrizia Luppi, Le Salon Musical | 23 ottobre 2021

Inaugurazione fresca e brillante, per la stagione lirica del Teatro Alighieri, con un titolo di raro ascolto. L’isola disabitata è pochissimo nota in Italia, come in generale tutta la ricca produzione operistica di Franz Joseph Haydn, ma è anche uno dei suoi lavori meno diffusi in campo internazionale. Rappresentata per la prima volta nel 1779 a Esterháza, non nel teatro di corte devastato da un incendio bensì nel più piccolo teatro delle marionette, prevede a causa delle circostanze un organico ridotto e la partecipazione di quattro soli cantanti.

La vicenda che si svolge nel libretto di Metastasio, già messo in musica tra gli altri da Jommelli e da Traetta, è facile da riassumere. Due sorelle, Costanza e Silvia (nomina sunt omina), vivono sole in un’isola deserta dove erano sbarcate tredici anni prima con Gernando, marito della maggiore, che poi è scomparso. Costanza si crede abbandonata ed è perpetuamente immersa nel dolore; Silvia, molto più giovane, non ricorda nulla dell’esistenza precedente e gode della vita semplice che conduce, immersa nella natura dell’isola. Gernando, che era stato rapito dai pirati, torna a cercare la moglie con l’amico Enrico. Dopo qualche equivoco, da cui discendono anche situazioni comiche, la coppia si ricompone e nel frattempo anche Enrico e Silvia scoprono di amarsi.

La partitura di questa «azione teatrale in due parti», di durata ridotta, inizia con una Sinfonia apparentata per carattere alle maggiori dello Sturm und Drang. Stimolato dall’ascolto dell’Orfeo ed Euridice di Gluck, Haydn elimina radicalmente i recitativi secchi e affida alla piccola orchestra, tra recitativi accompagnati e arie, un continuum musicale che precorre le consuetudini ottocentesche. Il finale, di estese dimensioni, è un Quartetto che riunisce le voci degli interpreti e le accompagna con mirate scelte di strumenti concertanti: violino e violoncello per Costanza e Gernando, flauto e fagotto per Silvia ed Enrico.

Il tema dell’isolamento e la sua relazione con la nostra situazione attuale sono stati fonte d’ispirazione per il regista Luigi De Angelis, che ha assunto la cura dell’intero spettacolo con Fanny & Alexander, la compagnia teatrale di cui è stato il fondatore con Chiara Lagani. Autore anche di scene, luci e video (questi ultimi con Andrea Argentieri), De Angelis ha immaginato l’intera storia come un sogno di Costanza che dal Teatro Alighieri sposta l’azione nella rocciosa isola di Marettimo, nelle Egadi.

Le immagini riprese sono proiettate sul velario scorrevole percorso da tagli in verticale, come un’immensa frangia che fa da sfondo all’azione, ma diventa anche selva dove i personaggi si cercano e si celano. I costumi, tra scintillio di lustrini e stampe animalier, sono firmati da Chiara Lagani, che ha curato al contempo la drammaturgia; le loro caratteristiche si riferiscono sia all’aspetto elfico della natura delle sorelle sull’isola sia ai criteri di eleganza di quel mondo borghese a cui Costanza aspira a tornare, ma anche al desiderio di una femminilità che si rivelerà poi pienamente negli abiti da sera indossati dalle due interpreti nel Quartetto finale.

Pur con costumi di taglio odierno, Luigi De Angelis però non ha voluto attribuire una prospettiva storica alla vicenda: la sua lettura si è rivolta agli aspetti psichici e simbolici dell’opera. Per dirne uno, la pietra che Costanza porta sempre con sé e che è l’immagine del pesante dolore che l’accompagna. Già più volte impegnato in campo lirico, anche se in quest’occasione per la prima volta nel maggiore teatro della sua città natale, De Angelis ha impresso alla sua regia una scorrevolezza e una fluidità che i bravi cantanti-attori (Giuseppina BridelliAnna Maria Sarra, Krystian AdamChristian Senn) hanno assecondato con una recitazione di grande naturalezza e con qualità vocali non uniformi, ma nel complesso pregevoli.

Lo scambio e la collaborazione costanti tra regista e direttore d’orchestra, come si usava in altri tempi per un teatro d’opera ben fatto, hanno contribuito grandemente alla resa dello spettacolo. A reggere le fila musicali era un altro ravennate al debutto all’Alighieri, Nicola Valentini. Con il suo Ensemble Dolce Concento di strumenti storici, il direttore ha stabilito un ottimo rapporto con il palcoscenico arricchendo la sua lettura, stilisticamente appropriata e ben caratterizzata, con sottolineature preziose e interventi vividi degli strumenti, tra i quali non guastava la tinta a volte un po’ acidula del violino solista.

Un’inserzione affidata a due trombe naturali, una sorta di fanfara, lasciava il tempo ai cantanti di disporsi in platea, di fronte agli spettatori, per il Quartetto finale; alla fine anche Valentini, continuando a dirigere, dalla buca si spostava accanto al pubblico. Il velo che separa la dimensione teatrale da quella della realtà si annullava così in un’emozionante coscienza di condivisione. Una conclusione a effetto dall’esito felice, così come l’intero spettacolo: il pubblico che affollava il Teatro, finalmente a piena capienza, ha applaudito a lungo con fervore.

 

L’isola disabitata | Daniela Goldoni, Operaclick | 26 ottobre 2021

Un teatro come un’isola. Un’isola generatrice di mondi infiniti che, per l’occasione, contiene un’altra isola, quella disabitata inventata da Pietro Metastasio e messa in musica da Franz Joseph Haydn per il suo committente, il principe Nicolaus Esterházy che aveva costruito per sua gloria e diletto un palazzo delle meraviglie in una campagna remota, talmente periferica che tutt’ora è sperduta nel nulla al confine tra Austria e Ungheria. Un’isola deliziosa ed elegante, in cui radunava tutta la sua corte e che voleva sempre ricca di musica e di intrattenimenti raffinati. Proprio qui rimase per parecchi anni Haydn, e qui compose gran parte dei suoi melodrammi che venivano rappresentati nel teatro di corte, assieme ad altri degli autori suoi contemporanei. L’isola disabitata nasce qui, in una cattività privilegiata ma ristretta per gli orizzonti di una personalità vivace come quella del suo grande maestro di cappella.

L’isola come luogo chiuso con tutte le sue metafore, molto pertinenti in un periodo che risente ancora delle restrizioni dovute all’epidemia, è al centro della narrazione teatrale creata da Luigi de Angelis, regista, scenografo, autore dei video che accompagnano le azioni, nonché delle luci, eccellenti. L’edificio del Teatro Alighieri e le sue mura divengono parte viva dell’azione, proiettate durante la sinfonia su quinte delicate, formate da pannelli stretti e allungati, che si muovono leggeri come quelle tende estive che permettono il passaggio dell’aria. Qui, nel teatro deserto entrano le giovani cantanti, avvolte in cappotti voluminosi e barbarici con scarpe di pelliccia e calze animalier, e presto passeranno sul palco. Su un divano di velluto dorme Giuseppina Bridelli, Costanza, la maggiore di due sorelle. Presto è raggiunta da Anna Maria Sarra, Silvia, la minore. Lei è nata sull’isola e lì vive serenamente, non ha mai visto altri mondi. Costanza invece vi è giunta in seguito ad un naufragio in cui ha perso il marito Gernando. Da allora non smette di incidere sulla pietra le sue sventure, lei purtroppo può ricordare luoghi diversi e tempi migliori. Presto giungerà all’orizzonte una nave, da lì sbarcheranno Gernando (Krystian Adam) ed Enrico (Christian Senn).  Dopo i presumibili equivoci e le usuali reticenze si andrà verso il ricongiungimento degli sposi separati dalla sfortuna e la nascita di un sentimento amoroso tra Silvia e il nuovo arrivato.

La storia è tra le più lineari e l’allestimento ne sottolinea i lati più intimi, puntando sulla cura dei recitativi, che espongono i sentimenti e costituiscono il corpo principale dell’opera. Spesso confluiscono naturalmente nelle arie, piane e scevre di abbellimenti e virtuosismi. Poiché Haydn scelse di non adottare la formula corrente dei recitativi secchi, l’orchestra diviene protagonista creando magnifici accompagnati che danno una particolare cifra stilistica all’opera. L’orchestra asseconda gli affetti, e spesso pare essere essa stessa accompagnata dalle linee del canto, che si pone come uno strumento aggiunto.

I quattro protagonisti hanno in comunque la pronuncia perfetta, la dizione ben scandita e il dono di far vivere le parole, requisiti indispensabili per fornire una lettura credibile di un lavoro che vive di sfumature. Sono cantanti completi, attori di scena e di parola, lontani anni luce dalle incrostazioni di maniera e dalla fretta con cui si soleva liquidare i recitativi come pesi morti, confusi e quasi del tutto incomprensibili.

Giuseppina Bridelli è la più tormentata. Rimpiange un mondo perduto e non sa uscire da un dolore che la paralizza. Soffre con asciuttezza e dignità, rifugge dai languori e ha il pregio di non risultare mai lagnosa, sempre composta nel dolore anche quando canta reggendo tra le mani la pietra simbolo della sua sofferenza (“Ah che in van per me pietoso”). Il suo è un lamento classico e austero, ammirevole per dignità.

Anna Maria Sarra è Silvia, ragazza alla scoperta della vita, una versione gentile e garbata del buon selvaggio. È una figlia della natura che l’isola ha preservato dalle brutture del mondo esterno. Scopre l’amore ed è capace di trasmettere lo stupore del primo incontro. Il timbro sopranile è fresco e limpido, perfetto per chiarezza nei recitativi. Nelle arie lascia qualche dubbio, non tutti i registri sono omogenei per cui l’emissione a volte perde in fluidità. Gli acuti però sono squillanti e sicuri, soprattutto festosi nel gran finale dove si esibisce in un paio di puntature molto divertenti. Si muove con grazia ed eleganza sulla scena, sempre perfettamente nel personaggio anche quando zoppica su uno zoccolo cavallino su cui improvvisa movimenti danzanti.

La coppia di uomini arriva in scena con impermeabili e stivali da balenieri, tutti neri ma per nulla minacciosi. Enrico, prossimo innamorato di Silvia, è il basso Christian Senn. Ha una voce importante che riesce ad adeguare alle esigenze di un’opera che vive di chiaroscuri, riuscendo a non apparire sovradimensionato anche per la sua aderenza allo stile dell’epoca.  Alla voce fa seguito una presenza scenica incisiva, immediata e comunicativa. Gernando, perduto e ritrovato, è il tenore Krystian Adam che conferma ancora una volta le sue eccellenti qualità. La voce è chiara e dolce, l’emissione è perfetta e la linea di canto, ammirevole ed espressiva, non cessa di stupire. Non butta mai via una nota e neppure una sillaba, ideale per la parte e per questo repertorio.

Nicola Valentini, alla direzione del Dolce Concento Ensemble, ha dato il tono all’intera rappresentazione, essendo l’orchestra forse la principale protagonista della partitura haydniana. Forte ma non prevalente, importante ma non prevaricante, assertivo nel finale, delicato e danzante, sensibile negli accompagnati, il Dolce Concento ha sostenuto l’opera servendo alla grande il genio di Haydn, con quella leggerezza che sembra venire da sé. Il finale trionfale, una marcia con trombe e l’intero quartetto di voci in platea, è stato un gran divertimento, sulle immagini della città di Ravenna e delle porte del teatro Alighieri, finalmente riaperte.

Il pubblico ha applaudito senza riserve il cast, il direttore, i registi. Le chiamate sono state innumerevoli e alla fine è stato concesso un bis dell’ultima parte del gran finale.

 

Un’isola popolata di sentimenti | Alessandro Rigolli, Giornale della Musica | 27 ottobre 2021

È tutto un pullulare di sentimenti questa lettura de L’isola disabitata di Franz Joseph Haydn, titolo scelto per inaugurare la stagione 2021-2022 del teatro Alighieri di Ravenna grazie a un nuovo allestimento dello stesso teatro realizzato in coproduzione con Opéra de Dijon e in collaborazione con Fanny & Alexander.

Sentimenti, dunque, che si sciolgono negli affetti i quali, declinati in vario modo nel corso della narrazione, accompagnano tutto lo svolgersi di una vicenda che trova la propria genesi negli scarti interpretativi proposti nella Sinfonia iniziale, momento strumentale ben riuscito e oasi espressivo-strumentale più efficace dell’intera serata. Protagonista un’orchestra Dolce Concento Ensemble che, pur nella funzionale coerenza complessiva – sostenuta dal generoso impegno nella direzione di Nicola Valentini – ha sofferto in tenuta generale specie nell’ultima parte della rappresentazione, almeno in occasione della serata d’esordio che abbiamo seguito.

È tutto un pullulare di sentimenti questa lettura de L’isola disabitata di Franz Joseph Haydn, titolo scelto per inaugurare la stagione 2021-2022 del teatro Alighieri di Ravenna grazie a un nuovo allestimento dello stesso teatro realizzato in coproduzione con Opéra de Dijon e in collaborazione con Fanny & Alexander.

Sentimenti, dunque, che si sciolgono negli affetti i quali, declinati in vario modo nel corso della narrazione, accompagnano tutto lo svolgersi di una vicenda che trova la propria genesi negli scarti interpretativi proposti nella Sinfonia iniziale, momento strumentale ben riuscito e oasi espressivo-strumentale più efficace dell’intera serata. Protagonista un’orchestra Dolce Concento Ensemble che, pur nella funzionale coerenza complessiva – sostenuta dal generoso impegno nella direzione di Nicola Valentini – ha sofferto in tenuta generale specie nell’ultima parte della rappresentazione, almeno in occasione della serata d’esordio che abbiamo seguito.

Materia musicale e materia narrativa, si diceva, che in questa occasione si fondono in un’opera che rappresenta una tappa che Haydn ha segnato nel suo percorso di confronto con quella materia viva e dinamica rappresentata dal teatro musicale attorno al 1779, anno di composizione di questa partitura. Nel mezzo del guado rappresentato dalla tradizione incarnata dall’opera seria italiana da un lato, e dalle tensioni riformiste gluckiane dall’altro, il mestiere di Haydn ha saputo raccogliere in queste pagina una materia musicale se non rivoluzionaria, dotata tuttavia di una significativa pregnanza espressiva nella cui misura si possono rintracciare passi drammaturgici certamente apprezzabili. Elementi capaci di vivacizzare la vicenda narrativamente pressoché immobile – Gernando rapito dai pirati è costretto ad abbandonare Costanza e la giovane Silvia su un’isola deserta, per poi ritrovarle anni dopo accompagnato dall’amico Enrico – del testo scritto da Metastasio a Vienna nel 1752 e messo in musica in precedenza, tra l’altro, anche da Jommelli e da Traetta. Tutto questo a prescindere alla tiepida accoglienza ricevuta sia al debutto dell’opera presentata a Eisenstadt nel dicembre 1779, sia alla ripresa moderna, avvenuta all’Opera di Vienna nel 1909.

Nella presente lettura, al tempo stesso attualizzante e, in qualche modo, atemporale, il lavoro di Haydn ha trovato quindi una dimensione coerente in quella sorta di leggerezza restituita da un impianto scenico che Luigi De Angelis – regia, scene, luci e video – ha immaginato coniugando videoproiezioni – un poco didascaliche quelle dedicate alla città di Ravenna, più evocative quelle di segno naturalistico – con essenziali elementi scenici: un divano con pouf, manichini, una pietra che – simbolicamente e in maniera un poco ridondante – diventa sempre più grande nel corso della narrazione.

Vestiti dai costumi di Chiara Lagani – che ha curato anche la drammaturgia – non più che funzionali e un poco curiosi nel giuoco se vogliamo simbolico rappresentato dall’evoluzione delle calze “animalier” del personaggio di Silvia, i quattro protagonisti si sono ritagliati con bella freschezza i propri momenti di protagonismo. Ecco dunque la Costanza nutrita di misura ed efficace decoro di Giuseppina Bridelli, la Silvia convincente e vivace – quasi ad incarnare una sorta di declinazione femminile del Cherubino mozartiano – di Anna Maria Sarra, il più che funzionale Gernando di Krystian Adam, e l’accoratamente corretto Enrico di Christian Senn.

Quattro personaggi tutti protagonisti di una vicenda che, dall’abbandono iniziale al ritrovamento conclusivo, ha saputo comunque coinvolgere positivamente il pubblico presente al teatro Alighieri, a giudicare dagli applausi che hanno salutato questa azione teatrale in due parti, meritoriamente proposta nella sua dimensione di atto unico.