ALICE VIETATO > 18 ANNI
ideazione Chiara Lagani e Luigi De Angelis | scene, luci e musica Luigi De Angelis | drammaturgia e costumi Chiara Lagani | con Virginiasofia Casadio, Sara Masotti e Marco Molduzzi | realizzazione scenotecnica Claudio Pamelin, Sara Masotti, Marco Molduzzi, Simone Gardini, Marcantonio Raimondi Malerba e Marco Cavalcoli | sartoria Laura Graziani Alta Moda | accessori e abito in carta Monia Strada e Manuela Ballot | fotografie Enrico Fedrigoli | promozione Sergio Carioli | ufficio stampa Marco Molduzzi | amministrazione Antonietta Sciancalepore e Marco Cavalcoli | produzione Fanny & Alexander e CRT – Centro di Ricerca per il Teatro di Milano | in collaborazione con Xing e Ravenna Teatro | con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna | Si ringraziano Luigi Ceccarelli, Âniko Ferreira da Silva, Francesco e Massimiliano Borghesi, A.Zapruder filmmakersgroup
Questo mondo delle meraviglie è una wunderkammer, una piccola stanza, quasi tremenda e trasfigurata aula scolastica,
è il dispositivo della vera soggettiva di Alice:
offre protezione, ma contemporaneamente espone incondizionatamente allo sguardo.
È un’impeccabile struttura del terrore e del fantastico:
esiste un solo punto di vista
un solo territorio dal quale
ogni immagine sognata, fondendosi con il reale,
appare intrisa
sempre di nemica e frodolenta
onnipotenza: l’infanzia.
TOUR
30/31 marzo 2005 | Bergamo, Auditorium di Piazza della Libertà
23 giugno 2004 | Faenza (RA), Casa del Teatro, Colpi di Scena
23 – 28 marzo 2004 | Roma, Teatro Vascello, ETI, La scenza senza confine
10-20 dicembre 2003 | Milano, Studio Kappa, CRT Centro di Ricerca per il Teatro – Milano
15 novembre 2003 | Marmirolo (MN), Teatro Comunale, Cattive Compagnie
6 / 7 agosto 2003 | Tampere (Finlandia), Tampere-talon Studio, Tampere International Theatre Festival
16/17/18 luglio 2003 | Bologna, ex Bologna Motori, Viva Bologna, Comune di Bologna, Xing in collaborazione con Santarcangelo dei Teatri
10/11/12/13 luglio 2003 | Rimini, Teatro Novelli, Santarcangelo dei Teatri
4/5/6 aprile 2003 | Scandicci (FI), Teatro Studio, Ai confini della realtà
28-29 marzo 2003 | Parma, Teatro delle Briciole
5/6 marzo 2003 | Ravenna, Teatro Rasi, Ravenna Teatro
17 – 26 gennaio 2003 | Ravenna, Ardis Hall, NOBODADDY
APPROFONDIMENTI
LA BAMBINA E IL MOSTRO
di Chiara Lagani e Virginiasofia Casadio
Mi sono immaginato mentre mi mettevo alle spalle di un autore: prendevo un bambino e glielo davo. Questo bambino era il suo, ma era un mostro. È importante che fosse il suo, perché doveva fargli dire esattamente quello che io volevo, ma è anche importante che fosse un mostro, perché doveva attraversare ogni forma di travisamento, scandalo, rottura, emissione segreta – G. Deleuze
CHIARA: Alice vietato >18 anni è una storia di viaggio, di sforzo, di pazienza. Nella sua qualità di viaggio questo sforzo assomiglia ad un cerchio, per me. Questo lavoro non ha per me precise geometrie: abolito lo spazio, abolite le direzioni, per la prima volta sento di potermelo permettere. C’è solo questo grande movimento, circolare proprio, un cerchio in cui posso camminare a lungo, ma in cui in pochi passi posso anche improvvisamente toccare qualcos’altro, di più scuro e grave.
Per tutto il tempo ho avuto questa sensazione di piacevole passeggiata nella penombra, nelle nebbie dei fumi che imperversano nell’auletta-scena-gomma in cui Virginia sta chiusa; là davanti, proprio davanti a me, c’era una piccola manina, la mano che conduce senza condurre, che apre un gesto e una via già molte volte toccata, molte volte sfiorata.
Lavorare con Virginia è per me una strana alchimia di languori, nostalgie e corrispondenze: qualcosa che sta tra lo scoprire e il lasciarsi scoprire, il portare segni e figure e il lasciarsene attribuire da lei o di fronte a lei. Tutto era proprio là, fin dal principio, fin dai goffi salti su un bianco materasso di gommapiuma, fino dai Ciarlestroni mandati a memoria e poi provati tra finti svenimenti: tutto era già là, ne sono sicura, ma sono altrettanto sicura che tutto solo oggi vi è veramente.
È bastato seguirla, questa strana, evanesce dodicenne, dagli occhi intagliati su un prezioso pallore, seguirla e andare di là, verso quell’oltre dello specchio, là, dove non sai mai davvero cosa c’è.
VIRGINIA: Là c’è una bambina che vede attraverso lo specchio, vede un altro mondo e allora cerca di entrarci: questo mondo è fatto come una scacchiera e lo scopo della bambina è certo diventare la regina là. Quando entra, poi, succedono tante cose che lei non sempre capisce, ma alla fine credo che ce la faccia. Almeno, nel suo sogno, ce la fa.
CHIARA: Il destino della bambina viene tracciato fin dal principio in modo assolutamente preciso (da Regine Bianche e molto di più), ma non tale da trascurare la sua specifica natura: questo mostra, nel compimento stranamente leggero che proprio lei infine trova, quanto ci sia di volgare e frivolamente disonesto nell’affannato tentativo della pedagogia moderna, nei discorsi sulla “libera espansione del carattere, sul trauma dell’autorità, sull’imperativo della promiscuità coatta con altri bambini”. Virginia qui è sola, assolutamente sola, assolutamente priva di indicazioni psicologiche, assolutamente priva di maestre e maestri (tranne quella gigantessa che campeggia in scena accanto a lei, che è poi una falsa maestra e un vero mostro), assolutamente priva di falsa libertà, già mescolata alla cruda aria del mondo, eppure reclusa, in una gabbia gommosa, bambina giocosa e ferale.
VIRGINIA: Io non sono una bambina.
VIRGINIA: Di fatto quel che succede è questo. Arrivo lì, e c’è qualcuno che mi dice le cose che devo dire, io le ripeto, ma con le mie parole… no, veramente non proprio del tutto con le mie e nemmeno proprio del tutto con quelle che mi dicono gli altri… poi qualcuno mi dice cosa devo fare. C’è sempre qualcuno che racconta una storia e tu poi fai delle cose.
Riguardo alle cose da ricordare, invece, quelle non mi fanno paura: io ho molta memoria. All’inizio però ero molto imbarazzata. Mi divertivo ma non trovavo le parole, non uscivano da lì. Poi mi sono abituata, conoscevo di più tutto e tutti, le parole si infilavano meglio, conoscevo più anche quella creatura là, che dovevo essere io nello spettacolo. Ma non è stato semplice da subito.
CHIARA: Le parole di Alice non sono affatto semplici da subito. Alice parla una lingua quasi incorrotta, potremmo dire: la deforma fino all’inverosimile eppure mantiene sempre quell’ordine esatto, liturgico delle parole. Anche il suo spazio è qualcosa di nient’affatto semplice: è tutto fatto di divieti, di confini invisibili tra le cose, simili ai lacci della metrica alle rime dure del senso e del nonsenso. C’è un nesso formidabile che avvince parola e spazio fisico qui, la stessa identica legge li governa, la legge della lettera e del capovolgimento. Occorre molta fede ad Alice per riconoscere la forma delle sue parole nel caos di ciò che le accade veramente. La memoria vi insiste a volte sino al doloroso tormento. Ho un’immagine di Virginia accovacciata, che si abbraccia le ginocchia, in silenzio. Attende che le parole si sistemino nella sua testa, fa un grande sforzo per dare alle parole questo ordine che sente esatto, e dice: “aspetta, aspetta un attimo prima di farmi cominciare”. Poi inizia la scena. Abbiamo lavorato così, a canovaccio, esperienza inedita per me, tra silenzi, attese, e scoppi improvvisi, grappoli di parole fiorite d’un tratto nel culmine dello sforzo. Non ho mai scritto, per tutta la durata delle prove non ho avuto la necessità, così familiare per me, di fermare qualcosa con la scrittura. La scrittura come esigenza tecnica, e finale, in presenza di una strana parola o lingua perfetta che nell’atto di scriverla si cancella. Come posso scriverle queste parole?
VIRGINIA: Io penso che le parole più belle sono quelle scritte. Io scrivo tutto il giorno messaggi sms. Scrivere così vuol dire non vedere la persona in faccia, mentre le parli. È anche uno svantaggio, a volte. Ma ti senti protetto. Alice non scrive per questo motivo, però. Lei scrive per sottolineare la stranezza delle parole, forse. Ad esempio, nella scena con Humpty Dumpty: lui parla e lei scrive alcune delle sue strane parole sul muro. Le piace molto scrivere. Anche a me piace molto scrivere.
CHIARA: Ci sono tante fotografie di Virginia che tappezzano Ravenna. Il manifesto trittico di Alice vietato>18 anni.
VIRGINIA: Ah, le fotografie. Questa è una cosa molto personale, non so se… Quella in cui sono di fronte è bella, ma sono molto scura da una parte e poi si vedono troppo i nei, il che non mi piace. In una di quelle di profilo si vede l’occhio, troppo. L’altra lascia vedere meno difetti. È la migliore.
CHIARA: Ho visto un residuo di manifesto-trittico appeso al muro di una strada, a Ravenna: è già pallido, ingiallito. Sono passati svariati giorni dallo spettacolo, forse un mese. In questo mese sono successe molte cose tragiche. Eppure basta una mera fotografia, un’immagine semplice e trina, perché certi segni, geroglifici dorati, magari modesti, di presagito splendore, riacquistino di colpo lo spessore misterioso della stessa arcana presenza; un ordito di fili della Vergine teso dietro un groviglio selvatico e scintillante. Ricordo la prima cosa che mi disse Enrico Fedrigoli, il fotografo che lavora con noi, sul trittico di Virginia: sembra una Madonna dolcissima, ma ha anche la durezza spietata del minatore, di chi scava il marmo. Solo per i “laici del ricordo” quella carta di pochi giorni è adesso ingiallita e consunta: tutto quel giallo è per me un condensato di luce, è tutti quei pomeriggi abbacinati, ombrosi e dolcemente disseminati di piccole spie, di modesti richiami, sussurri, messaggetti al telefonino, buchi della memoria, noia, scoramenti, merende gratificanti e compensatorie, voci assorte dentro uno spazio chiuso.
CHIARA: A volte mi chiedevo: chissà se ce la faremo, chissà se attraverseremo questo specchio, alla fine; entreremo in quelle stanze, in quei recessi tanto attesi e immaginati, fino dall’infanzia? Forse non al di là di quel nudo vetro, non io almeno, non al di là di quel velo d’acqua che talora scende sottile, e appanna la visione. Non io, ma forse lei può. Forse.
E, anche questa volta, è necessario dirlo? Non è il risveglio da un sogno a fermarci, mai, non è il sapere che stiamo solo provando uno spettacolo, con tutti i suoi conosciutissimi impigli e misteri, ma è ancora una volta quella sovrabbondanza, quasi mortale, felicità dello sguardo che incontra gli oggetti desiderati e così si appaga, senza possesso alcuno.
Allora, Virginia, facciamo finta che tu non riesci più a vedere, niente di niente, guarda un po’ in su, poi scendi piano, e ti addormenti dolcemente, dopo sarai di là. Te lo prometto. Qualcuno ha condotto il sogno per mano, forse l’adulto potrà aprire la credenza più alta, ma, o incompetenza! “Dagli occhi bendati e luminosi dell’infanzia non può raggiungerci, in sogno, che uno sguardo tenue e filtrato”: eppure… che contentezza!
CHIARA: E cosa ne pensi degli oggetti che stanno là dentro?
VIRGINIA: Gli oggetti che sono in scena sono bellissimi. Mi piace molto la ventosa anche se mi dà fastidio che non si appiccichi più al pavimento come faceva prima. Gli ho staccato tutta la gomma nel fondo, quella che fa presa, una volta che ero nervosa. Mi piacciono anche le gambe di gomma del tavolo, perché si staccano e si riattaccano.
CHIARA: Da piccola ti piaceva travestirti.
VIRGINIA: Da piccola mi travestivo. Facevo delle scenette, delle storie. Mia mamma ha lavorato per qualche tempo in un negozio di antichità. Avevo trovato là un bastone, mi ero coperta con alcuni veli, vestita da vecchia, insomma. Avevo un contenitore per raccogliere l’elemosina. La gente rideva nel vedermi fare la carità.
Qui però mi sento proprio Alice. È simile a me, anch’io faccio certe cose che fa lei: sono curiosa, parlo spesso da sola. Faccio molte domande.
CHIARA: La bambina non ha nessuno. È orfana di chiunque. Incontra svariate creature che non sono di questo mondo. Ma più di tutti incontra il suo mostro. La bambina prova ogni giorno tre ore di fila, con pazienza, precisione, estrema competenza. Questa è l’avventura dello specchio. Ma la bambina non lo sa. Quand’è che il mostro si trasforma in qualcosa d’altro? Quando la sua presenza non è più necessaria, né come sorella, né come maestra, né come adulto che dà indicazioni di scena, né come creatura soprammercato.
La bambina resta sola, attenta, tutta tesa nello sforzo di ricordare una parola, quella della canzone mai più udita. La metamorfosi del mostro è quella della bambina, ed è del tutto ragionevole, a questo punto, che il mostro diventi da oroscopico caronte bambina lei stessa, ritorni indietro, nel lungo percorso piatto, immobile, appena trascorso. Per condurre a tale finale la bambina, il mostro-maestra sfidò la morte, lavorò giorno e notte con dedizione e dissennata follia, apparendo alla bambina reclusa, chiusa nell’egida dell’orrore e del ridicolo (“le addizioni le so fare… se mi dai un po’ di tempo… le sottrazioni assolutamente no!”), rischiò l’odio di lei che le era cara: discese agli Inferi e ve la fece discendere.
Non conviene dimenticare, però, che in origine fu proprio la bambina ad evocare il suo mostro, in sogno, da lontano, e forse senza nemmeno saperlo.
VIRGINIA: In quanto a mostri, vediamo: il cavaliere bianco è il personaggio più simpatico dello spettacolo. Tutti all’inizio mi trattano male, lui invece è buono. Il peggiore è Humpty Dumpty. Invece il Cavaliere no: lui mi dà una direzione, vuole dirmi come fare ad arrivare, anche se alla fine anche lui diventa cattivo. Non sopporto chi mi dice cosa devo fare.
CHIARA: In scena ti guardi riflessa nello specchio. Lo fai sempre. Nonostante il divieto di guardarsi.
VIRGINIA: Guardo come sono io, guardo il riflesso di come sembriamo io e Sara. Penso alla gente che mi guarda, mi fa strano pensare che hanno lo sguardo puntato su di noi. Non so se mi fa piacere. Con le persone che conosci è diverso. Certe volte mi fa piacere, altre mi crea imbarazzo. Per i parenti sono felice, non per gli amici; per le amiche sì, ma gli amici proprio no.
VIRGINIA: Adesso le scene mi piacciono un po’ tutte. Ma all’inizio, veramente, no. Quella con Kitty, ad esempio, non la sopportavo. Mi sembrava stupido ripetere sempre le stesse cose. Non mi sembrava possibile. Adesso mi piace molto. Non è che mi immagino che ci sia un gatto vero lì, da sgridare, penso che devo essere arrabbiata, molto arrabbiata e molto cattiva, ma non penso assolutamente di avere un gatto lì.
VIRGINIA: Virginia è Virginia in scena. Questo dicono le persone che mi conoscono. La mamma, la nonna, il babbo. Credo che sia un difetto, credo che vogliano dire che è un difetto. Quando reciti devi essere diverso dalla tua vita. Ma in questo caso Alice mi rispecchia un po’ veramente. Allora cosa credi che dovrei fare?
TEOREMA DELL’ABC
di Luigi De Angelis (20 gennaio 2003)
Dopo pochi giorni dal debutto solo lampi e pensieri fugaci, alcune riflessioni.
Alice, la bambinetta, torna a visitarci, questa volta in maniera frontale, dopo essersi appropriata di tante nostre scene, in tanti anni (da Ponti in core a Requiem).
Bambina e bambino: il mito di Alice, ci insegna Jean-Jacques Lecercle in Alice nella collana Figures mithiques dell’editore Autrement, è quello dell’infanzia per eccellenza, perché la bambina, in epoca vittoriana, non va a scuola, ma riceve un’educazione da una governante, è come protetta dal mondo adulto, e la linea di demarcazione tra infanzia e adulti in lei è più marcata. In epoca vittoriana la scolarizzazione di stato avanza, ma riguarda solo i maschietti, che vengono considerati, per questo, già da piccoli, alla stregua di adulti. La bambina è protetta dal futuro sguardo desideroso dell’adulto, e proprio per questo è più libera, in questo recinto, di seguire i propri desideri. Rileggendo Alice nell’estate del 2002 con la preziosa annotazione di Gardener (Annotated Alice 2001), due assillanti idee-visioni si sono coagulate in me: da una parte la soggettiva dell’adolescente, questa idea di caduta-inciampo con possibilità di risalita, dall’altra la filigrana onnipresente in Alice dell’Educazione, della pedagogia infantile, della scolarizzazione. C’era un altro residuo, un altro coagulo: qualcuno, vedendo Requiem aveva notato la presenza strisciante del mito di Alice, ma non aveva apprezzato le tonalità rossastre, la temperatura marrone, irta di ostacoli in cui l’avevamo sepolta: diceva che Alice è il mondo della fantasia, dei colori, della spensieratezza… Ecco, pensai, quando lavoreremo su Alice vietato >18 anni dovremo tenere conto di questa visione, ma all’incontrario.
Deve il teatro competere a tutti i costi col media di superficie colorato, pieno di attributi spensierati? O non è forse proprio un teatro che si rivolge all’infanzia (non per forza anagrafica) a dover porre domande irte di ostacoli? Bisogna proprio passare dal mondo della fantasia già bella e confezionata per arrivare all’infanzia o non è forse l’infanzia che ha le possibilità di costruirsi un suo mondo parallelo, immaginifico, a partire da una domanda, uno stimolo, che gli viene posto?
E pensando a Alice in wonderland, testo emblematico per questa caduta iniziale o risucchio della bambinetta nell’underground, mi ero ricordato di un fatto storico italiano che mi aveva colpito da bambino: la caduta nel pozzo di Alfredino a Vermicino. Alfredino, inciampando, era caduto in un pozzo, senza mai potervi risalire: forse, si è detto poi, l’assedio mediatico, la pressione dei media, la logica dello spettacolo (tre giorni di diretta televisiva senza interruzione) erano stati fatali per la risoluzione del problema. Per farne sentire la voce alla madre, ma anche all’intera nazione, avevano calato un microfono per sentirne gli ultimi battiti cardiaci, i lamenti, i richiami: l’unica risalita alla superficie di Alfredino è stata tramite l’amplificazione, tramite un microfono.
Foné: non riesco a prescindere dalla grande lezione di Carmelo Bene sull’amplificazione, sulla perdita del soggetto mediante la macchina dell’amplificazione, sulla risalita alla superficie del linguaggio mediante il microfono: io divento minuscolo, scompaio in quanto corpo rispetto a un fuori, e nella dinamica fonica questo io-esterno si dilata, si comprime, si solidifica, si scioglie… Non è più un io commensurabile, incasellabile, ma continuamente un’onda transeunte, staccata dal corpo. Tutti sanno che la parola è ciò che è fuori di noi, staccata da noi: il linguaggio nasce dunque in assenza di noi, là dove non siamo, appena fuori, accanto a noi. L’amplificazione garantisce in maniera esplicita questo divorzio tra noi e il linguaggio, questa frattura inconciliabile. E ci fa riflettere sulla fisicità del linguaggio parlato: pura onda, emissione di frequenza, superficie sonora in divenire.
Giocare con il linguaggio. In Lewis Carroll tutto sembra presagire la macchina attorale di Carmelo Bene: Alice cade giù in una tana e muta continuamente forma, perde l’identità di quel sopra e tutto questo nel momento in cui scopre che le parole possono essere rivoltate e che in questo strano mondo il senso e il nonsenso convivono uno accanto all’altro, abitualmente. Scoprire il coesistere di senso e non senso, toccare con mano il paradosso, anzi viverlo, esperirlo è per Alice la risalita alla superficie del linguaggio, scoprire che il linguaggio è come il nastro di Moebius, per cui se lo percorri ti trovi sempre dallo stesso lato, come col senso e il nonsenso, sei sempre nella parola, nella designazione, in quel fuori da sé. La bambinetta prende gusto alle parole nel momento in cui scopre che possono essere rivoltate, quando scopre la loro falsa profondità, e che invece di essere in un underground ci si trova in un mondo designato, nominato, meraviglioso, virtuale, inconsumabile, di superficie, bidimensionale, come nel mondo delle carte o degli scacchi. Giocando col linguaggio questo mondo può mutare a piacimento, trasformarsi, sempre divenire.
Humpty-dumty oppone l’impassibilità degli avvenimenti alle azioni e passioni dei corpi, l’inconsumabilità del senso alla consumabilità delle cose… la resistenza della superficie alla mollezza della profondità… Passare dall’altro lato dello specchio… è arrivare in una regione dove il linguaggio non ha più rapporto con ciò che è designato, ma solamente con ciò che è espresso, vale a dire con il senso. Tale è l’ultimo spostamento della dualità: ora passa all’interno della proposizione. G.Deleuze, Logique du sens
Impenetrabilità e dualità dei due mondi, di qua e di là dallo specchio, tra significante e significato, tra teatro e vita, tra spettatore e attore, tra bambina e adulto, tra recita e realtà. C’è sempre un sottile muro, un filo di lama, che divide inesorabilmente chi è di qua da chi è di là dallo specchio: di là si può essere e non essere, affermare e contraddire, negare e affermare, esprimere dinamicamente, paradossalmente; in teatro lo spettatore sta nell’immobilità della poltrona, scompare in quanto soggetto, osserva da un fuori, spesso si avvicina alla visione in maniera giudizievole, non affettiva, aperta alle contraddizioni, vuole incasellare, capire, designare, possedere. Strano luogo il teatro: nelle Lettres persanes di Montesquieu i Persiani che vanno per la prima volta a teatro a Parigi e mandano lettere alle loro mogli dall’Europa sono sconvolti da questo strano luogo dove qualcuno, su un piano rialzato parla e si muove tantissimo, mentre di qua, sulle tante poltrone, le persone rimangono immobili, come congelate in un patto già acquisito: dovranno stare ferme, immobili, costrette ad ascoltare, a vedere, come pietrificate, per alcune ore.
Leggendo tra le pieghe di Alice in wonderland risulta evidente un continuo riferimento alla scolarizzazione, all’idea pedagogica. Moltissime canzoni, storielle sono parodie di altrettante lezioni dell’epoca vittoriana, i testi sono pieni di rimandi alla pedagogia dell’epoca, dalla matematica, alla geografia, alla storia. Non dimentichiamoci che Lewis Carroll era un reverendo, Charles Lutwidge Dodgson, insegnante di matematica e logica, pare noiosissimo, molto inserito nelle dinamiche pedagogiche. Si era inventato, però, forse per entrare in contatto con le bambine che amava, uno pseudonimo con cui dichiaratamente poter sovvertire la logica di quell’incasellamento, di quella compressione e tramite quella doppia identità inventarsi un mondo raccontato dove le stesse regole sono ribaltabili, dove l’insegnamento viene scavalcato e risulta senza profondità, quello che è, puro linguaggio commensurabile che non potrà mai cogliere la complessità dello status infantile.
Mettere dunque una bambinetta-adolescente in un luogo geometrico, in un’auletta di scuola, piccola, squadrata, che si offre all’esterno mediante una vetrata. Luogo di esposizione, dunque, di cui lei non sarà consapevole, perché all’interno la superficie del vetro risulta come quella di uno specchio e la mancanza di luce nell’esterno gli garantisce poca profondità, come avvolta da nebbia.
Questo luogo non ha colori, è in bianco e nero, non garantisce la sfumatura, è un sì o un no, e qui vige la regola geometrica, la regola ferrea degli scacchi. Tra una linea e l’altra l’inciampo possibile in un pavimento gommoso, che cambia forma a seconda della pressione. Le stesse pareti sono di gomma, tutto ha molteplici dimensioni. Captiamo ogni parola della bambina mediante un microfono, ben esibito: noi siamo pronti a una nuova diretta, come nel caso di Alfredino a Vermicino. Vogliamo captare ogni inciampo, ogni vibrazione. Cosa succede a una bambina se la catapulto in una tana scolastica, esposta al lookism degli adulti qua fuori, per di più muniti di una protesi per catturarne i suoni, le parole? Potrà riscattare le proprie cadute? Mediante cosa? E’ possibile trovare il colore, la vitalità, abbandonarsi a un fluido divenire in un luogo incasellato, così compresso e geometrico, dove la stessa recita è il compito designato? Può l’infanzia rimanere tale, soprattutto nelle pieghe di una logica adulta? E ancora: siamo noi che guardiamo, dentro lo specchio, o viceversa?
Nonsenso non solo verbale: la gomma, gli oggetti di gomma sono degli oggetti nonsenso. Un remo di gomma non fa il suo lavoro, invece di garantire la forza motrice crea solo attrito, si piega all’acqua. La gomma è paradossale, nega continuamente la sua stessa forma, non è commensurabile, dipende sempre dall’azione di un soggetto, dal peso, dalla pressione. Affogare nella gomma, sprofondare nella coesistenza di senso e non senso, in questa vertigine di linguaggio.
Ogni educazione nazionale è in qualche modo scandalosa: parte dall’idea della pianificazione dei cervelli secondo lo spirito dell’ingegnere, a prescindere da ogni singolo corpo, secondo le regole dell’incasellamento. Noia di ogni scuola, che non contempla veramente ogni singola identità, dove anche nell’insegnamento si ripropongono le false gerarchie di potere e si rispecchiano tutte le compressioni, ancora una volta e via di seguito, senza tregua. Dove tre-quarti del tempo è tempo perso, che uccide la vitalità degli spiriti inquieti e tutto è sempre designato secondo regole precise, che è vietato sovvertire. Dove vige una morale di Stato, nazionale, da rispettare, sotto il sorriso del nonno di turno.
Paradosso linguistico: continuamente le cose vengono nominate, designate dall’insegnante in un modo, la bambina le vive in un altro. Per Alice il reale è consumabile, un budino è realmente qualcosa di solido e zuccherato da poter ingerire, per cui lei ha fame. Per la regina il budino è un nome, viene personificato, è pura superficie, per cui non esiste se non nella possibilità assurda di poterlo presentare ad Alice, come un personaggio delle carte, virtuale. Ci troviamo di fronte alla stessa designazione che esprime due sensi molto differenti fra loro. Parodosso della scena: nella realtà siamo tutti condannti alla nostra casella, a un mondo di superficie che vuole continuamente designare, affettare, nominare, possedere tramite una designazione unidirezionale che è fuori dai corpi, menzognera, mentre il teatro, che pure utilizza il linguaggio della designazione, parlato ma non solo, permette la convivenza di più sensi in una volta, la ribaltabilità del senso comune, è scandaloso perché permette di stare col corpo dentro e fuori contemporaneamente, su entrambi i lati del nastro di Moebius, sei vivo e sei morto, congelato nella gabbia semantica, sintattica di una drammaturgia e pure sei il punto di fuga delle energie che si generano verso il fuori. Ogni attore sa di essere un paradosso vivente, sul palco e che vive nel paradosso ogni giorno.
Quarta casella, quinta casella, ecc. Eppure la stanzetta è sempre quella e si sta sempre nello stesso luogo, si inciampa a loop, come la musica, ipnotica: è sempre Offenbach, rallentato, dilatato, ripetuto, spezzettato, sovrapposto, rovesciato. Si sta nello stesso punto, non si avanza mai, nonostante vengano nominate colline, siepi, case, fiumi, monti. La casella è sempre la stessa, è solo il mondo dello specchio, parallelo, immaginale, che ci permette il “trasloco”, la metafora, il passaggio di là, la dinamica vitale, interrogativa. Cogliere ciò che è di là dallo specchio, accanto a noi, inesprimibile, per sfuggire alla logica coercitiva della casella.
Regina bianca: Alice diventa regina, i ruoli si ribaltano tra lei e l’insegnante. Una bambina che ha visto lo spettacolo nei primi giorni di repliche ha subito detto che voleva diventare la regina bianca, perché è quella che comanda di più. “Chi è che comanda” scrive la bambina sulla lavagna di scena: è la domanda giusta. Lo scopo è quello di diventare regine, prendere il posto dell’insegnante, diventare finalmente adulti? Poter ripetere, all’incontrario, la stessa dinamica? “Adesso ci provo”, dice la bambina, alla fine, quando la regina-insegnante è esausta, forse morente e vuole farsi raccontare una storia: meglio lasciare la domanda aperta, il teorema irrisolto, riuscire a sottrarsi alla logica secolare del potere pedagogico.
Soggettiva: chi guarda e chi è guardato? Alla bambina viene posta sulla testa una lampada da otorinolaringoiatra, all’inizio del sogno, per cui siamo guidati nella visione dal fascio di luce che si sposta sugli oggetti che lei decide di guardare. Lei stessa riesce a vedere gli oggetti solo se porta la luce su di essi: è la chiave di entrata, le viene permesso il lusso di uno sguardo libero, non condizionato, per affrontare questo viaggio infero. Gli sguardi sono molteplici, altri occhietti la scrutano e scrutandola la illuminano, sono due lampade a bassa tensione, gestite dal burattinaio, dall’alto, mediante una lunga e sottile protesi di alluminio. Un microscopio è nella cassettiera, bene in vista fin dall’inizio, l’insegnante ha due binocoli con cui scrutare meglio, il vetro-specchio è lui stesso una enorme lente, tramite cui concentrare lo sguardo.
Teorema: partire da una domanda e cercare di verificarla, senza conoscerne le conclusioni. Sempre il teatro dovrebbe partire da una domanda, essere alchemico. Il film di Pasolini, Teorema, rimane per me un modello fondamentale per l’approccio a qualsiasi nuova opera da realizzare.
Unico colore presente in scena al di fuori del bianco e del nero, l’incarnato della bambina, i suoi rossori, il colore degli occhi, che contrastano il sistema binario alla base di tutto lo spettacolo. Altri colori: nella musica, nelle voci, nei gradienti della luce, nelle sue sfumature, nei riflessi, nelle trasparenze della gomma, nella magia delle trasformazioni.
Vortice di tutte le domande alla base di questo teorema: si annullano a vicenda oppure si concatenano in una serie infinita di possibilità, creano un gorgo, un inciampo. In fonica quando un microfono e un altoparlante sono molto vicini si crea un feedback, un anello sonoro detto anche “larsen”, un fischio assordante, un ritorno continuo dello stesso suono riprodotto e ricatturato all’infinito: questo spettacolo mi da questa sensazione, di annodamento su se stesso della propria domanda, all’infinito.
Zero assoluto: è il voto o vuoto che si potrebbe dare a questa bambina. Lei può qui dentro per una volta toccare con mano lo zero, sprofondare nello zero, in questo cerchio: voto o vuoto, sprofondare nello zero, nei vuoti del linguaggio è la scoperta che lo zero non è poi così male, è la scoperta di un grande riscatto.
FOTO
[foto Enrico Fedrigoli]
RASSEGNA STAMPA
Pier Giorgio Nosari, Alice non abita più nel paese delle meraviglie
Danilo Ruocco, Alice vietato ai 18
Barbara Petrini, Alice diventerà regina?
Luca Archibugi, Alice nel paese della matematica
Gianluca Attanasio, Alice dal plexiglass verso la vita
Sara Chiappori, Ecco Alice, il paradosso dell’infanzia
Anna Tonelli, Fanny & Alexander portano lo spettatore nel mondo di Alice
Rodolfo Sacchettini, Vietato ai maggiorenni
Ugo Volli, Quest’Alice assomiglia a Lolita
Valeria Ottolenghi, Matematica tra gioco e incubo
Franco Quadri, Ma lo specchio di Alice non mostra più meraviglie
Paolo Maier, Nella tana di Alice
Federica Angelini, Alice fa meraviglie a soli dodici anni
Alice non abita più nel paese delle meraviglie, di Pier Giorgio Nosari, L’Eco di Bergamo, 4 aprile 2005
“Alice vietato anni 18” dei Fanny & Alexander è una camera chiusa: come certe “wunderkammer” del ‘700, le case di bambola dell’800, certi carillon. È una cella scenica di 4 metri per 2, vista giovedì scorso all’auditorium di piazza Libertà per gli “Altri percorsi” di Teatro Donizetti.
É un circolo vizioso: un gioco dell’oca nel quale si torna sempre alla prima casella, un gioco di scacchi in stallo. È una macchina per guardoni: la camera in cui si muovono Alice e la Regina Bianca ha una parete di vetro, che corrisponde all’interno – dello spazio scenico come della finzione – a uno specchio.
Non si può parlare degli spettacoli di Fanny & Alexander senza iniziare dall’ambiente fisico nel quale riassumono, volta per volta, la scena. E nel quale fanno implodere le relazioni tra scena e platea. In “Ponti in core” era un teatrino anatomico, una funerea bomboniera metallica. In “Sinfonia Majakovskiana” era uno spazio absidale a lastre di piombo, in “Requiem” un muro rosso infernale, in “Ardis I” una stanzetta. In “Alice” è una camera incorniciata da un arco scenico a cui sono appesi cartelli didattici, come in una classe scolastica di un secolo fa. L’effetto è un ibrido straniante tra il teatro della “quarta parete” di fine Ottocento e l’installazione – preformance di fine Novecento.
Il gruppo ravennate non accetta mai lo spazio teatrale come un dato a priori. Lo deve letteralmente rifare. È la costruzione–costrizione di un punto di vista: la scena vincola la visione degli spettatori. Allo stesso modo, il soggetto dello spettacolo non è mai un copione, una forma scenica data: è un’occasione poetica o letteraria. Qui è il ciclo di “Alice” di Carroll, già accennato in “Requiem”. Di più: non ci sono storia o personaggi, ci sono i simulacri di un’inquietante condizione umana.
Questa barocca macchina scenica postmoderna si spinge al limite dove non c’è più rappresentazione, e al di là del quale non c’è più nemmeno spettacolo. È un rischio calcolato e reiterato, da parte di un gruppo non facile, ma necessario: è necessario che qualcuno si assuma il rischio di immergersi fino alle radici della propria ispirazione, per bruciarvi un linguaggio autonomo. E intanto, attraverso i motivi della segregazione, della regola e del gioco, i Fanny mettono in scena il circolo della crescita e dell’educazione: Alice (Virginiasofia Casadio) è spiata, parole e respiri sono rubati da un microfono calato dall’alto, una Regina–educatrice (Sara Masotti) la guida su una virtuale scacchiera, fino a scambiarsi ruoli.
La vertigine dello sguardo dello spettatore è la vertigine della perdita dell’identità, l’ambiguità tra educazione e costrizione, una frontiera oltre la quale l’infanzia non è più innocente, la maturità è omologazione, i ruoli si fanno intercambiabili. Anche le identità (qui sta l’inquietante) lo sono.
Il candore infantile si scontra con la formalizzazione di un itinerario iniziatico: è un gioco di specchi rispetto al quale lo spettatore–adulto è responsabile (per lui avviene tutto questo) e vittima (è costretto a uno sguardo straniante), Regina e Alice, ingenuo e perverso.
Alice vietato ai 18, di Danilo Ruocco, Il Giornale di Bergamo, 1 aprile 2005
È spettacolo sofisticato e un pò criptico l’ “Alice vietato 18” realizzato dalla compagnia Fanny & Alexander. Spettacolo che incentra il proprio svolgersi sul concetto di visione: ecco, allora, che il pubblico entra in una in una sala di teatro semibuia, illuminata da due fari posti sul palcoscenico in direzione proprio della platea (ovvero in una direzione opposta a quella consueta che vuole che la luce vada dalla platea a illuminare il palcoscenico); ecco, allora, che lo spettacolo della favola riflette il pubblico; ecco che un’attrice guarda il pubblico e, mentre gli fa un dettato, lo scruta con un monologo da teatro. Quando, poi, “Alice” (o colei che crede di essere tale) entra in scena, lo specchio è scomparso per dar luogo a una “quarta parete” completamente trasparente che divide il pubblico dagli attori in scena. Una parete che, però, dà al pubblico la sensazione di vedere gli attori come se essi fossero in un acquario, sensazione amplificata dagli effetti audio dei microfoni che distorcono la voce degli interpreti dandole un vago effetto di eco o di lontananza. Il tutto con un sottofondo come di disco al vinile graffiato. A ciò si aggiunga il fatto che “Alice” ha la favola tatuata sul corpo e si avrà il senso dello spettacolo: gli spettatori assistono (o credono di assistere) a una favola (quella di “Alice nel paese delle meraviglie”) troppe volte già ascoltata (ecco il perchè l’effetto di disco rovinato dal tempo) o troppe volte letta (le scritte sul corpo dell’attrice). Forse, però, gli spettatori, nel mentre assistono alla realizzazione scenica della favola sono da essa visti e messi in scena (ecco allora il perchè i faretti illuminano il pubblico mentre entra ed esce dalla platea, ecco il perchè lo specchio ne rifrange le sagome)… E se al di là dello specchio non ci fosse un mondo meraviglioso, ma il nostro?
Alice diventerà regina?, di Barbara Petrini, Il Paese delle Donne, 14 aprile 2004
“Nulla sarebbe ciò che è, perchè tutto sarebbe ciò che non è, ed anche il contrario – ciò che è non sarebbe e ciò che non sarebbe, lo sarebbe. Vedi?” (Lewis Carroll)
Questo credo che sia il punto di partenza per parlare del lavoro teatrale di Fanny & Alexander, “Alice vietato > 18 anni” ideazione Chiara Lagani e Luigi de Angelis, drammaturgia Chiara Lagani interpretato da Virginiasofia Casadio, Sara Masotti e Marco Molduzzi per la regia di Luigi de Angelis.
Alice è il mito, l’amore per l’enigmistica, ma soprattutto è il racconto della discesa agli inferi ritrovandosi dall’altra parte. È la scoperta di un mondo speculare al nostro dove la gente cammina a testa in giù; è lo spazio della riflessione, dove i segni sono rovesciati nel loro significato indicando messaggi invertiti. Loro lo hanno immaginato come un mondo in bianco e nero, dove gli oggetti hanno un’altra funzione e tutto è insondabile, in cui Alice gioca una partita a scacchi, poco ortodossa, per diventare Regina.
Ed è il gioco a rivelare il mondo feroce e incasellante del linguaggio capace di creare vite immaginarie, riflesso del pensiero altrui soprattutto nell’adolescenza. Alice, in questa partita a scacchi impara a difendersi usando proprio il linguaggio, una specie di duello verbale per affrontare l’assedio del mondo. Ma la sua storia è anche un sotterfugio per obbligarci a guardare al di là dello specchio, senza incorrere nella censura e nel divieto.
Allo spettacolo andato in scena al Teatro Vascello di Roma (23-28 marzo) è seguito un incontro con la compagnia, organizzato da “Diari per una regia teatrale” (Università degli studi di Roma “La Sapienza”, Facoltà di lettere e filosofia). Un dialogo per scoprire nelle loro parole chi sono Fanny & Alexander: “è un nome schermo inventato da Chiara e Luigi o forse il titolo di un film di Bergman. Ma potrebbe anche essere una probabile sigla inventata da due bambini, anzi una coppia di bambini per contenere tutte le ossessioni dell’infanzia e dell’adolescenza.
Sicuramente è il luogo simbolico per riadattare e reinterpretare gli spazi agiti dalla coppia in generale e più precisamente dalla relazione di coppia nella sua duplicità. La vita immaginaria di Fanny & Alexander è un misto tra fiction e realtà una conseguenza dell’arte che si mischia con la propria vita; un artista collettivo nel quale a volte si rintracciano i segni dell’autobiografia e altre di una costruzione immaginaria”. Cosa implica lavorare con Virginiasofia Casadio che è un’adolescente vera e propria? “È un gioco, ma serio sia per noi che per Virginia. Lei lo vive come il racconto dell’autobiografia di un’adolescente non stereotipata. Ma quando non è in scena ha tutte le caratteristiche delle sue coetanee”.
Alice nel paese della matematica, di Luca Archibugi, Il Corriere della Sera – Roma, 27 marzo 2004
Rispetto all’ “Alice” di Bob Wilson, se ci è consentito il paragone, lo spettacolo “Alice vietato > 18 anni” del gruppo Fanny & Alexander ne è l’opposto complementare. Fra le numerose scorribande del teatro di ricerca nel testo di Lewis Carroll alias Charles Dodgson (ossessivo fotografo di bambino oltre ad essere – insieme a tante altre cose – l’autore di “Alice nel paese delle meraviglie”) sono i due risultati – fra quanti ci è dato conoscere – più distanti e antitetici. In che senso? Nello spettacolo di Wilson – ormai un classico – tutto è fioritura vitale, scherzo paradossale e coinvolgimento musicale (le composizioni di Tom Waits sono fra le sue cose migliori). È un Carroll riproposto al calor bianco. Tutt’altra cosa la proposta del gruppo ravennate: algida, funerea, geometrica. Talchè, se si vuole, a disturbare è l’eccesso di fedeltà, o di affinità. La messa in scena, vietata ai “maggiori” di diciotto anni, sprofonda nelle manie di Carroll – Dodgson senza nessuna mediazione interpretativa. Sembra paradossale in uno spettacolo di Fanny & Alexander, in cui la rielaborazione è sempre presente,. Eppure, al di là della superficie, è proprio la prigione matematica dell’autore britannico a essere riproposta, senza la via d’uscita – solo a tratti un buon farmaco – della “fantasia” della colorazione e – soprattutto – della versatilità. La scacchiera bianca, nera e grigia (per via delle sue ombre) è protagonista, i paradossi logici dominano il campo e l’ironia è febbrile e disturbata, l’ansia infantile cozza contro l’assurdità di un mondo incomprensibile. Tutto ciò, giustissimo in sé come distruzione delle illusioni, resta però puramente denotato, logico. Così anche il testo, riproposto nella sua flagranza, con stralunate voci da fiaba tipiche della maniera del gruppo, non trattiene l’asciuttezza della scena (bella comunque – visivamente – la soluzione scenica della scatola di vetro in cui il pubblico guarda se stesso e alcune invenzioni nella recitazione, che a tratti ricorda il “dettato” delle elementari). Notevole Virginiasofia Casadio nella parte di Alice.
Alice dal plexiglass verso la vita, di Gianluca Attanasio, Il Tempo, 25 marzo 2004
Perdita di contenuti, incapacità di sperimentare nuovi moduli estetico/espressivi: di questo viene sempre più spesso (e non sempre a giusta ragione) accusato il nostro teatro. Tuttavia, basterebbe seguire il lavoro di ricerca che produzioni come “Fanny & Alexander” portano avanti da lunghi anni, per verificare che fortunatamente esiste un “nuovo che avanza”: ai giornalisti ed al pubblico d’ogni età la voglia e l’impegno di raccoglierne i risultati, ma soprattutto gli effetti. “Alice vietato maggiori 18 anni” è l’ennesima dimostrazione che “Fanny & Alexander” dà di come sia possibile comunicare ad una platea di ragazzi messaggi formativi, legati all’esperienza della crescita, nonché a tutte le problematiche ad essa legate. In questo allestimento, ideato da Chiara Lagani e Luigi de Angelis (il quale ha curato anche regia, scene luci e colonna sonora) la visionarietà d’un testo costruito principalmente sulla sensibilità dei ragazzi, si fonde con la capacità di stupire anche un pubblico adulto quanto mai esigente. Loops e vibrazioni sonore digitali, diavolerie meccanico/ robotiche ed audiovisive, rendono ancor più perturbante (e per questo incisivo) lo scenario metalinguistico entro cui si snoda la scena. Originale l’idea di rinchiudere metaforicamente Alice (interpretata dalla promettente tredicenne Virginia Casadio) in una stanza/prigione (la vita, l’esistenza?) ovunque costellata da caselle bianche e nere, come la scacchiera di una enorme dama. Al suo fianco, una sprezzante guida femminile (Sara Masotti) che cambia di volta in volta sembianze e percorsi, conducendola verso l’ottava casella, quella che trasformerà la bambina in una regina. Spiazzante poi l’idea di dividere dal pubblico tempo scenico ed azione attraverso una maestosa vetrata. In tal modo, Alice/Casadio vive come in una scatola trasparente (ma allo stesso tempo labirintica) oltre la quale può scorgere la realtà, ed i suoi incomprensibili abitanti: gli adulti. Prigionieri di una dimensione con la quale Alice, una volta divenuta regina, dovrà subito fare i conti. Una dimensione che probabilmente non le piacerà più di tanto. Uno spettacolo da consigliare proprio a tutti questo “Alice vietato 18 anni”, soprattutto a chi ha voglia di fantasticare, di guardare ancora una volta la realtà con gli occhi ingenui – ma attenti – di un bambino.
Ecco Alice, il paradosso dell’infanzia, di Sara Chiappori, La Repubblica – Milano, 10 dicembre 2003
Arrivano dalla Romagna, terra teatralmente feconda che ha partorito generazioni di artisti della scena, come i loro “cugini” maggiori della Socìetas Raffaello Sanzio o del Teatro delle Albe. E come anche i loro coetanei, tutti emersi negli anni Novanta e salutati dalla critica come la “nuova ondata” del teatro di ricerca italiano, Motus, Teatrino Clandestino, Masque.
Il gruppo Fanny & Alexander sbarca a Milano con l’ultimo spettacolo, presentato quest’estate al Festival di Santarcangelo, Alice vietato > 18 anni. Dopo i lavori precedenti (Con mano devota, Romeo e Giulietta – et ultra, Requiem), ecco ora uno spettacolo che il gruppo, da sempre affascinato e sedotto dal tema dell’infanzia, inseguiva e sognava da tempo. Un viaggio in compagnia di Alice tra le sghembe prospettive di quel mondo “oltre lo specchio” che qui diventa cubico contenitore in bianco e nero, un po’ onirica stanza dei giochi un po’ terrorizzante aula di scuola. Dove gli oggetti, compreso il geometrico pavimento a scacchiera, esibiscono consistenze diverse, paradossali e gommose, a disegnare la mappa di un impossibile percorso di iniziazione alla vita e all’età adulta. Tra domande che non vanno poste ed enigmi senza soluzione, filastrocche e lavagne, regine di cuori e gelide maestre, passaggi e fessure, sguardi rovesciati e porte che è proibito aprire. Mentre il pubblico è costretto a osservare da fuori l’infinita, misteriosa ossessione del paradosso dell’infanzia. Che in fondo è un po’ anche il paradosso del teatro.
Fanny & Alexander portano lo spettatore nel mondo di Alice, di Anna Tonelli, La Repubblica – Bologna, 16 luglio 2003
Guardare il mondo capovolto. Per un giorno piacerebbe a tutti vestire i panni di Alice e provare a vivere in una dimensione fantastica. E’ quello che propone la compagnia Fanny & Alexander invitata dall’Associazione Xing a mettere in scena stasera “Alice vietato > 18 anni” all’Ex Bologna Motori, in via Creti 24.
Dopo il successo ottenuto al festival di Santarcangelo anche con il nuovo “Ada, cronaca familiare”, il gruppo di Ravenna ambienta il viaggio dei rovesciamenti attraverso cunicoli, passaggi e sprofondamenti con la protagonista dodicenne pronta a investire gli spettatori in una sorta di gioco delle trasfigurazioni. Tutto lo spettacolo, piacevole e coinvolgente, ruota attorno al mito di Alice che conserva il candore di fronte al mondo nel timore di lasciarsi schiacciare dalla visione cruda e realistica degli adulti. La storia di Alice viene ricostruita come il pellegrinaggio di un bambino che passa dall’immemore fanciullezza ad un’adolescenza più consapevole, dove si mostra la difficoltà della protagonista ad inserirsi nei codici di una realtà fatta di crudezza e dolore.
E’ uno spettacolo in cui si torna bambini con gli spettatori chiamati a guardarsi allo specchio come antidoto contro le asperità della vita. Il testo di Carroll è solo un pretesto per cercare di interpretare la società contemporanea dove è difficile inserirsi. E piuttosto che fare i conti con la quotidianità sempre uguale a se stessa, è preferibile avere una visione all’incontrario con le regole che si frantumano a piacimento. Una fuga dal reale con le armi della fantasia e dell’immaginazione.
L’ideazione dell’Alice in versione post-moderna si deve a Chiara Lagani e a Luigi de Angelis che ha curato anche la regia, le scene, le luci e la colonna sonora. In scena Virginiasofia Casadio, Sara Masotti e Marco Molduzzi.
Come tutti gli spettacoli di Fanny & Alexander, ormai conosciuti come fra i migliori gruppi del teatro di ricerca sono infatti molto curate le scene, i costumi e gli allestimenti che costituiscono lo sfondo ideale sul quale ambientare il racconto riletto attraverso una drammaturgia veloce e coinvolgente.
Vietato ai maggiorenni, di Rodolfo Sacchettini, Lo Straniero, nr. 36, giugno 2003
Pensieri, curiosità e soprattutto domande, come quelle che pone Alice. E’ provocatorio fin dal titolo l’ultimo lavoro dei Fanny & Alexander, Alice vietato ai maggiori di 18 anni. E suona tanto strano a noi adulti abituati a “vietare” più che a essere “vietati”.
Spesso nell’ambito teatrale i bambini vengono relegati, come in un ghetto artistico, ad assistere a spettacoli costruiti per l’infanzia, dove il punto di vista dell’adulto ancora una volta diventa quello del maestro che spiega, in toni didascalici, ma non certo pedagogici.
Rompere la convenzione del “teatro scuola” creando un lavoro che sia per tutti, partendo però dallo sguardo dell’infanzia, significa operare in modo non settario, ritenendo l’infanzia non una parentesi anagrafica (da istruire), ma un luogo mentale, un punto autonomo e creativo da cui guardare. Sulla lunghezza d’onda e sulle esperienze della Socìetas Raffaello Sanzio per quanto riguarda il teatro e i bambini, Luigi de Angelis e Chiara Lagani scelgono una strada coraggiosa che porta sulla scena una brava e giovane ragazza di 13 anni (Virginiasofia Casadio).
Alice vietato ai maggiori di 18 anni è il primo lavoro di un dittico che comprende anche l’altro punto di vista, Alice vietato ai minori di 18 anni. Due lati della stessa medaglia (il testo di Lewis Carroll Alice attraverso lo specchio) che pare pongano un inquietante dilemma: quale dei due sguardi è più rischioso? E’ possibile un solo punto di vista privilegiato? Quale metamorfosi se muta la prospettiva?
E del groviglio di sguardi non è facile percepire subito, ma si intuisce la funzione motrice e dialettica nel lavoro. Tanto che un testo poliedrico come quello di Carroll viene contenuto in una room costruita sulla scena: una cameretta in bianco e nero, strutturata a quadrati come fossero le caselle di una scacchiera. All’interno un tavolino e una piccola sedia di gomma e una superficie opaca: il famoso specchio. Ma c’è un altro specchio da attraversare (forse da chi guarda?), quello trasparente che separa tragicamente la stanzetta dei giochi (o dell’infanzia, o aula scolastica) dal pubblico. Che poi sembra funzionare come un filtro, un gelido filtro che rapprende le azioni e i movimenti e proietta le immagini come su una superficie bidimensionale, estraniando e allo stesso tempo concentrando lo sguardo.
L’architettura della scena, che è ben altra cosa dalla scenografia, sembra la soglia privilegiata per collocare noi bambini direttamente nella storia, una sorta di grado di verità necessario alla finzione.
Se in Requiem (2001) la freddezza della superficie teneva a freno con difficoltà un iperbarocchismo di suoni, colori e figure, in Alice i movimenti minimali, lo spazio limitato diventano i segni privilegiati per l’osservazione sotto vetro quasi di un esperimento.
Sulla scena, fuori dalla stanza, appare una figura statuaria, altissima rispetto a noi bambini. Una maestra elementare d’altri tempi con l’abito lungo della regina, inizia con tono severo a presentare la storia, scandendo le parole come un dettato in classe. Dentro la stanza Alice si alza, comincia a passeggiare e, come per dare il via all’avventura (che potrebbe sembrare una recita scolastica), la ragazzina legge sulle mani, a mo’ di libro aperto, la storia di Alice. Mani che poi si mostrano davvero imbrattate dell’inchiostro di lunghe frasi, come suggerimenti durante un esame.
Pare infantile allora la costruzione di uno spettacolo che stupisce e meraviglia, che vede l’oggetto immediatamente trasformarsi e assumere nell’immaginazione un senso completamente nuovo; così il tavolo, cadute all’improvviso le gambe, rimane sospeso in aria divenendo agli occhi di Alice prima un lago e poi una casa. E così anche misteriosamente vengono calati dal soffitto della stanzetta uno specchio, un libro e altri oggetti. Ma se nel nostro immaginario tutto il divenire metamorfico carrolliano assume (colpevole certo anche Walt Disney) i contorni di un mondo spontaneistico e spensierato, F&A colorano lo spazio di tinte bianche e nere, lo riempiono di note metalliche e distorte, non cedendo mai a lenire i contrasti, bensì mostrandoli nella loro crudezza.
La storia è famosissima. Dopo aver attraversato lo specchio Alice incontra una Regina Bianca che le indica il percorso per arrivare all’ottava casella dove anche lei potrà diventare regina. Comincia una corsa impazzita in un viaggio di crescita fatto di obblighi assurdi e doveri indiscutibili. Alice incontra una serie poco rassicurante di adulti e strane presenze: un insetto, un cavaliere, una vecchia che si trasforma da bigliettaia del treno in pecora, una traghettatrice con remi di gomma e infine Humpty Dumpty, prima del conclusivo ritorno della Regina Bianca. E anche se la strada che percorre Alice è tortuosa e riserva mille sorprese, rimane il fatto che sia tragicamente segnata, e gli stessi cartelli indicano ancora una volta un’unica direzione. Casella dopo casella, in una rigida scacchiera educativa con l’obiettivo di arrivare alla mèta prestabilita, che poi sarebbe il conseguimento per Alice della presunta maturità.
F&A leggono il testo in una forte chiave pedagogica, e collocano quindi Alice a fare i conti con una vera e propria scuola (o mondo) di inquietanti adulti (tutti rappresentati da una multiforme Sara Masotti). E osservano, come sul vetrino di un microscopio, il tentativo dei grandi di ingabbiare la vitalità di Alice, in un percorso di crescita mosso esclusivamente dal perpetuare il drammatico scambio di ruoli tra lo scolaro (Alice) e la maestra (la Regina).
Perché infatti nell’ottava e ultima casella la Regina si accovaccia sulle ginocchia della piccola Alice e in uno strano ribaltamento-regressione le chiede di cantare una canzone.
Forse Alice ha finito davvero il suo percorso, forse ora, che ha in braccio la regina-bambina, diventerà lei stessa regina, chiudendo così un circolo angosciante. La voce impazzita di Humpty Dumpty continua a ripetere “ora sei mia prigioniera” e Alice, mentre scende il buio, non riesce a proferire parola se non un “adesso ci provo!” che subito diventa domanda in questo cerchio forse concluso o forse no. Il ribaltamento non viene compiuto fino in fondo; chi impara un giorno insegnerà, sempre in questa geometrica scuola. Non così forse, il fumo e il buio lasciano aperti gli interrogativi. La regina quasi immersa nel sonno ripete gracchiante “cattiva, cattiva…”.
A differenza del testo di Carroll che nella dimensione del sogno e del dubbio chiudeva il racconto, F&A spogliano la storia da tutti gli elementi onirici, che forse oggi apparirebbero consolatori, ricollocando l’esperienza di Alice in uno spazio più concreto, irto di ostacoli, tra realtà e immaginazione.
Il mondo dell’infanzia per F&A è un mito, un totem, qualcosa di centrale nel percorso ormai decennale della compagnia ravennate. Alice è apparsa più volte nei lavori precedenti, in maniera forse collaterale o ricordato solo per citazioni, ma c’è sempre stata. E di più c’è stato il suo sguardo che ha intrigato per quell’incredibile curiosità che serve a scardinare e svelare strane realtà. Che è poi lo sguardo dell’infanzia oggi di Alice domani di Ada (di Nabokov), ieri di Psiche e prima ancora di Romeo e Giulietta, di Pinocchio, senza dimenticare i bergmaniani Alexander e Fanny.
Ricco di suggerimenti e di letture, il lavoro dei F&A diventa spazio di indagini sul teatro stesso e non ultima suggestione risulta il linguaggio contorto e assurdo degli adulti, che, fisicizzato attraverso l’uso costante dei microfoni, finisce spesso in corticircuiti tra significato-significante-referente. La lingua, spiega Humpty Dumpty, segue le logiche inquietanti del potere, chi comanda ne decide il senso, anzi “se vuoi che significhino il doppio, devi pagarle il doppio”. Perdendo la lingua in un groviglio di paradossi non giocosi ma allarmanti, si mette in discussione la stessa possibilità di un tessuto sociale, a cui però si contrappone la ricerca di “sostanza” e di “senso” di Alice, mossa da una costante “Fame” di bergmaniana memoria. Nessuna risposta ma solo altri interrogativi alla domanda gelida posta dal teorema messo in scena dai F&A.
Quest’Alice assomiglia a Lolita, di Ugo Volli, Grazia, 8 aprile 2003
Da qualche anno si parla di una nuovissima generazione della sperimentazione teatrale, diversa da quelle che l’hanno preceduta per ragioni formali e di contenuto. In realtà i gruppi sono assai diversi fra di loro, anche se condividono l’età dei loro membri e il contesto culturale in cui sono cresciuti, quello dominato dai media elettronici vecchi e nuovi. Se bisognasse individuare un tema comune, questo sarebbe certamente lo sguardo, e soprattutto lo sguardo desiderante, lo sguardo immerso negli stimoli erotici cui noi tutti siamo più o meno assuefatti. Proprio a quest’ultimo tema si ispira direttamente lo spettacolo del più colto e complesso di questi gruppi, Fanny & Alexander, che si può vedere il 4 e il 5 aprile al Teatro Studio di Scandicci (Fi). Il titolo, un po’ enigmatico, è Alice vietato > 18 anni: si tratta del confronto e della sovrapposizione fra la storia della bambina vittoriana Alice di Carroll e dell’adolescente Lolita di Nabokov. Però, com’è comune in questi gruppi, le storie non sono mostrate o raccontate, ma piuttosto alluse, ricostruite nell’installazione ambientale in cui lo spettatore è immerso, date come condizioni del suo sguardo. In questo caso quel che viene messo in evidenza è l’aspetto torbido e confuso della condizione infantile che si guarda in questi personaggi, e soprattutto l’oscurità dello sguardo, il modo in cui lo spettatore ne è attratto: una condizione di disagio, di confusione, di interdetto, che si rispecchia nella costruzione dello spazio dello spettacolo.
Matematica tra gioco e incubo, di Valeria Ottolenghi, La Gazzetta di Parma, 4 aprile 2003
L’assai stimata, raffinata ed elegante, compagnia Fanny & Alexander è da sempre attratta dall’opera di Carroll, il suo mondo onirico, le ambiguità di parole e sensi, il fascino dell’infanzia innocente vagamente crudele, la capacità di mescolare morte e divertimento, paura e ironia, in creazioni sempre limpide, geometriche, insinuanti. E l’ultima opera, Alice vietato > 18 anni – creazione di Chiara Lagani e Luigi de Angelis, con Virginiasofia Casadio, Sara Masotti e Marco Molduzzi, presentata al Teatro al Parco sia la sera che la mattina per le scuole – si compone di molteplici citazioni, battute, immagini, giochi di parola proprio da Alice nel paese delle meraviglie e Dietro lo specchio, la regina di cuori e gli scacchi, una vasta superficie riflettente in una condizione di scoperta e di prigionia ad un tempo.
Una maestra e il dettato, il pubblico che si osserva nel grande specchio di fronte che si rivelerà parete trasparente: oltre la soglia un altro tempo, la scena del teatro come una strana, insicura aula scolastica, il pavimento a scacchi, di gomma piuma, che rende i movimenti insicuri, instabili. Tra letteratura e matematica, follie di versi, domande impossibili e paradossi logici, lettere dell’alfabetiere, cartelli in bella scrittura, un tavolino che resta sospeso, rotto e intero ad un tempo. Sproporzioni, una gattina immaginaria, bianco e nero alternati, viaggiare per restare nello stesso posto: dietro lo specchio nel mondo rovesciato dei sogni. Occhi di luce/insetto artificiale che scrutano, un braccio mobile come nelle fiere: ma per essere afferrati! Creature da laboratorio? Il mondo dell’inconscio dentro cui rovistare? Ricerca pericolosa! E non può mancare il controllore “super io” pronto a dare ordini… un po’ confusi in verità! E cosa rispondere alla quarta casella: sei felice? E c’è anche il rischio di perdere la propria identità quando cambiano i nomi delle cose e delle persone. Remi di gomma/ferri da maglia, uno strano vento, versi di pecora: e le immagini, le parole, si confondono con la realtà stessa. Ma: ci si può sfamare così? Vana si rivela la logica in un mondo di strane connessioni, assemblaggi misteriosi della nostra mente in un’altra dimensione. Festeggiando il giorno del non–compleanno! Con molte più occasioni per ricevere regali! Un libro sospeso, le grandi pedine, nuove apparizioni… Il mondo di Alice, lo spazio scenico come itinerario kafkiano, un’unica stanza dove smarrirsi come in un castello/processo tra ansie e visioni: per essere infine condannati? Anche in Alice si decreta morte con noncuranza. Travolti dall’incubo: ma potendone sorridere nel gioco del teatro.
Ma lo specchio di Alice non mostra più meraviglie, di Franco Quadri, La Repubblica, 3 marzo 2003
A un gruppo ricco di stile e di cultura come Fanny & Alexander, premiato anche all’estero, bisognerebbe chiedere di allargare la sua ricerca al di là dei compiacimenti per le proprie mitologie. Tornare ancora una volta all’Alice di Carroll, può portare a esercitazioni eleganti ma meramente esplicative come questa trascrizione delle peripezie della bimba attraverso lo specchio, forse vietata a ragione ai maggiori dal titolo, se è vero che i piccoli partecipano con maggior gioia all’avanzata dell’eroina da una casella all’altra, verso il confronto conclusivo con le due regine. La scena è una scatola di vetro e all’inizio fa da specchio per il pubblico che si vede riflesso, mentre una ragazza alta e snella (Sara Masotti) lo spia con un binocolo: è l’istitutrice che tra poco entrerà in scena ad accompagnare il viaggio di Alice, quasi fosse una scuola dove dà le sue lezioni private. A cominciare dalla Regina bianca, si traveste allora negli interlocutori dell’allieva: e Virginiasofia Casadio, tredicenne, è una presenza eterodiretta, armata di lenti, microscopi, lampade speciali, che affida al microfono le parole della sua battaglia contro i molti sensi delle parole, in uno spazio gommoso dove il corpo rimbalza. Ma la preparazione meticolosa, rigidamente suddivisa tra Chiara Lagani (in particolare per la drammaturgia) e Luigi de Angelis (regia e scene), si esaurisce nel perfezionismo didascalico di una lettura piatta, senza ironia né scatti inventivi.
Nella tana di Alice, di Paolo Maier, Il Caffè del Teatro, marzo 2003
Alice nella casa del Grande Fratello Teenager. I maggiorenni non sono ammessi. Loro potranno vedere da fuori, non visti, attraverso una parete a specchio, potranno sentire attraverso i microfoni che porteranno fuori le voci di dentro. Ma l’ingresso resterà interdetto. Quello spazio resterà loro misterioso. Vedranno e sentiranno tutto, e non sarà abbastanza. Il mito di Alice, Lolita vittoriana, moltiplicherà le sue domande.
Presenza costantemente evocata nelle loro produzioni, da Ponti in core a Requiem, l’intraprendente-innocente creatura del reverendo Charles Lutwidge Dogson, insegnante di matematica e logica celatosi sotto lo pseudonimo di Lewis Carroll, si manifesta compiutamente nella recente creazione di Fanny & Alexander, in Alice vietato ai > 18 anni, secondo appuntamento spettacolare del Festival lungo un anno promosso dall’associazione MicroMacroFestival, Teatro delle Briciole Teatro al Parco.
L’amato gruppo ravennate incontra il mito dell’infanzia, recentemente evocato dalla sorprendente e straordinaria presenza del bianconiglio che attraversava il mito di Orfeo ed Euridice rievocato in Requiem, e ne fa nuova icona della propria ricerca teatrale, da sempre tesa a scandagliare le linee d’ombra dell’infanzia e dell’adolescenza, stato nel quale il gruppo si è dato bergmaniano battesimo.
Il regista Luigi De Angelis gioca col linguaggio e scrive le sue note di regia in forma di Teorema dell’ABC, nel quale trovano alfabetico compendio le grandi questioni letterarie suggerite dai due racconti, il linguaggio, l’educazione, le regole del senso e del nonsenso, e quelle sceniche da lui proposte che vi s’innestano perfettamente. Così la risalita della caduta, la rinnovata ricerca del sé passa attraverso la parola, privata però del soggetto mediante la macchina dell’amplificazione, ovvero, secondo la lezione di Carmelo Bene, attraverso la foné. Così il nonsenso si manifesta, in quel geometrico angusto spazio, nelle pareti e nel pavimento di gomma, materiale non commensurabile che nega paradossalmente la sua forma, dipendente dall’azione di un soggetto, dal peso, dalla pressione. “Questo luogo non ha colori – scrive Luigi De Angelis – è in bianco e nero, non garantisce la sfumatura, è un sì o un no, e qui vige la regola geometrica, la regola ferrea degli scacchi. Tra una linea e l’altra l’inciampo possibile in un pavimento gommoso […]. Captiamo ogni parola della bambina mediante un microfono ben esibito: noi siamo pronti a una nuova diretta, come nel caso di Alfredino a Vermicino. Vogliamo captare ogni inciampo, ogni vibrazione. Cosa succede a una bambina se la catapulto in una tana scolastica, esposta al lookism degli adulti qua fuori, per di più muniti di una protesi per catturarne i suoni, le parole? Potrà riscattare le proprie cadute? Mediante cosa? E’ possibile trovare il colore, la vitalità, abbandonarsi a un fluido divenire in un luogo incasellato, così compresso e geometrico, dove la stessa recita è il compito designato? Può l’infanzia rimanere tale, soprattutto nelle pieghe di una logica adulta? E ancora, siamo noi che guardiamo, dentro lo specchio, o viceversa?”.
Alice fa meraviglie a soli dodici anni, di Federica Angelini, Il Resto del Carlino, 22 gennaio 2003
Cosa succede quando una compagnia complessa e talvolta criptica come Fanny & Alexander decide di allestire uno spettacolo come Alice vietato ai maggiori di 18 anni, rivolto a un pubblico anche di ragazzi? Succede che la tradizionale modalità di lavoro della compagnia viene sovvertita per dare vita a un esperimento volto a catturare la soggettiva dei bambini, mettendo al centro della scena una ragazzina. E Virginiasofia Casadio, appena dodici anni, di questo spettacolo non è solo l’ottima interprete, ma anche una sorta di coautrice. “Malgrado sapessimo che sarebbe stata una scelta rischiosa – spiega Chiara Lagani, autrice del copione tratto da Alice attraverso lo specchio di Lewis Carroll – abbiamo voluto lavorare con un bambino proprio per riuscire a cogliere il suo punto di vista rispetto al testo e catturarne le parole. Così abbiamo lavorato a canovaccio, senza battute scritte, per consentire a Virginia di muoversi liberamente e improvvisare, pur dentro regole codificate”. Il risultato è uno spettacolo che gode di una freschezza e leggerezza inedite nel lavoro di Fanny & Alexander, dei quali invece si riconosce l’originalità delle scene e la forza immaginifica. Dietro un vetro, sul palcoscenico, in una stanza deformabile, di gomma e legno, dove gli stessi oggetti tornano più volte modificati nelle dimensioni e nel significato, con un meccanismo di ‘riciclo dell’immagine’ vicino al teatro di figura stesso, Alice racconta il suo viaggio in un mondo a rovescio. Ad accompagnarla per lunghi tratti, i più godibili per ritmo, l’attrice Sara Masotti, bravissima nel ruolo di un’antagonista anch’essa in continua trasformazione e Marco Molduzzi che, invisibile come un burattinaio nella baracca, dà vita allo spazio scenico. Lo spettacolo, che ha debuttato la settimana scorsa con un buon successo di pubblico, da oggi, fino a domenica, torna in replica alle 21 ad Ardis Hall (Via Bondi, 3), sede e laboratorio della compagnia.